Quattro Milioni/VII
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VII.
Egli era uno de’ più simpatici uomini della provincia di Salamanca, sua patria, e aveva quarant’anni suonati. I pilluelos di Madrid lo chiamavano un pisaverde, che equivale al nostro uomo galante.
Viaggiava buona parte dell’anno, un po’ per suo diporto e nella speranza di trovar l’ideale della sua fantasia e del suo cuore, e un po’ per conto del suo governo, il quale lo aveva incaricato, lui studioso di economia politica e di legislazione, di fare studi comparativi sulle legislazioni penali e sui sistemi penitenziari degli altri stati europei, da servire per una grande riforma del codice criminale e delle carceri in Ispagna.
Aveva perciò viaggiato già mezz’Europa ed era stato anche agli Stati Uniti a prendere cognizione de visu del sistema filadelfiano.
A... non c’era mai venuto; ma avendo udito come qui ci fosse un grande ergastolo, dove avrebbe potuto trovare dei preziosi dati statistici e fisiologici pe’ suoi studi, vi era accorso contando di fermarcisi qualche settimana.
Don Gonzalo era socialista nel senso moderato e sano della parola.
Da uomo pratico, quantunque di cuore ardentissimo trattandosi di bel sesso, nato nella più autentica aristocrazia di Salamanca, egli pensava che le evoluzioni e le riforme fossero mille volte preferibili alle rivoluzioni e alla anarchia.
E quantunque tale verità non si potesse dire che l’avesse proprio scoperta lui pel primo, neppur in Ispagna, pure egli ci teneva.
Re Amedeo, quando fece l’imprudenza di accettare il posto di travicello in casa altrui, lo aveva assai distinto e onorato fra i nobili Spagnuoli. A Zorilla e a Gonzales Bravo don Gonzalo dava del tu, quel tu pur così raro in Spagna. Con Espartero duca della Vittoria egli era come pane e cacio, e negli archivi di Salamanca egli era riuscito a trovar modo di provare come qualmente un suo antenato amicissimo del Cid avesse fatto saltare dal busto nella battaglia di Cordova le teste di sette mori l’una dopo l’altra.
Con questi ed altri meriti nascosti, co’ suoi occhi fulminei e le sue chiome corvine, e facile imaginare come il marchese di Turrone trovasse buone accoglienze nella città, che è la scena della nostra storia.
E la trovò tanto buona, che quindici giorni dopo il suo arrivo aveva già dichiarato ch’egli ci avrebbe passato volentieri il resto de’ suoi giorni e che avrebbe derogato fino ad accettar volentieri la carica di console spagnolo.
Ammesso nel Club della high-life, presentato in parecchie case della prima nobiltà, non che in quelle della ricca borghesia e della banca, dove si dànno delle feste da ballo frequentate volentieri dalle grandi dame e dai loro inquartatissimi mariti assidui ai buffè, il marchese Gonzalo si trovò di star così bene, che quel desiderio di fermarsi, espresso già sul principio come una aspirazione, si fece una realtà; tanto che, lasciato l’albergo dov’era disceso, s’accasò in un bell’appartamento in quella strada principale, che in quasi tutte le città d’Italia si chiama il Corso.
E passava le sue giornate per un quarto, ne’ suoi studi sociali e giuridici, e per gli altri tre quarti nel far l’uomo galante e la bella vita.
Egli aveva una di quelle tempre energiche e potenti in cui la violenza dell’istinto amoroso è una fisica necessità.
Di statura alta, con due spalle da Ercole Farnese, con due occhi che foravano il bronzo, rivelava da tutta la persona una formidabile virtù erotica. Contuttociù il suo aspetto era tutt’altro che quello d’un toreador o d’un costalero. Si capiva lontano un miglio che un suo antenato aveva dovuto tagliar la testa di sette mori uno in fila all’altro, come aiutante di campo del maresciallo Cid.
Un giorno, quattro o cinque mesi dopo il suo arrivo, che aveva invitati a far colazione in casa sua tre giovani signori, coi quali doveva il giorno dopo far una partita di caccia nelle montagne — giacchè don Gonzalo tra le altre cose amava assai anche la caccia e trovava il tempo di far tutto, - si venne sul discorso di un certo arresto fatto la stessa notte, e che aveva prodotto in città uno scandalo inaudito.
