Quattro Milioni/V
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V.
La è una via quieta, senza botteghe, silenziosa, nella quale se tu entri dopo le dieci di notte è impossibile che non ti colga il pensiero di allungare il passo.
I lampioni vi paiono più radi che altrove, e le fiamme stesse del gas si direbbe subiscano quell’ambiente tetro e facciano meno lume degli altri. Le porte delle case si chiudono alle dieci. Se tu fossi assaltato in quella via dopo le dieci non troveresti rifugio di sorta.
Vi abitano impiegati in ritiro, vecchie pensionate, nobili spiantati, beghine e maddalene pentite, qualche artista e qualche letterato che ha bisogno di quiete.
Una sera di carnevale del 187..., con una nebbia che non lasciava scorgere la punta del naso, due uomini coi baveri dei paletò alzati sulle orecchie e i cappelli calcati sulla fronte passeggiavano innanzi e indietro per quella via, come gente che sta aspettando qualcuno.
Il più alto si volgeva spesso a guardare indietro e si mostrava impaziente. L’altro fischiava a sordino.
Che essi aspettassero una carrozza, si capiva da questo; che ogni volta che si udiva da lontano un rumor di ruote, il quale dicesse di avvicinarsi, s’arrestavano e tendevano l’orecchio.
Di quei rumori se n’erano fatti udire parecchi, ma erano svaniti via, per le contrade lontane; la strada tornava nel suo silenzio profondo. Non profondo del tutto, però; di carnevale, le notti di una città sono poco o molto animate da un certo vago e indistinto brulicar di susurri, che ronzano per l’aria cheta, e che si potrebbero chiamare appunto i bisbigli notturni del carnevale. Sono fiochi suoni di pianoforti, che partono da qualche casa dove si fan ballare le fanciulle; sono schiamazzi di ubbriachi che escono dalle bettole dei contorni; sono sibili o canti di passeggeri che ripetono, rincasando, la melodia udita poco prima a teatro.
Finalmente il più piccolo dei due sciolse la lingua e disse:
— Che le fosse capitato qualche contrattempo?
— Ma! Possibile! A quest’ora dovrebbe essere già qui!
— Ma perchè poi tu, invece di accompagnarla fuori di casa sua, sei venuto qui con me ad aspettarla? Non bastavo io, qui?
— Ho pensato che laggiù a casa di lei io non ci avevo più nulla a fare, e dovevo lasciarmi vedere il meno possibile.
Costui parlava con voce arrochita e cavernosa, di quelle voci che a Firenze si chiamano da becero e a Milano da forlinna.
— La chiave dello sportello l’avevo io continuò - e non credevo che ne aveste due, e allora ho detto, dissi, è meglio che mi porti la sul posto; così quando la carrozza arriverà, io avrò preparato aperto l’adito, ella scenderà col suo fardello sotto lo scialle, entrerà in fretta e io rinchiuderò lo sportello in barba a qualunque curioso che ci potesse essere intorno.
— Chi vorresti mai che ci fosse? Nessuno può immaginarsi! Piuttosto, ora, qui in due siamo di troppo. Io sarà meglio che monti su da lei.
— Fa il tuo comodo - disse l’altro - Sono certo che non passeranno cinque minuti che la carrozza sarà qui.
n più alto dei due interlocutori, il quale aveva un accento da persona educata, si spiccò allora dal suo compagno, si fermò dinanzi alla porta chiusa d’una di quelle case malinconiche, infilò la chiavò nella toppa dello sportello, aprì e scomparve ribattendo l’imposta.
Cinque minuti dopo, un brougham infilò a piccolo trotto la via e si fermò dinanzi alla porta, per la quale era sparito poco prima il messere.
L’altro, che era rimasto in strada, e che aveva preparato aperto lo sportello, apri quello del brougham, porse la mano ad una donna per aiutarla a discendere e le disse:
— Entrate, che io pago il brougham e poi vi faccio lume.
La donna, che stava avvolta in un ampio scialle d’indiana, scomparve col suo fardello sotto il braccio: l’altro pagò il cocchiere, poi la segui.
Il legno se ne andò, e la via rimase deserta.
Sul pianerottolo trovarono il signore più alto, che venne loro incontro con un lume in mano. La donna non salutò, non apri bocca; tiro via, ed entrò in una camera da letto, seguita dai due compagni.
Quella camera era illuminata blandamente da una lucernina posta sul tavolino da notte, accanto a un letto matrimoniale, senza sopraccielo, nè cortine. In questo stava una bella giovine in cuffietta da notte, che vedendo entrare la comitiva esclamò:
— Finalmente!
Insomma, c’è voluto i savi e i matti a persuadere la mamma puerpera a lasciarselo portar via.
— È bello? - dimandò la donna che stava a letto.
— Bello e sano come una lasca.
