Quasi una fantasia/I
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I.
I GRANDI E I PICCOLI.
La bontà, il sacrificio, la disciplina, l’amore allo studio, l’affetto ai parenti e tante virtù e tanti doveri che s’insegnano ai ragazzi son tutte bellissime cose, così a parole; ma in realtà non sono che una lustra, un candido velo teso dinanzi ai loro occhi, dietro il quale i grandi nascondono le loro infamie e i loro impudichi segreti.
Perché bisogna sapere che il mondo si divide in due categorie: i grandi e i piccoli, tra cui ferve diuturnamente una lotta accanita: tragica ed impari lotta fra il male e il bene, fra i grandi forti, ricchi, prepotenti ed i piccoli che per il duro combattimento non sono armati che di una tenace e disperata volontà di vivere e anche, perché non dirlo?, di un’intelligenza più robusta e svelta. Sì, i piccoli sono più intelligenti, perché son essi che rinnovelleranno il mondo; mentre i grandi noi li vediamo beati nella loro ignavia, conservatori d’ogni più vetusto ordinamento, intenti solo ad angariare i loro nemici sotto il manto ipocrita dell’affetto e a nascondere in strani, spesso notturni conciliaboli i loro innominabili misteri. Ànno fini diversi, ànno armi occulte, ànno un cifrario per i segni convenzionali, per cui, anche senza far mostra, s’intendon fra di loro; sanno molte cose paurose che dovrebbero pur dire e che non dicono; — anzi s’industriano a renderle ancora più paurose per la cura gelosa che si danno di non tradirsi mai, nemmeno per isbaglio.
E così se ne vanno impettiti, bene abbottonati nel loro austero silenzio, alteri di quei loro famosi segreti che in fondo, poi, c’è da scommettere, saranno chissà quanto meschini.
Ma non occupiamoci di loro: professori, parenti, zii e sopratutto zie; e parliamo un poco di Renato e di Gino, che erano due cugini e avevano, agli albori del secolo ventesimo, dodici anni il primo e tredici il secondo.
*
I due cugini amavano l’Italia: non come il popolo che per un naturale impulso ama la patria e quando occorre si fa serenamente uccidere per lei; ma con ben altra passione: come Garibaldi, come Mazzini, come Antonio Sciesa: come i grandi martiri, i grandi condottieri, i grandi agitatori. Orbene: quando uno è tutto pervaso da sì nobili sensi, e con sicuro antivedere ordina già ora nella sua mente con ogni minuzia i futuri eventi, e li vede gravidi di fato, apportatori d’infinita gloria per sé e d’immenso bene per il mondo; quando uno sa con certezza, per dirla in una parola, tutto il valor del proprio genio, come potrà supinamente adattarsi alle molteplici costrizioni dei grandi, e sopratutto come farà a studiare? La scuola diventa allora un luogo di tortura.
Così stavano le cose per i due ragazzi; e peggio per Renato che frequentava una scuola tedesca.
La gran lotta non era ancora incominciata; ma la preparazione mediante molteplici addestramenti n’era evidente. Finora di concreto non v’era stata che qualche scaramuccia con i compagni di scuola, qualche pugno, qualche calcio, qualche ingiuria; deplorevoli intemperanze: la posta era troppo forte e meglio valeva usar di tutta la circospezione per non tradir prematuramente il giuoco terribile che andavan preparando. Occorreva vigilarsi meglio.
Così era stata una sciocca bravata quella di Renato col professore di storia a proposito di Federico Barbarossa. Perché aveva tanto magnificato la battaglia di Legnano? Nel suo racconto, goffo ed impetuoso, tutte le gesta di quell’imperatore si riducevano a minuzie senza importanza e solo aveva dato rilievo all’onta delle barbare distruzioni e allo sterminio che di lui e del suo esercito avevano fatto i gloriosi lombardi, assetati di vendetta «....come tutti i popoli oppressi, sempre e in ogni luogo !»
Il professore aveva finto di non comprendere. Solo gli aveva chiesto con un piccolo sorriso ironico:
— Dove à trovato tutti questi bei racconti? — E senza attendere la risposta: — Vada, vada pure al posto.
In molte altre occasioni i due ragazzi avevan troppo apertamente manifestato il loro sentimento. Vero è che le tentazioni non mancavano.
Il patriottismo aulico dell’Austria era insopportabile. Le feste per il vecchio imperatore si susseguivano in numero eccessivo: genetliaco, un paio almeno di onomastici, l’ascesa al trono, vari giubilei e, tant’altre, senza contare quelle per gl’innumerevoli suoi familiari tutti da lui odiati, ma che il popolo doveva amare e servire perché si chiamavano Absburgo.