Don Gonzalo aveva letta la cosa anche lui sul giornale del mattino, ma non conoscendo menomamente la persona a cui si alludeva, non ci aveva badato più che tanto. Si interessò moltissimo e subito, quando gli amici gli dissero che l’arrestata era bella molto e passava per essere l’amante del duca Raimondo Delpardo, a cui egli era stato presentato al club. Gli aggiunsero che si trattava d’un vero romanzetto misterioso, in cui c’entrava la cupidigia, la furfanteria, la smania di farsi sposare, o quanto meno di farsi fare una carta d’obbligo.
— Une coquine! - sclamò don Gonzalo.
— E come! Chi l’avrebbe detto! Con quegli occhi da serafino e quei capelli che parevano matasse d’oro e di luce....
— Molto bella dunque? - domandò lo spagnuolo a cui già brillava lo sguardo.
— A chi piace è bellissima - rispose l’amico - A me, per esempio, è antipatica come il fumo negli occhi. Io credo ch’ella sia la personificazione e la quintessenza dell’egoismo, dell’avidità e della freddezza.
— Gigi non le può perdonare d’essere stato condotto un po’ per le belle sale - osservò un terzo.
— Ma che belle sale! Ell’è una volgare coquette e null’altro. Accivettita cogli occhi, le si crede, essa promette, lascia sperare, ti tira fino al punto da credere ch’ella sia innamorata di te; poi, quando si tratta di venir al tandem, patatrach, ti ride in muso. Bel vanto!
— E voi, conte? - domandò Gonzalo al quarto commensale, che era rimasto fino allora in silenzio.
— Ah, io bevo!
— Va là, che ancor tu hai provato la sua perfidia e fosti un po’ piccato.
— Ma che piccato! Io non mi ricordavo neanche più ch’ella esistesse.
— Vorresti forse negare che anche tu le hai scritto una lettera di fuoco, che essa mi fece leggere un giorno ridendo assai delle tue frasi vulcaniche?
— Ah, forse quand’era a Napoli, con Guillaume....
— A Napoli o altrove, fa lo stesso.
— Sì, non lo nego, ma la prima fu lei a farmi la corte.
— In che modo?
— Cogli occhi. Ella mi guardava in modo che io stavo sempre per poco a non chiamar i pompieri....
— Caspita! - sclamò il marchese in pretto spagnuolo - vorrei bene conoscerla anch’io codesta creatura.
— L’avvicinai, le feci la mia corte d’un’ora, ella mi confessò di sentire per me una grande simpatia; ma promesse d’amore mai. Fu allora che le ho scritta la lettera che tu dici di aver letta.
— E poi e poi?
— Dopo mi promise mari e monti. Mi tenne delle ore a far il piede di gru in istrada, mi forzò ad accompagnarla qua e là per far credere che io fossi il suo amante, mi fissò appuntamenti per trovarmi da solo a solo con lei.
— E non venne mai? Come me!
— Come la chiamate voi una donna simile?
— Una civetta.
— Una drôlesse.
— Noi in Spagna la chiameremmo desollada.
— Che cos’è veramente una desollada? - domandò il conte.
A questa domanda la conversazione si fece più viva e generale. Degli altri, ciascuno voleva dir la sua, per far vedere che sapeva lo spagnolo.
— Sentiamo prima il nostro anfitrione che ne sa più di noi - gridò Gigi.
Naturalmente, tutti si arresero alla proposta.
— Io non credo - disse don Gonzalo - che ci sia bisogno di andar tanto a cercare il pelo nell’uovo, per definire la desollada. Nel senso proprio, desollado vuol dire scorticatore; ma non ci ha nulla a che fare col senso figurato. Desollada è una donna perduta, ma vuol dire anche una coquette, una ingannatrice, una drôlesse insomma. Da buon cristiano cattolico quale mi vanto di essere, io credo che la coquinerie della donna sia cominciata precisamente dalla prima femmina nel paradiso, e che nel mito biblico del pomo non ci sia altro di vero che un po’ di desolladura da parte di Eva. La desolladura è il fondo eterno del carattere della donna, nè io saprei condannarla assolutamente.
Questa lezione di lingua spagnuola era troppo filologica per quella gente accanita contro Ida Evanieff.
— Io sono pronto a riconoscere - disse Gigi che moralmente parlando don Gonzalo ha ragione. Ma io considero la civetteria femminile sotto un altro punto di vista, e dico che essa è una cosa detestabile, perchè non può essere unita che alla mala fede e alla perversità.
— Uh, che parolone! - sclamò lo spagnuolo.
