Poesie (Parini)/III. Il Giorno, secondo l'ultima redazione/IV. La Notte

IV. La Notte

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IV

LA NOTTE

     Né tu contenderai, benigna Notte,
che il mio giovane illustre io cerchi e guidi
con gli estremi precetti entro al tuo regno.
     Giá, di tenebre involta e di perigli,
5sola, squallida, mesta alto sedevi
su la timida terra. Il debil raggio
de le stelle remote e de’ pianeti
che nel silenzio camminando vanno
rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo
10a sentirli assai piú. Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e su per l’alte torri
di teschi antiqui seminate al piede:
e upupe e gufi e mostri avversi al sole
15svolazzavan per essa, e con ferali
stridi portavan miserandi auguri:
e lievi dal terreno e smorte fiamme
sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
di su, di giú vagavano per l’aere
20orribilmente tacito ed opaco;

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e al sospettoso adultero, che lento
col cappel su le ciglia, e tutto avvolto
entro al manto, sen giá con l’armi ascose,
colpieno il core e lo strignean d’affanno.
E fama è ancor che pallide fantasime
lungo le mura de i deserti tetti
spargean lungo, acutissimo lamento,
cui di lontano per lo vasto buio
i cani rispondevano ululando.
     Tal fusti, o Notte, allor che gl’inclit’avi,
onde pur sempre il mio garzon si vanta,
eran duri ed alpestri; e con l’occaso
cadean dopo lor cene al sonno in preda;
fin che l’aurora sbadigliante ancora
li richiamasse a vigilar su l’opre
de i per novo cammin guidati rivi
e su i campi nascenti; onde poi grandi
furo i nipoti e le cittadi e i regni.
     Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
ecco del gioco, ecco del fasto i geni,
che trionfanti per la notte scorrono,
per la notte che sacra è al mio signore.
Tutto davanti a lor tutto s’irradia
di nova luce. Le mimiche tenebre
fuggono riversate; e l’ali spandono
sopra i covili, ove le fere e gli uomini
da la fatica condannati dormono.
Stupefatta la Notte intorno vedesi
riverberar piú che dinanzi al sole
auree cornici, e di cristalli e spegli
pareti adorne, e vesti varie, e bianchi
omeri e braccia, e jiupi 1 lette mobili,
e tabacchiere preziose, e fulgide
fibbie ed anella, e mille cose e mille.
Cosí l’eterno caos, alior che Amore
sopra posovvi e il fomentò con l’ale,

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senti il generator moto crearsi;
senti schiuder la luce; e sé medesimo
vide meravigliando, e i tanti aprirsi
60tesori di natura entro al suo grembo.
     O de’ miei studi glorioso alunno,
tu seconda me dunque, or ch’io t’invito
glorie novelle ad acquistar lá dove
o la veglia frequente o l’ampia scena
65i grandi eguali tuoi, degna de gli avi
e de i titoli loro e di lor sorte
e de i pubblici voti, ultima cura
dopo le tavolette e dopo i prandi
e dopo i corsi clamorosi occupa.
     70Or dove, ahi dove senza me t’aggiri,
lasso! da poi che in compagnia del sole
t’involasti pur dianzi a gli occhi miei?
Qual palagio ti accoglie; o qual ti copre
da i nocenti vapor ch’Espero mena
75tetto arcano e solingo; o di qual via
l’ombre ignoto trascorri, ove la plebe
affrettando tenton s’urta e confonde?
     Ahimè, tolgalo il ciel, forse il tuo cocchio,
ove il varco è piú angusto, il cocchio altrui
80incontrò violento: e qual de i duo
retroceder convegna, e qual star forte
disputano gli aurighi alto gridando.
Sdegna, invitto garzon, sdegna d’alzare
fra il rauco suon di Stentori plebei
S5 tu’ amabil voce; e taciturno aspetta,
sia che a l’un piaccia rovesciar dal carro
lo suo rivale, o rovesciato anch’esso
perigliar tra le rote; e te per l’alto
de lo infranto cristal mandar carpone.
90Ma l’avverso cocchier d’un picciol urto
pago sen fugge o d’un resister breve:
al fin libero andrai. Tu non pertanto