In quei giorni la scolaresca di tutto l’Impero, in file bene inquadrate, condotte dagli insegnanti in alta tenuta d’ufficiale di stato, con feluca piumata e spadino d’oro, assisteva alla gran messa cantata delle otto. Finita la messa tutti dovevano intonare ritmo austriaco: parole infami che esaltano la prostituzione di popoli così diversi alla maestà di un vecchio tiranno e, quel ch’è peggio, rivestite della grave, solenne musica dell’Haydn, che altrimenti non andrebbero al cuore d’alcuno.
Ma sia come si voglia, quell’inno usciva da tante bocche in un accordo perfetto, e il suono dell’organo si spandeva per le vòlte maestose della chiesa in mistiche vibrazioni: i maestri e gli ufficiali, irrigiditi sfavillavano nelle loro uniformi, fieri di servire l’Austria; gli officianti dal canto loro servivan l’Austria in atteggiamento umilissimo, studiandosi di portar nel quadro severo una nota di soavitá. Ed il rito in onore del vecchio di Vienna, la cui effigie veneranda era dipinta e scolpita in ogni dove, soverchiava in tanta maestà la maestá stessa di Dio.
— Austria maledetta! — gridava dentro di sé Renato. — Come sai bene intrigare con tutti i mezzi per camuffar la tua iniqua tirannia in diritto divino!
E non aveva mai cantato quell’inno. Lo sguardo fiero, il labbro ostinatamente chiuso, aveva sempre sfidato le ire dei devoti funzionari dell’Impero. Non solo; ma s’era anche vantato di questa e d’altre prodezze.
Non aveva forse osato un giorno di citare al professore d’italiano (uno zoticone che sapeva l’italiano certo meno bene di lui) a proposito d’una questione di prosodia certi versi che c’era da finire in galera?
Con quel volto sfidato e dimesso |
— Che versi son questi? — - aveva gridato rabbiosamente il professore. — Si attenga ai libri di testo!
— Son del Manzoni: In morte di Teodoro Körner.
— Ah, bene bene — aveva brontolato quello, sentendo che in fin dei conti c’entrava in qualche modo un poeta tedesco. — Vada al posto.
E Renato, gongolante per il tiro giocato a quell’imbecille impettito, era ritornato al suo banco mormorando il seguito fra i denti:
O stranieri, nel proprio retaggio |
Ma la cosa non era finita lì; ché più tardi il professore l’aveva capita e non s’era lasciato sfuggire un’occasione di sfogare il suo rancore, appioppandogli degli affatto insufficiente alla menoma distrazione ed infliggendogli perfino, per una pretesa insubordinazione, sei ore di Karzer da scontare una domenica.
Ma poiché a ben altro eran destinati i due ragazzi, il loro imperioso dovere esigeva che si evitassero siffatte manifestazioni, lasciandole fare piuttosto ai patrioti di minor conto, tanto per tener desto il movimento; o piuttosto per iniziarlo, perché a vero dire tutto quel che si faceva in allora dai liberali sapeva spesso più di paura che d’eroismo, né mai la forca aveva lavorato così poco come in quelli anni.
Per essere più esatti, il movimento c’era; ma tutto interno, nei cuori; e raramente si manifestava con azioni contrarie alle leggi.
Tutto si riduceva a una serie non interrotta di vicendevoli dispetti fra polizia da una parte e popolazione dall’altra, nei quali però quella metteva un malanimo e una brutalità di schietta marca austriaca, questa la sua inesauribile vena di trovate peregrine, di motteggi spiritosi, di sferzanti ironie.
*
Bisognava dunque sorvegliarsi meglio.
Già! bisognava.... Ma si sarebbe detto che un fato incombesse sui due ragazzi, che li sospingeva a loro malgrado verso la via dell’aperta ribellione.
Quella che doveva essere secondo i loro piani una meditata e lenta preparazione delle loro forze, ben fasciata di mistero fino al giorno ancora lontano della riscossa, s’avviava a mano a mano verso una prematura fase di vivace attivitá. Codesto precipitar delle cose era biasimevole assai, perché poteva riuscir funesto non solo a loro stessi, per castighi e condanne, ma anche all’idea cui dovevano un giorno servire con una improvvisa ed inaspettata esplosione di tutte le loro forze.
Ma era difficile lottare contro quella corrente che li travolgeva.