— Chi di voi non fu vittima incruenta, se volete, passeggera, ma pur sempre vittima, di qualche civetta, mi scagli la prima pietra.
Nessuno alzò il braccio, tanto più che di pietre a tavola non ce n’era.
— Sentiamo ora il nostro taciturno - disse don Gonzalo. - Che definizione date voi di una civetta?
— La civetta - rispose Osvaldo, contraffacendo il Ferravilla nella Class di Asen - la civetta è un volatile che specialmente i chierici in campagna mettono sul paletto, per pigliare gli uccellini.
Questa uscita inaspettata fece ridere i compagni.
— Le donne - sclamò il terzo invitato che non voleva star indietro dal dir la sua, quantunque dovesse ben capire che dopo il successo di Osvaldo la sua trovata sarebbe valsa pochino - le donne, come dice Hamilton, sono molto civette prima del matrimonio, ma però dopo il matrimonio lo sono ancora di più.
— Non c’è male! L’inopinato non manca - osservò don Gonzalo, che andava matto per tutto quello che rivelasse fosse pur l’ombra dello spirito. - Dunque - ripigliò - questa signora Ida Evanieff, amante del mio caro duca, è una coquette fieffée.
— Questo è ancora il meno - saltò su Osvaldo - io so di questa signora dalla figura angelica, delle cose tanto abbominevoli, che allorquando mi dissero che l’avevano arrestata, ho pensato fra me: tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino.
— Che dianbre avrebbe fatto? - domandò lo spagnuolo, e qualcun altro, ad una voce.
— Avete voi letto i Trois Mousquetaires di Dumas?
— Caspita!
— Chi non li ha letti?
— Vi ricordate di quella miss o mistress che fosse, alla quale D’Artagnan inflisse il castigo meritato?
— Si, mistress Wulten.
— Bene; fate conto che la signorina Ida Evanieff, l’amante del duca Raimondo, sia una Wulten.
— Ma i fatti - domandò il conte - ci sono dei fatti o non sono che voci vaghe?
— Altro che fatti! Io so certi trucchi usati da lei, che sembra una sanctificetur, degni di oscurare la fama di una fattucchiera.
Osvaldo raccontò una certa storiella che si affibbiava alla Ida, nella quale essa faceva la più triste figura del mondo.
Nessuno lo smentì.
Il giorno dopo, i cinque amici andarono a caccia e stettero lontani dalla città una decina di giorni.
Di ritorno, don Gronzalo non si ricordava, più che a questo, mondo esistesse una donna col nome di Ida Evanieff, nè che l’avessero arrestata sotto la imputazione di supposizione d’infante.
La pittura che i suoi amici gli avevano fatto i quella donna non era certo propizia a scolpirgli quel nome nella memoria.
Don Gonzalo era un gentiluomo pieno di rettitudine e di cuore. Egli non s’interessava che delle cose belle, nobili e grandi. Dei vizi, delle traversie, delle mostruosità sociali, egli non si curava se non coll’idea di portarvi i rimedi della propria filosofia e dei proprii mezzi.
Ma qui non sarebbe stato il caso, ancorché si fosse ricordato di lei.
Verso le due fece attaccare, per andar a far una nuova visita al carcere penitenziario, allo scopo di proseguire il suo studio prediletto e di riguadagnare i giorni perduti alla caccia.
Quella era, salvo errore, la sua quarta ispezione, e trovava di essere ancora molto indietro.
Nelle prime volte si era occupato della costruzione materiale di quel grandioso stabilimento del delitto. Oggi ci andava per vedere e toccar con mano il trattamento dei rinchiusi, per visitarli nelle loro stanze, per discorrere con loro, sentir da essi come fossero trattati e quali impressioni riportassero dall’essere rinchiusi soli nella cella.
Giacchè, poi, don Gonzalo aveva su questi punti certe speciali idee, e non si lasciava persuadere tanto facilmente dai pretesi e decantati progressi della scienza. Oh! lui andava coi piedi di piombo, e prima di accettare a occhi chiusi una riforma, voleva andarci in fondo ed esserne persuaso in scienza e coscienza. Egli aveva constatato, in America, che l’isolamento aveva prodotto in que’ penitenziari molti casi di pazzia e di suicidio, e se ne preoccupava grandemente. Il suo spirito altamente umanitario non gli permetteva favorire una riforma che aveva per effetto rendere pazzi e suicidi tanto più coloro che la giustizia non aveva ancora dichiarati colpevoli.