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doman chiedi vendetta; alto sonare
fa il sacrilego fatto; osa, pretendi,
95e i tribunali minimi e i supremi
sconvolgi, agita, assorda: il mondo s’empia
del grave caso; e per un anno almeno
parli di te, de’ tuoi corsier, del cocchio
e del cocchiere. Di si fatte cose
100voi progenie d’eroi famosi andate
ne le bocche de gli uomini gran tempo.
     Forse ciarlier fastidioso indugia
te con la dama tua nel vuoto corso.
Forse a nova con lei gara d’ingegno
105tu mal cauto venisti: e giá la bella
teco del lungo repugnar s’adira;
giá la man che tu baci, arretra, e tenta
liberar da la tua; e giá minaccia
ricovrarsi al suo tetto, e quivi sola
110involarse ad ognuno in fin che il sonno
venga pietoso a tranquillar suoi sdegni.
Tu in van chiedi mercé; di mente in vano
tu a lei te stesso sconsigliata incolpi:
ella niega placarse. Il cocchio freme
115dell’alterno clamore; e il cocchio in tanto
giace immobil fra l’ombra: e voi, sue care
gemme, il bel mondo impaziente aspetta.
Ode il cocchiere al fin d’ambe le voci
un comando indistinto; e bestemmiando
120sferza i corsieri, e via precipitando
ambo vi porta; e mal sa dove ancora.
     Folle! Di che temei? Sperdano i venti
ogni augurio infelice. Ora il mio eroe
fra l’amico tacer del vuoto corso
125lieto si sta la fresca óra godendo
che dal monte lontan spira e consola.
Siede al fianco di lui lieta non meno
l’altrui cara consorte. Amor nasconde

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la incauta face; e il fiero dardo alzando
130allontana i maligni. O nume invitto,
non sospettar di me; ch’io giá non vegno
invido esplorator, ma fido amico
de la coppia beata, a cui tu vegli.
E tu, signor, tronca gl’indugi. Assai
135fur gioconde quest’ombre allor che prima
nacque il vago desio che te congiunse
all’altrui cara sposa, or son due lune.
Ecco il tedio a la fin serpe tra i vostri
cosí lunghi ritiri: e tempo è ormai
140che in piú degno di te pubblico agone
splendano i geni tuoi. Mira la Notte
che col carro stellato alta sen vola
per l’eterea campagna; e a te col dito
mostra Tèseo nel ciel, mostra Polluce,
145mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi
che per mille d’onore ardenti prove
colá fra gli astri a sfolgorar salirò.
Svégliati a i grandi esempi; e meco affretta.
     Loco è, ben sai, ne la cittá famoso,
150che splendida matrona apre al notturno
concilio de’ tuoi pari, a cui la vita
fóra senza di ciò mal grata e vile.
Ivi le belle e di feconda prole
inclite madri ad obliar sen vanno
155fra la sorte del gioco i tristi eventi
de la sorte d’amore, onde fu il giorno
agitato e sconvolto. Ivi le grandi
avole auguste e i genitor leggiadri
de’ giá celebri eroi il senso e l’onta
160volgon de gli anni a rintuzzar fra l’ire
magnanime del gioco. Ivi la turba
de la feroce gioventú divina
scende a pugnar con le mutabil’arme
di vaghi giubboncei, d’atti vezzosi,

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165di bei modi del dir stamane appresi;
mentre la vanitá fra il dubbio marte
nobil furor ne’ forti petti inspira;
e con vario destin dando e togliendo
la combattuta palma, alto abbandona
170i leggieri vessilli all’aure in preda.
     Ecco che giá di cento faci e cento
gran palazzo rifulge. Multiforme
popol di servi baldanzosamente
sale, scende, s’aggira. Urto e fragore
175di rote, di flagelli e di cavalli,
che vengono, che vanno, e stridi e fischi
di gente, che domandali, che rispondono,
assordan l’aria all’alte mura intorno.
Tutto è strepito e luce. O tu, che porti
180la dama e il cavalier dolci mie cure,
primo di carri guidator, qua volgi;
e fra il denso di rote arduo cammino
con olimpica man splendi; e d’un corso
subentrando i grand’atri, a dietro lascia
185qual pria le porte ad occupar tendea.
Quasi a propria virtú, plauda al gran fatto
il generoso eroe: plauda la bella
che con l’agil pensier scorre gli aurighi
de le dive rivali; e novi al petto
190sente nascer per te teneri orgogli.
     Ma il bel carro s’arresta: e a te, signore,
a te, prima di lei sceso d’un salto,
affidata la dea, lieve balzando,
col sonante calcagno il suol percote.
195Largo dinanzi a voi fiammeggi e grondi,
sopra l’ara de’ numi ad arder nato,
il tesoro dell’api: e a lei da tergo
pronta di servi mano a terra proni
lo smisurato lembo alto sospenda:
200somma felicitá che lei separa