Nella scuola le cose s’ingarbugliavano. L’ambiente diventava sempre più ostile. Qualche professore da un po’ di tempo aveva preso a odiarli, specialmente quelli delle materie più ostiche: chimica per Renato, latino e greco per Gino.
Era poi naturale che più il professore li odiava, più aumentasse la riluttanza a studiar la sua materia.
Un vago sospetto che, per avventura, le cose stessero diversamente e che tale illazione fosse da porre, sí, ma in senso affatto opposto, era stato da loro immediatamente rigettato come cosa evidentemente assurda. Puzzava troppo di «raccontino morale».
Odioso lo studio; odiosi i professori, che non ánno né fantasia, né giusto metodo, né comprensione della vita com’è — e tanto meno di quel che v’è da fare per migliorarla —; odiosi i compagni nella loro mediocrità grigia, nelle vanterie meschine, proni a terra al menomo cenno d’un grande: era davvero impossibile tirare avanti a soffrir cosí, senza mai concedersi nemmeno un piccolo anticipo su quella meravigliosa messe di libertà che dovevano cogliere un giorno per sé e per il mondo intero.
Incominciarono di quanto in quando a marinare la scuola.
Brutta cosa. Ma chi li aveva spinti a ciò? Proprio quelli che più se ne sarebbero sentiti offesi e traditi se l’avessero saputo: i grandi.
Potevano trascorrere così intere giornate in libertá, andare al caffè, fumare, far piani per l’avvenire, assaporando l’acre gioia dell’inganno teso ai parenti ed ai maestri, ma sopra tutto gustando il divino piacere di stare insieme e di scambiare gli intimi loro pensieri con la certezza d’essere compresi. Spesso pensavano le stesse cose nello stesso momento. E che giubilo nel constatarlo! Si dicevano allora dantescamente: «Io m’intuo e tu t’immii».
Discutevano di svariatissimi argomenti e per lo più si trovavan d’accordo su tutto. Ma accadeva pure che su taluna cosa vi fosse gran divergenza di vedute. Allora la disputa s’accalorava, si agitavano gridando le loro ragioni, rossi in volto; ma cosí, per il piacere di battagliare. Chi li avesse osservati, ne’ loro occhi brillava ancor più viva la fiamma del puro affetto.
Entrambi sapevan bene come l’amico fosse di levatura morale infinitamente superiore a tutte l’altre persone di loro conoscenza e com’egli fosse, insomma, la crisalide d’un grand’uomo. Per cui il constatare una diversità d’idee sulle vie da percorrere, uniti com’erano negli alti scopi, non poteva mai portare a una diminuzione di stima o ad un allentamento de’ loro legami.
Al contrario ciò serviva a conoscersi e quindi a stimarsi di piú; e proprio il bello di tali dispute era questo balzar fuori di certi tratti del carattere, così che nella loro fantasia, sempre avidamente protesa verso il futuro, potevan dar mano a tracciare un primo abbozzo di quelle che sarebbero state un giorno le loro figure.
Quando il tempo era brutto passavano molte ore al caffè; un caffè né austriaco — che ci avrebbero potuto incontrare qualche professore della scuola tedesca di Renato — né liberale — che ci avrebbero sicuramente incontrato qualche parente o conoscente —; un caffè fuori mano e de’ pochi ch’erano senza colore politico.
Che bellezza aver tutta per sé la giornata, fin dalle otto della mattina!
Giungevano puntuali, uno da una porta, l’altro dall’altra. A quell’ora il caffè era quasi deserto e nel silenzio della vasta Sala rimbombava fastidiosamente il rumore di qualche sedia smossa e la voce stentorea del cameriere che ordinava al banco: «due neri per i signori!». Se l’avesse fatto con un po’ di discrezione, in tono più sommesso, gliene sarebbero stati grati.
Quando per caso un de’ due ritardava, che ansia per l’altro, che pena!
— E se non venisse?
Con che cruccio allungava allora il collo sbirciando oltre i vetri, per scorgerlo se mai un momento prima!
Ma l’altro giungeva immancabilmente. Dava un’occhiata indifferente in giro, socchiudendo gli occhi, per dissimulare la sua propria ansia di non trovare l’amico e, scòrtolo, veniva pian piano a sederglisi vicino.
Non si sorridevano: si salutavano appena con un cenno, leggermente sdegnoso, come se si trovassero per caso e non gliene importasse un gran che. Con quel contegno serio e riservato nessuno li poteva pigliare per due monelli scappati.
E così anche il vecchio cameriere mostrava di tenerli in gran conto e li serviva proprio senza l’ombra di un sorriso ironico sotto i baffi.