Così dicendo, trasse il fardello di sotto allo scialle, gli tolse d’intorno il panno con cui stava involto, e scoprì un neonato, nudo, ad occhi chiusi, che parea morto.
— Come ha fatto perchè non piangesse in strada? - dimandò uno dei due uomini presenti a quella scena.
— Un po’ di morfina nel latte.
— E la madre che cosa crede? - chiese Indonna che faceva la puerpera.
— Ch’io lo abbia portato a Santa Caterina.
— Ma suo marito lo sa che non l’ha portato a Santa Caterina.
— Sì, ma non sa che l’ho portato qui.
— Me lo giura?
— Oh che discorsi! Lo giuro.
Intanto il più alto dei due aveva pigliato fra le mani il bambino e lo stava esaminando; borbottò qualche frase indistinta che forse poteva essere una riflessione filosofica, poi riconsegnò il bamboccio alla levatrice, che cominciò a fasciarlo.
E il giovine, intanto, chinandosi sul letto della finta puerpera, prese a dirle delle cose buffe, perchè entrambi scoppiarono a ridere come pazzi.
Quando la levatrice ebbe finito di fasciar il bambino, egli la chiamò, ed uscirono insieme dalla camera.
La mattina seguente, la levatrice stava nella sua cucina a prepararsi la colazione.
Quella cucina era semplicemente lurida; lurida come la scala di casa, dove la loja di fango indurito, lasciatavi dai piedi di chissà quante generazioni, faceva sotto le piante dei bernoccoli; lurida come i muri delle latrine, tutte rabescate di sberleffi nauseabondi; lurida come le camicie e i giubbetti delle persone che abitavano quella casa.
Nella città d’Italia, in cui si svolsero i fatti che narro, di queste case dove regna la sporcizia ed il lezzo, nei quartieri della povera gente, ce n’è una gran quantità.
La levatrice andava dal focolare, dove aveva messo a bollire in un pentolino un po’ di brodo per la zuppa, alla tavola dove aveva cominciato a grattugiar del formaggio, seguita sempre da tre gatti che miagolavano per la fame, accompagnando avidamente collo sguardo i movimenti delle mani della donna.
Ed ella parlava ai gatti con una smancerìa tra il querulo ed il mellifluo che non avrebbe usata con nessuna creatura umana per quanto idolatrata. Li consigliava di aver pazienza, li chiamava ciascuno pel suo nome in diminutivo, aggiungendovi degli epiteti di ineffabile tenerezza. Era uno struggimento!
E veramente li adorava con tutta la potenza d’un cuore di madre, e più ancora.
La Bina, la Bolletta e la Tesora - pare che a lei non piacessero che le femmine - facevano le fusa, in segno di aggradimento, e nell’accordo dei tre rumori sordi, che partivano dalle viscere dei tre animaletti, la levatrice si beava tutta.
Un uomo, in assai mal arnese, entrò, andò dritto alla levatrice e le dimandò:
— E così, signora Orsolina?
— E fatto il becco all’oca! - rispose la levatrice fregandosi le mani.
— Dunque siamo ricchi?
— Non ancora.
— Come! ancora nulla?
— Poca roba. Ma ho la cambiale di seimila da rinnovarsi fino al giorno che verranno i denari.
— Dunque le mie tremila?
— Bisogna aspettare quando ne avranno... In ogni modo siamo intesi che l’interesse del sette per cento decorre da ieri sera.
— A me sarebbe piaciuto intascarli subito. Pochi magari; ma subito.
— Ma se ora non ne ha! E la Lena?
— Eh, povera Lena! Piange sempre - rispose l’uomo, che era il marito.
— Però è persuasa che io l’ho portata all’Ospizio?
— Oh questo sì. Ma temo che, appena appena potrà, mi parlerà di andarlo a levare.
— Le faremo vedere una fede di morte e dovrà consolarsi per forza. Poi verranno i danari e la consoleremo ancora di più.
— Dunque, per intanto, quanto mi dà?
— Ho avuti cento franchi in tutto e per tutto.
— Che miseria! dunque cinquanta per ciascuno.
La levatrice andò nella camera attigua e tornò con un biglietto di cinquanta lire, che consegnò allo sciagurato mercante di suo figlio.
L’uomo uscì, e andò all’osteria; scialò, si ubbriacò, e tornò a casa a tormentare la povera moglie desolata pel figlio strappatole dal seno.
Il duca Raimondo Delpardo volle imporre al neonato della sua Ida il nome di Vittorio, in omaggio al suo re.
Dichiarò nei libri battesimali d’esserne il padre.
Al Municipio, Vittorio fu registrato come figlio di Ida Evanieff e di padre ignoto.
La Ida stava benissimo, ma non aveva latte; e si dovette pensar subito alla balia, la quale venne procurata dalla stessa levatrice che aveva assistita la Ida a sgravarsi, e che era appunto la signora Orsolina Marchisella, che noi già conosciamo.