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da le ricche viventi, a cui per anco,
misere! sopra il suol l’estrema veste
sibila per la polvere strisciando.
     Ahi, se fresco sdegnuzzo i vostri petti
205dianzi forse agitò, tu chino e grave
a lei porgi la destra; e seco innoltra
quale ibero amador quando, raccolta
dall’un lato la cappa, contegnoso
scorge l’amanza a diportarsi al vallo,
210dove il tauro, abbassando i corni irati,
spinge gli uomini in alto; o gemer s’ode
crepitante giudeo per entro al foco.
Ma no; ché l’amorosa onda pacata
oggi siede per voi: e, quanto è d’uopo
215a vagarvi, il piacer solo la increspa
una lieve aleggiando aura soave.
Snello adunque e vivace offri a la bella
mollemente piegato il destro braccio.
Ella la manca v’inserisca. Premi
220tu col gomito un poco. Anch’ella un poco
ti risponda premendo; e a la tua lena
dolce peso a portar tutta si doni,
mentre a piccioli salti ambo affrettate
per le sonanti scale alto celiando.
     225Oh come al tuo venir gli archi e le volte
de’gran titoli tuoi forte rimbombano!
Come a quel suon volubili le porte
cedono spalancate; ed a quel suono
degna superbia in cor ti bolle; e face
230l’anima eccelsa rigonfiar piú vasta!
     Entra in tal forma; e del tuo grande ingombra
gli spazi fortunati. Ecco di stanze
ordin lungo a voi s’apre. Altra di servi
infimo gregge alberga, ove tra lampi
235di molteplice lume acceso e spento,
e fra sempre incostanti ombre, schiama

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il sermon patrio e la facezia e il riso
dell’energica plebe. Altra di vaghi
zazzerati donzelli è certa sede,
240ove accento stranier misto al natio
molle susurra: e s’apparecchia in tanto
copia di carte e multiforme avorio,
arme l’uno a la pugna, indice l’altro
d’alti cimenti e di vittorie illustri.
     245Al fin piú interna, e di gran luce e d’oro
e di ricchi tapeti aula superba,
sta servata per voi, prole de’ numi.
Io, di razza mortale ignoto vate,
come ardirò di penetrar fra i cori
250de’ semidei, ne lo cui sangue in vano
gocciola impura cercheria con vetro
indagator colui che vide a nuoto
per l’onda genitale il picciol uomo?
Qui tra i servi m’arresto; e qui da loro
255nuove del mio signor virtudi ascose
tacito apprenderò. Ma tu sorridi,
invisibil Camena; e me rapisci
invisibil con te fra li negati
ad ognaltro profano aditi sacri.
     260Giá il mobile de’ seggi ordine augusto
sovra i tiepidi strati in cerchio volge:
e fra quelli eminente i fianchi estende
il grave canapè. Sola da un lato
la matrona del loco ivi si posa;
265e con la man che lungo il grembo cade,
lentamente il ventaglio apre e socchiude.
Or di giugner è tempo. Ecco le snelle
e le gravi per molto adipe dame,
che a passi velocissimi s’affrettano
270nel gran consesso. I cavalieri egregi
lor camminano a lato: ed elle, intorno
a la sede maggior vortice fatto