Don Gonzalo fu ricevuto dal direttore del Cellulare con tutti gli onori dovuti al suo grado e alle convenienze diplomatiche.
Prima di mettersi in giro pe’ corridoi fu fatto entrare nel gabinetto del direttore, dove egli mosse qualche domanda preliminare, chiedendo licenza di fare qualche annotazione.
— Dall’ultima volta che ho avuto il piacere di vederla sono entrati dei colpevoli di molta importanza? Qualche assassino, qualche infanticida?
— No, grazie a Dio! - rispose il direttore - Sono tutti ladruncoli di quelli che noi chiamiamo borsaiuoli, o fanciulle perdute in rottura di regolamenti sanitari.
— Tanto meglio, tanto meglio! La morale pubblica se ne rallegra.
— Abbiamo però la levatrice e la signorina Evanieff, il cui arresto fece molto rumore.
Don Gonzalo a questo nome alzò il capo come per raccapezzarsi dove l’avesse udito, facendo greppo col labbro inferiore.
E si ricordò subito che di questa Evanieff s’era parlato assai in casa sua prima di andar a caccia.
— Sicuro, sicuro! E mi dicono che ella sia indiziata molto gravemente per supposizione d’infante, non è vero? Dev’essere una spregevole creatura!
— Non saprei dirglielo appuntino - rispose il direttore - So che contro di lei c’è l’accusa diretta della correa, la quale certamente non avrebbe confessato, accusando sè stessa di avere commesso un delitto imaginario.
— Ah, c’è l’accusa diretta della correa? figuratevi!
— Sicuro; la levatrice, una certa Orsola Marchisella, la quale le avrebbe portato un bambino, mentre pare provato che ella non sia mai stata incinta.
— Nientemeno! Che birba! - sclamò don Gonzalo.
Poi soggiunse:
— Ma come mai la levatrice ha potuto accusare sè stessa?
— Ha dovuto ammettere il fatto dinanzi all’evidenza degli indizi a suo carico.
— Probabilmente ella le avrà promesso del danaro per tacere, e non avrà poi mantenuta la parola!
— Può darsi. Il fatto è che in questo non saranno mai abbastanza lodati il giudice istruttore e il procuratore del re, che hanno dimostrato una sagacia ammirabile.
— Chi sono, di grazia?
— Il giudice istruttore è il cavaliere Deangelis, e il procuratore è il commendatore Virginio.
— E si sa in che modo siano venuti a scoprire l’intrigo?
— Ecco - rispose il direttore del Cellulare - A dir vero, il signor commendatore Virginio non avrebbe avuto alcun motivo di sospettare quel tradimento fatto al signor duca Raimondo Delpardo, che forse ella conoscerà.
— Certamente che lo conosco, povero duca; e se non gli ho fatto ancora le mie condoglianze per tale sua disgrazia, gli è soltanto perchè sono stato assente in questi giorni e non ho avuto occasione d’incontrarlo.
— Come dico, il procuratore del re non poteva sospettare quel delitto, se non ne fosse stato avvisato da lettere anonime.
Don Gonzalo, alla frase lettere anonime, corrugò la fronte, e la sua fisonomia leale e serena espresse un senso marcatissimo di disgusto.
— Caspita! - sclamò - in Spagna gli alti funzionari alle lettere anonime non ci fanno caso.
— Dirò. Il commendatore, infatti, nè alla prima nè alla seconda anonima non badò.
Questo lo so di certo, e lo dico a lei, marchese, in tutta confidenza. Ma poi, continuando esse sempre più stringenti e designando nome e fatti precisi, il procuratore del re fu obbligato di occuparsene e di agire.
— E si sa chi possa aver avuto interesse a svelare l’intrigo?
— Io so anche questo - disse il direttore ma non vorrei tradire un segreto di ufficio.
— Ella sa che con me non tradisce nulla.
Le ho mostrate le credenziali.
— È vero! Dicevo per obbligo di coscienza. Le dirò dunque che in questo processo c’è un mistero e un imbroglio terribile. Le lettere anonime accusavano la levatrice di avere procurato un bambino ad una signora della città, ma questa signora non sarebbe la Evanieff, secondo le anonime.
— Diantre! Come dunque potè essere arrestata la Evanieff?
— Fu arrestata in seguito alla denuncia fatta dalla levatrice stessa, la quale indicò la Evanieff come sua correa.
— Ho capito! Allora può darsi che i delitti siano stati due invece di uno.