Ma forse era per i due soldini di mancia.
Fors’anche capiva tutto, ma se ne infischiava.
In un di quei giorni Renato giungendo al caffè trovò Gino tutto accigliato.
— Che t’è successo?
L’altro per un po’ non rispose. Poi, come concludendo un suo interno ragionamento:
— Non mi piace, non mi piace.
— Cosa non ti piace?
— Sai bene la stima che ò di mio padre.... malgrado tutto. Ma ci son certe cose che passano i limiti! La Marta à tanto fatto ch’è riuscita finalmente a strappargli il consenso.
— Di farsi monaca?
— Di farsi monaca. Capisci? Uno scienziato di così vasta coltura, di così chiara intelligenza che si lascia indurre a un simile errore!
— Ma tu non ài fatto nulla — esclamò Renato — per dimostrare a tua sorella che anche a essere religiosi è ben più meritorio vivere, che andare ad ammuffire in un convento?
— Figurati! Le ò tanto parlato. Ma che! Essa spera piuttosto d’indurre anche me a farmi frate.
— Tuo padre è debole: non doveva.
— Non è solo debolezza. Ò paura che in fondo ne sia contento. È tanto religioso! — Diede un sospiro e soggiunse con grande amarezza: — Non c’intendiamo più.... Poveruomo!
Marta era la più buona delle due sorelle di Gino: pia creatura tutta assorta nel pensiero di Dio, pronta a fare per chiunque un sacrificio senza sentirne il peso, anzi senza neanche accorgersene.
Aveva un viso attraente: due occhioni limpidi, purissimi, e una chioma superba. Era sempre allegra e cantava; perché era pura e non aveva mai un pensiero cattivo; o se l’aveva, riusciva prontamente a scacciarlo.
Era stata allevata dalle suore e di quell’ambiente, tutto purezza e bontà, aveva subito il fascino.
Ma forse quella gran vocazione non le sarebbe venuta senza un avvenimento tragico che un anno prima aveva colpito la famiglia. Sua madre, da anni gravemente malata, presa da un improvviso accesso di pazzìa, s’era uccisa. Il confessore non ebbe il tempo di somministrarle i sacramenti ed insieme al marito ed ai figli raccolse solo un’ultima parola della morente: «Pietà». Diede l’assoluzione.
Ma nell’animo di Marta rimase il dubbio atroce che la mamma fosse morta in peccato mortale, e il sacrificio della sua gioventù e di tutta la sua vita le apparve la più naturale delle espiazioni da offrire al Signore.
Di questo fatto parlarono a lungo i due amici.
Gino pensava con dolore che non avrebbe più veduto la sorella, che doveva abbandonar la città per un convento lontano. Renato, che alla cugina era legato da una fraterna simpatia, pensava con raccapriccio all’inesorabile colpo di forbice che avrebbe tagliato le magnifiche treccie.
— Ebbene — disse a mo’ di conclusione, — la rapiremo.
Questo era appunto il pensiero che Gino ruminava fin da prima.
— Bravo, bene! La rapiremo. Non c’è altro da fare.
— Bisognerà vedere il modo. Che mezzi pensi d’impiegare?
— Secondo le circostanze. Certo ci vorranno delle scale di corda.
— E delle armi, no?
— Sicuro. Però c’è tempo a pensarci.
— Molto?
— Non saprei. Prima di tutto per rapirla dal convento bisogna aspettare che ci vada.
— Già.
— E poi è meglio lasciarle il tempo per accorgersi che chiese e conventi è tutto una bottega.
— Ah, giustissimo! E allora tutto dipenderà dalle suore più anziane. Chissà se le dicon subito tutto.
— Non credo. Procederanno con circospezione.
Convennero che prima d’iniziare nei loro intrighi e disilludere la giovinetta ignara e fidente, quelle ci avrebbero messo almeno due anni, e fors’anche tre, o cinque.
Quest’impresa non era d’importanza mondiale come le altre, perché in fin de’ conti qui si trattava di un loro affare personale, privato; era tuttavia una nobile azione a cui metteva ben conto dedicare qualche ora della loro futura attività.
Lo studio particolareggiato dell’operazione fu differito e parlarono d’altro.
Nel congedarsi si ricordarono dell’impegno assunto e si sentirono lieti.
— Sarà graziosissimo!
— Sarà meraviglioso!
— Come gliela faremo!
Si salutarono con gran risate allontanandosi rinculando verso le due opposte direzioni.
Molti e gravi compiti li attendevano nella vita; ma avevano buone spalle e una gran fede.