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di sé medesme, con sommessa voce
brevi note bisbigliano; e dileguansi
275dissimulando fra le sedie umili.
     Un tempo il canapè nido giocondo
fu di risi e di scherzi, allor che l’ombre
abitar gli fu grato ed i tranquilli
del palagio recessi. Amor primiero
280trovò l’opra ingegnosa. — Io voglio, — ei disse, —
dono a le amiche mie far d’un bel seggio,
che tre ad un tempo nel suo grembo accoglia.
Cosí, qualor de gl’importuni altronde
volga la turba, sederan gli amanti
285l’uno a lato dell’altro, ed io con loro. —
Disse, percosse ambe le palme; e l’ali
apri volando impaziente all’opra.
Ecco il bel fabbro lungo pian dispone
di tavole contesto e molli cigne;
290a reggerlo vi dá vaghe colonne
che del silvestre Pane i piè leggieri
imitano scendendo: al dorso poi
v’alza patulo appoggio; e il volge a i lati
come far soglion flessuosi acanti,
295o ricche corna d’arcade montone.
Indi, predando a le vaganti aurette
l’ali e le piume, le condensa e chiude
in tumido cuscin, che tutta ingombri
la macchina elegante; e al fin l’adorna
300di molli sete e di vernici e d’oro.
Quanto il dono d’Amor piacque a le belle!
Quanti pensier lor balenáro in mente!
Tutte il chiesero a gara: ognuna il volle
ne le stanze piú interne: appiause ognuna
305a la innata energia del vago arnese,
mal repugnante e mal cedente insieme
sotto a i mobili fianchi. Ivi sedendo
si ritrasser le amiche; e da lo sguardo

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de’ maligni lontane, a i fidi orecchi
310si mormoráro i delicati arcani.
Ivi la coppia de gli amanti, a lato
dell’arbitra sagace, o i nodi strinse,
o calmò l’ira, e nuove leggi apprese.
Ivi sovente I’amador faceto
315raro volume all’altrui cara sposa
lesse spiegando; e con sorrisi arguti
fe’ tra i fogli notar lepida imago.
il fortunato seggio invidia mosse
de le sedie minori al popol vario:
320e fama è che talora invidia mosse
anco a i talami stessi. Ah, perché mai,
vinto da insana ambizione, uscio
fra lo immenso tumulto e fra il clamore
de le veglie solenni! Avvi due geni
325fastidiosi e tristi, a cui dièr vita
l’Ozio e la Vanitá, che, noti al nome
di Puntiglio e di Noia, erran cercando
gli alti palagi e le vigilie illustri
de la prole de’ numi. Un ne le mani
330porta verga fatale, onde sospende
ne’ miseri percossi ogni lor voglia;
e di macchine al par, che l’arte inventi,
modera Palme a suo talento e guida:
l’altro piove da gli occhi atro vapore;
335e da la bocca sbadigliarne esala
alito lungo, che, sembiante a i pigri
soffi dell’austro, si dilata e volve,
e d’inane torpor le menti occupa.
Questa del canapè coppia infelice
340allor prese l’imperio; e i risi e i giochi
ed Amor ne sospinse. Il trono è questo
ove le madri de le madri eccelse
de’ primi eroi esercitali lor tosse;
ove P inclite mogli, a cui beata

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345rendon la vita titoli distinti,
sbadigliano distinte. Ah, se tu sai,
fuggi ratto, o signor, fuggi da tanto
pernicioso influsso; e lá fra i seggi
de le piú miti dèe, quindi remoto,
350con l’alma gioventú scherza e t’allegra.
     Quanta folla d’eroi! Tu, che modello
d’ogni nobili virtú, d’ogn’atto eccelso
esser dei fra’ tuoi pari, i pari tuoi
a conoscere apprendi; e in te raccogli
355quanto di bello e glorioso e grande
sparse in cento di loro arte o natura.
Altri di lor ne la carriera illustre
stampa i primi vestigi; altri gran parte
di via giá corse; altri a la meta è giunto.
360In vano il vulgo temerario a gli uni
di fanciulli dá nome; e quelli adulti
questi giá vegli di chiamare ardisce:
tutti son pari. Ognun folleggia e scherza;
ognun giudica e libra; ognun del pari
365l’altro abbraccia e vezzeggia: in ciò soltanto
non simili tra lor che ognun sua cura
ha diletta tra l’altre, onde piú brilli.
     Questi è l’almo garzon che con maestri
da la scutica sua moti di braccio
370desta sibili egregi; e l’ore illustra
l’aere agitando de le sale immense,
onde i prischi trofei pendono e gli avi.
L’altro è l’eroe che da la guancia enfiata
e dal torto oricalco a i trivi annuncia
375suo talento immortai, qualor dall’alto
de’ famosi palagi emula il suono
di messagger che frettoloso arri ve.
Quanto è vago a mirarlo allor che in veste
cinto spedita, e con le gambe assorte
380in ampio cuoio, cavalcando a i campi