— Non credo. Colui che scrisse le lettere anonime tentò di accusare una gran dama per tentare un ricatto o per veder modo di mandar a monte un testamento per fruirne. Il processo metterà in chiaro ogni cosa.
Qui si parlò di altre cose, finchè don Gonzalo di Salamanca propose al direttore di cominciare un piccolo giro nelle celle.
E s’avviarono.
Dopo avere visitati quattro o cinque rinchiusi di nessuna importanza, giunsero dinanzi ad una cella che aveva l’imposta spalancata, e il direttore disse a don Gonzalo:
— Lì ci sta la signorina Evanieff.
Lo spagnuolo, seguendolo, s’affacciò all’uscio, vide Ida vestita di nero, in piedi accanto al suo lettuccio, in atto di chi, udendo avvicinarsi delle voci e dei passi, stia a vedere.
Egli si fermò ritto sulla soglia, come impietrito. L’effetto prodotto su di lui da quella vista fu assolutamente fulminante.
Cose codeste che accadono una volta sola nella vita, a chi accadono!
Bisogna dire che don Gonzalo avesse in mente un suo particolare tipo femmineo e che non l’avesse mai trovato neppur sotto il cielo della sua Andalusia, la quale va pur decantata per la bellezza voluttuosa delle sue donne.
Il fatto è che don Gonzalo, il quale aveva pur passati i suoi bravi quarant’anni, dinanzi a quella figura raggiante di malinconica bellezza, si trovò di averne diciotto. Provò una di quelle scosse potenti, che discendendo dalla nuca lungo la spina dorsale s’arrestano sotto la pianta de’ piedi e inchiodano un poveruomo al posto in cui si trova.
I suoi occhi si imbambolarono e pareva dicessero:
— Voto a Dios! Ecco il mio ideale, tante volte e così lungamente sognato invano!
Eccola la gratia piena, la creatura de’ miei pensieri, delle mie fantasticherie, delle mie notti, delle mie veglie! Eccola la donna fatale, desiderata, imaginata, ideata fin da’ miei sedici anni! È possibile che io ti trovi in questo luogo obbrobrioso? Ah no, tu non puoi essere colpevole. Io sarò il tuo paladino. Prendimi; io sono da questo punto il tuo sostegno, n tuo salvatore, il tuo amante, il tuo schiavo,’ il tuo zimbello. Tu sei la mia dea, la mia, speranza, il mio avvenire.
Come per incanto, le innumereyoli bellezze del corpo e dell’anima di quella prigioniera di cui aveva sentito dir tanto male, gli si spiegarono dinanzi. Quegli occhioni celesti, lagrimosi e sbattuti, che la Ida aveva riabbassati modestamente dinanzi a’ suoi due carbonchi avidi e pieni di simpatia, gli parvero la maraviglia d’ogni maraviglia. Quelle labbra voluttuose ed umide gli sembrava già accogliessero i suoi baci furenti; ma sopratutto lo vinse quella tinta caucasea, alla quale lui spagnuolo sentiva come riscaldarsi il cuore, e che gli dava il presentimento di tutte le estasi più raffinate di cui sia capace una natura tropicale.
Don Gonzalo era fatto così! Era l’antitesi del duca Raimondo Delpardo.
Egli era anche però troppo serio e troppo diplomaticamente rotto alle emozioni della vita per non saperle dissimulare.
Si volse dunque al direttore del Cellulare, come se volesse chiedergli il nome della signora, e con voce che voleva essere indifferente chiese: - È dunque lei?
— Sì; madamigella Ida Evanieff - disse il direttore leggermente imbarazzato anche lui - della quale abbiamo discorso poc’anzi.
Don Gonzalo allora diede due passi verso la donna, che era rimasta immobile cogli occhi sempre abbassati al suolo, aspettando che i due signori le dicessero lo scopo della loro visita.
— La prego di scusare, signora - disse don Gonzalo con voce leggermente tremula - se attratto da una legittima curiosità e dal presentimento vivissimo della sua innocenza, ho chiesto al signor direttore il permesso di vederla.
— Troppo gentile - rispose Ida a voce fioca, levando finalmente i suoi occhioni umidi in viso allo spagnuolo - li prego di accomodarsi.
E tacque, sedendosi per la prima sulla sponda del suo letticciuolo.
Il direttore presentò una sedia allo spagnuolo e si sedettero.
— Di quale mancanza alla legge è dunque imputata la signora? - domandò don Gonzalo, affettando la più grande freddezza - per trovarsi in un luogo che io amo di supporre assolutamente indegno di lei?
