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un’infinità di volumi, forse più di mille, e nella quale i due ragazzi passavano molte ore.

Un giorno erano in quel giardino e discorrevano di politica.

— L’Italia — diceva Gino — non può contare su nessuna alleanza sincera e le sue sole forze potrebbero non essere bastanti per sconfiggere un esercito tanto più numeroso, magnificamente preparato, abituato a una disciplina feroce.

— Per mare, — disse Renato — se l’Ammiraglio non sarà un vigliacco, vinceremo certo.

Egli era ben sicuro d’esser prode; e non gli riusciva di pensare a Lissa senza uno stringimento di cuore e a Persano senza un peuh! di disprezzo.

— Sicuro — approvò l’altro, e guardandolo in fondo agli occhi soggiunse; — Da questo lato mi sento abbastanza tranquillo.

— Ma — disse Renato che non voleva restare a lungo sotto il peso di quella lode prematura — capisco bene che dalla parte di terra l’impresa non è meno importante, mentre presenta difficoltà anche maggiori.

— Colui che avrà da condurre l’esercito — rispose Gino — dovrà essere un genio, non solo strategico ma anche politico.

— Ma intendi proprio il vero esercito italiano?

— Non so, vedremo; secondo le circostanze: o l’esercito d’Italia o forse, meglio ancora, un esercito di volontari, anche piccolo, ma di uomini devoti al loro capo e decisi a tutto. Il grande alleato noi l’avremo, ma nell’Austria stessa.