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rapisce il cocchio, ove la dama è assisa
e il marito e l’ancella e il figlio e il cane
     Quegli or esce di lá dove ne’ fòri
si ministran bevande, ozio e novelle.
385Ei v’andò mattutin, partinne al pranzo,
vi tornò fino a notte: e giá sei lustri
volgon da poi che il bel tenor di vita
giovinetto intraprese. Ah chi di lui
può sedendo trovar piú grati sonni,
390o piú lunghi sbadigli, o piú fiate
d’atro rapè solleticar le nari,
o a voce popolare orecchi e fede
prestar piú ingordo e declamar piú forte?
     Ecco che il segue del figliuol di Maia
395il piú celebre alunno, al cui consiglio
nel gran dubbio de’ casi ognaltro cede;
sia che dadi versati, o pezzi eretti,
o giacenti pedine, o brevi o grandi
carte mescan la pugna. Ei sul mattino
400le stupide emicranie o l’aspre tossi
molce giocando a le canute dame.
Ei, giá tolte le mense, i nati or ora
giochi a le belle declinanti insegna.
Ei, la notte, raccoglie a sé d’intorno
405schiera d’eroi, che nobil estro infiamma
d’apprender l’arte, onde l’altrui fortuna
vincasi e domi; c del soave amico
nobil parte de’ campi all’altro ceda.
     Vuoi su lucido carro in di solenne
410gir trionfante al corso? Ecco quell’uno
che al lavor ne presieda. E legni e pelli
e ferri e sete e carpentieri e fabbri
a lui son noti: e per l’Ausonia tutta
è noto ei pure. 11 cálabro di feudi
415e d’ordini superbo, i duchi e i prenci
che pascoli Mongibello, e fin gli stessi

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gran nipoti romani a lui sovente
ne commetton la cura: ed ei sen vola
d’una in altra officina in fin che sorga,
420auspice lui, la fortunata mole.
Poi di tele ricinta, e contro all’onte
de la pioggia e del sol ben forte armata,
mille e piú passi l’accompagna ei stesso
fuor de le mura; e con soave sguardo
425la segue ancor sin che la via declini.
     Vedi giugner colui che di cavalli
invitto domator divide il giorno
fra i cavalli e la dama. Or de la dama
la man tiepida preme; or de’ cavalli
430liscia i dorsi pilosi, ovver col dito
tenta a terra prostrato i ferri e l’ugna.
Aimè, misera lei, quando s’indice
fiera altrove frequente! Ei l’abbandona;
e per monti inaccessi e valli orrende
435trova i lochi remoti, e cambia o merca.
Ma lei beata poi, quand’ei sen torna
sparso di limo; e novo fasto adduce
di frementi corsieri; e gli avi loro
e i costumi e le patrie a lei soletta
440molte lune ripete! Or vedi l’altro
di cui piú diligente o piú costante
non fu mai damigella o a tesser nodi
o d’aurei drappi a separar lo stame.
A lui turgide ancora ambe le tasche
445son d’ascose materie. Eran giá queste
prezioso tapeto in cui distinti
d’oro e lucide lane i casi apparvero
d’ilio infelice: e il cavalier, sedendo
nel gabinetto de la dama, ormai
450con ostinata man tutte divise
in fili minutissimi le genti
d’Argo e di Frigia. Un fianco solo avanza

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de la bella rapita; e poi l’eroe,
pur giunto al fin di sua decenne impresa,
455andrá superbo al par d’ambo gli Atridi.
     Ma chi l’opre diverse o i vari ingegni
tutti esprimer porla, poi che le stanze
folte giá son di cavalieri e dame?
Tu per quelle t’avvolgi. Ardito e baldo
460vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi,
premi, chiedi perdono, odi, domanda,
sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci
a i divini drappelli; e a un punto empiendo
ogni cosa di te, mira e conosci.
     465Lá i vezzosi d’Amor novi seguaci
lor nascenti fortune ad alta voce
confidatisi all’orecchio; e ridon forte;
e saltellando batton palme a palme:
sia che a leggiadre imprese Amor li guidi
470fra le oscure mortali: o che gli assorba
de le dive lor pari entro alla luce.
Qui gli antiqui d’Amor noti campioni,
con voci esili e dall’ansante petto
fuor tratte a stento, rammentando vanno
475le superate al fin tristi vicende.
Indi gl’imberbi eroi, cui diede il padre
la prima coppia di destrier pur ieri,
con animo viril celiano al fianco
di provetta beltá, che a i risi loro
4S0 alza scoppi di risa; e il nudo spande
che, di veli mal chiuso, i guardi cerca
che il cercarono un tempo. Indi gli adulti,
a la cui fronte il primo ciuffo appose
fallace parrucchier, scherzan vicini
4S5 a la sposa novella; e di bei motti
tendonle insidia, ove di lei s’intrichi
l’alma inesperta e il timido pudore.
Folli! Ché a i detti loro ella va incontro