— Lo credo! - disse a voce spenta la fanciulla, senza- levare il capo.
— Ma, ecco, il rapporto parla di supposizione d’infante, reato previsto dall’art. 526 del codice penale - rispose il direttore.
— Supposizione d’infante! - ripetè lo spagnuolo, tentando di sorridere e guardando fissamente la Ida.
La quale s’era fatta in viso come di fuoco, ma con voce schietta e sincera disse al direttore:
— E lei è forse tra quelli che credono a questa enormità?
— Cara signora - rispose il direttore - io non credo mai al delitto finchè esso non venga provato. Questo carcere che io dirigo è sempre pieno, per me, di disgraziati e di innocenti fino a prova in contrario.
— È però una cosa terribile! - sclamò Ida coll’accento del più cocente sdegno frenato a stento.
— Questa donna è innocente! - pensò don Gonzalo fra sè. - Non ne dubitavo dal primo sguardo!
E non gli passò neppure per la mente l’altro termine dell’alternativa: Oppure essa è la birba più matricolata che io abbia mai conosciuto!
— È già stata esaminata? - domandò lo spagnuolo.
— Venne un signore.... che io non saprei come qualificare.
— Il signor giudice istruttore? - domandò don Gonzalo volgendosi al direttore.
Questi fece cenno di sì col capo.
— Ma io, non so se ho fatto bene o male, ho sdegnato assolutamente di rispondergli.
— Perchè? - domandò lo spagnuolo.
— Perchè giustificandomi mi sarebbe parso o d’impazzire o di essere una grande imbecille.
— Questa donna è innocente! - ripetè don Gonzalo fra sè.
— Nè io mi degnerò mai di dire una parola in mia difesa, giacchè poi avrei vergogna di me stessa. Io voglio che la vergogna resti intera ai birbanti che mi hanno accusata, o ai miserabili che hanno creduto alla calunnia.
— Che donna! - pensò don Gonzalo, sentendosi ribollir sempre più veemente nelle vene il suo nascente amore.
Alla parola miserabili, il direttore fece: Oh! ma non prese le difese del procuratore del re e del giudice istruttore, i due compresi in quell’epiteto un po’ ingiurioso.
Disse soltanto:
— Bisogna però ammettere che il signor procuratore del re si sia fondato su qualche cosa, per poter venire all’estremo del suo arresto.
— Io non so davvero su che cosa si possa essere fondato il signor procuratore del re rispose fieramente la Ida. - A me pare evidente una cosa sola. Se, prima di arrestarmi, il signor procuratore del re si fosse rivolto a chiedere informazioni di me a colui che in questo affare sarebbe il vero e solo danneggiato, io non potrei essere in questo luogo.
Salvo che il signor duca Delpardo non sia divenuto il più finto o il più debole degli uomini, è impossibile che egli non dicesse tali cose al signor procuratore del re e al signor giudice istruttore, per le quali la mia innocenza sarebbe risultata chiara, evidente, manifesta, indiscutibile.
Il direttore e don Gonzalo si guardarono in viso.
Quella ragione detta con una sicurezza, con un accento di verità, con una foga convincentissima, aveva dato loro una scossa.
— Ma come mai può essere accaduto un tanto errore? - domandò Gonzalo.
— Io l’ho domandato ormai cento volte a me stessa, ma non sono mai riuscita a immaginarmelo. So che la levatrice da cui ebbi l’assistenza, quando venne alla luce il mio Vittorio, mi accusa. Ella avrà una ragione per farlo, ma non sarò io certamente quella che andrò a cercarla. Io non sono fatta per voltolarmi nel fango.
— Che donna! - ripetè fra sè don Gonzalo.
Poi le disse:
— Lei avrà già pensato, non dubito, a chiedere il piede libero?
— Io no, non mi curo di domandar favori o grazie a degli assassini - rispose la Ida.
Il direttore fece nuovamente: Oh!
Ma vedendo che don Gonzalo sorrideva e ascoltava, non disse nulla.
— Credo però che Raimondo ci abbia già pensato - soggiunse Ida.
— Ebbene - disse lo spagnuolo - se ella permette, io pure mi occuperò di questo in modo che la sua prigionia non si prolunghi.
— Gliene sarò oltremodo riconoscente.
Il dialogo durò un’altra mezz’ora, finchè il direttore si alzò.
E qui, fatti i convenevoli, don Gonzalo e l’altro uscirono.