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valorosa cosí come una madre
490di dieci eroi. V’ha in altra parte assiso
chi di lieti racconti ovver di fole
non ascoltate mai raro promette
a le dame trastullo; e ride e narra
e ride ancor, benché a le dame in tanto
495sovra l’arco de’ labbri aleggi e penda
insolente sbadiglio. Avvi chi altronde
con fortunato studio in novi sensi
le parole converte; o i simil suoni
pronto a colpir, divinamente scherza.
500Alto al genio di lui plaude il ventaglio
de le pingui matrone, a cui la voce
di vernacolo accento anco risponde;
ma le giovani madri al latte avvezze
di piú nuove dottrine, il sottil naso
505aggrizzan fastidite; e pur col guardo
chieder sembran pietade a i belli spirti
che lor siedono a lato; e a cui gran copia
d’erudita efemeride distilla
volatile scienza entro a la mente.
510Altri altrove pugnando audace innalza
sovra d’ognaltro il palafren ch’ei sale,
o il poeta o il cantor che lieti ei rende
de le sue mense. Altri dá vanto all’else
lucido e bello de la spada, ond’egli
515solo, e per casi non piú visti, al fine
fu dal piú dotto anglico artier fornito.
Altri grave nel volto ad altri espone
qual per l’appunto a gran convito apparve
ordin di cibi: ed altri stupefatto,
520con profondo pensier, con alte dita
conta di quanti tavolieri a punto
grande insolita veglia andò superba.
Un fra l’indice e il medio inflessi alquanto,
molle ridendo, al suo vicin la gota

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525preme furtivo: e l’un da tergo all’altro
il pendente cappel sotto all’ascella
ratto invola; e del colpo a sé dá plauso.
     Qual d’ogni lato i molti servi in tanto
e seggi e tavolieri e luci e carte,
530suppellettile augusta, entran portando?
e sordo stropicciar di mossi scanni,
e cigolio di tavole spiegate
odo vagar fra le sonanti risa
di giovani festivi e fra le acute
535voci di dame cicalanti a un tempo,
come intorno a selvaggio antico moro
sull’imbrunir del di garrulo stormo
di frascheggianti passere novelle?
     Sola in tanto rumor tacita siede
540la matrona del loco: e chino il fronte
e increspate le ciglia, i sommi labbri
appoggia in sul ventaglio, arduo pensiere
macchinando tra sé. Medita certo
come al candor, come al pudor si deggia
345la cara figlia preservar, che torna
doman da i chiostri ove il sermon d’Italia
pur giunse ad obliar, meglio erudita
de le galliche grazie. Oh qual dimane
ne i genitor, ne’ convitati, a mensa
550ben cicalando ecciterai stupore,
bella fra i lari tuoi vergin straniera!
     Errai. Nel suo pensier volge di cose
l’alta madre d’eroi mole piú grande:
e nel dubbio crudel col guardo invoca
555de le amiche l’aita; e a sé con mano
il fido cavalier chiede a consiglio.
Qual mai del gioco a i tavolier diversi
ordin porrá, che de le dive accolte
nulla obliata si dispetti: e nieghi
560piú qui tornare ad aver scorno ed onte?

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Come, con pronto antiveder, del gioco
il dissimil tenore a i geni eccelsi
assegnerá conforme; ond’altri poi
non isbadigli lungamente, e pianga
565le mal gittate ore notturne; e lei
de lo infelice oro perduto incolpi?
Qual paro e quale al tavolier medesmo
e di campioni e di guerriere audaci
fia che tra loro a tenzonar congiunga:
570si che giammai per miserabil caso,
la vetusta patrizia, essa e lo sposo
ambo di regi favolosa stirpe,
con lei non scenda al paragon che al grado
per breve serie di scrivani or ora
575fu de’ nobili assunta, e il cui marito
gli atti e gli accenti ancor serba del monte?
Ma che non può sagace ingegno e molta
d’anni e di casi esperienza? Or ecco
ella compose i fidi amanti; e lungi
580de la stanza nell’angol piú remoto
il marito costrinse, a di si lieti
sognante ancor d’esser geloso. Altrove
le occulte altrui, ma non fuggite all’occhio
dotto di lei, benché nascenti a pena,
585dolci cure d’amor, fra i meno intenti
o i meni acuti a penetrar nel balte
dell’animo látèbre, in grembo al gioco
pose a crescer felici: e giá in duo cori
grazia e mercé de la bell’opra ottiene.
590Qua gl’illustri e le illustri; e lá gli estremi
ben seppe unir de’ novamente compri
feudi, e de prischi gloriosi nomi
cui mancò la fortuna. Anco le piacque
accozzar le rivali, onde spiarne
595i mal chiusi dispetti. Anco per celia
piú secoli adunò, grato aspettando

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e per gli altri e per sé riso dall’ire
settagenarie, che nel gioco accense
fien, con molta raucedine e con molto
600tentennar di parrucche e cuffie alate.
     Giá per l’aula beata a cento intorno
dispersi tavolier seggon le dive,
seggon gli eroi, che dell’Esperia sono
gloria somma o speranza. Ove di quattro
605un drappel si raccoglie: e dove un altro
di tre soltanto. Ivi di molti e grandi
fogli dipinti il tavolier si sparge:
qui di pochi e di brevi. Altri combatte;
altri sta sopra a contemplar gli eventi
610de la instabil fortuna e i tratti egregi
del sapere o dell’arte. In fronte a tutti
grave regna il consiglio: e li circonda
maestoso silenzio. Erran sul campo
agevoli ventagli, onde le dame
615cercan ristoro all’agitato spirto
dopo i miseri casi. Erran sul campo
lucide tabacchiere. Indi sovente
un’util rimembranza, un pronto avviso
con le dita si attigne: e spesso volge
620i destini del gioco e de la veglia
un atomo di polve. Ecco sen ugne
la panciuta matrona intorno al labbro
le calugini adulte: ecco sen ugne
le nari delicate e un po’ di guancia
625la sposa giovinetta. In vano il guardo
d’esperto cavalier, che giá su lei
medita nel suo cor future imprese,
le domina dall’alto i pregi ascosi:
e in van d’un altro, timidetto ancora,
630il pertinace piè l’estrema punta
del bel piè le sospigne. Ella non sente
o non vede o non cura. Entro a que’ fogli,

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ch’ella con man si lieve ordina o turba,
de le pompe muliebri a lei concesse
635or s’agita la sorte. Ivi è raccolto
il suo cor, la sua mente. Amor sorride;
e luogo e tempo a vendicarsi aspetta.
     Chi la vasta quiete osa da un lato
romper con voci successive, or aspre,
640or molli, or alte, ora profonde, sempre
con tenore ostinato, al par di secchi
che scendano e ritornino piagnenti
dal cupo alveo dell’onda; o al par di rote
che sotto al carro pesante, per lunga
645odansi strada scricchiolar lontano?
L’ampia tavola è questa, a cui s’aduna
quanto mai per aspetto e per maturo
senno il nobil concilio ha di piú grave
o fra le dive socere o fra i nonni
650o fra i celibi giá da molti lustri
memorati nel mondo. In sul tapeto
sorge grand’urna, che poi scossa in volta
la dovizia de’ numeri comparte
fra i giocator cui numerata è innanzi
655d’immagini diverse alma vaghezza.
Qual finge il vecchio che con man la negra
sopra le grandi porporine brache
veste raccoglie; e rubicondo il naso
di grave stizza alto minaccia e grida,
660l’aguzza barba dimenando. Quale
finge colui che con la gobba enorme
e il naso enorme e la forchetta enorme
le cadenti lasagne avido ingoia.
Quale il multicolor zanni leggiadro
665che, col pugno posato al fesso legno,
sovra la punta dell’un piè s’innoltra;
e la succinta natica rotando,
altrui volge faceto il nero ceffo.

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Né d’animali ancor copia vi manca,
670o al par d’umana creatura l’orso
ritto in due piedi, o il miccio, o la ridente
simmia, o il caro asinelio, onde a sé grato
e giocatrici e giocator fan speglio.