Poche osservazioni sul denaro di L. Memmi
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POCHE OSSERVAZIONI
SUL DENARO DI L • MEMMI •
I.
La gente Memmia, come molte famiglie romane, si vantava di discendere da illustri antenati, rannodandosi ad uno degli eroi che, scampati all’eccidio di Troia con Enea, sarebbero venuti a fermare stanza nel Lazio. A questa pretensione dei Memmii accenna nel seguente verso Virgilio,
“mox Italus Maestheus, genus a quo nomine Memmi” 1
il quale, nel suo poema, più volte cita Mnesteo (Menesteo) troiano2. L’etimologia che i Memmii davano del loro nome non occorre neppure osservare se sia esatta dal lato filologico: ma è noto esser comune a molte famiglie romane il vezzo di rannodare il loro nome a quello di qualche dio od eroe che suonasse presso a poco lo stesso, pur di vantare un’origine soprannaturale3. Menesteo troiano non è che uno dei tanti eroi di cui è stato circondato Enea dalla leggenda italica e al quale si rannodavano i Memmii, non altrimenti che la gens Sergia si rannodava a Sergestus4, la Cluentia a Cloanthus5, la Gegania a Gyas6, la Caecilia a Caecus7, la Cloulia a Cloulius8, tutti compagni di Enea. Queste etimologie astruse ed immaginarie, di cui è piena l’antichità, per quanto false, altrettanto sono indispensabili a sapersi, por ricostituire la storia delle famiglie romane, come nel caso presente dei Memmii, fra i quali L. Memmius, oratore di fama a tempo dello lotte di Mario e Silla9, e magistrato monetale nel 660 (94 a. C), impresso sul suo denaro un tipo che è rimasto finora inesplicato.
Menesteo in Virgilio è un illustre troiano della stirpe di Assaraco10, discendente da Venere, la quale i Memmii consideravano loro progenitrice, come ci attesta Lucrezio nell’esordio del suo poema che dedicò a L. Memmio11, nonchè il denaro di L • MEMMI • GAL •12 e quello di L • C • MEMIES • L • F • GAL13. Può quindi tenersi per indubitato, da chiunque abbia conoscenza di numismatica della repubblica romana e sappia quali intimi legami passino fra i tipi delle monete e la storia delle famiglie dei monetieri, che la spiegazione del denaro di L. Memmio debbasi rintracciare nella leggenda trojana, pigliando come punto di partenza il verso citato di Virgilio. È noto altresì quanto ci tenessero i magistrati monetali a lasciar sulle monete, da essi coniate, un segno qualunque del loro passaggio per quella magistratura, consistente dapprima in simboli, poscia in monogrammi composti dalle iniziali del loro nome o cognome, più tardi in ricordi storici o leggendarî delle loro famiglie, i quali spesso erano simulacri degli dei venerati con particolar culto nelle città, donde erano usciti i primi loro antenati, o dogli eroi fondatori di esse. I monetieri della gens Cornificia, Mettia, Papia, Procilia, Roscia, Thoria impressero sui denari, portanti il loro nome, l’immagine di Juno Sospita, che aveva un celebre santuario a Lanuvium, di cui dicevansi originarie le loro famiglie. I Dioscuri, sui denari coniati dai monetieri della Fonteja e della Sulpicia, provano la discendenza di queste genti da Tusculum: come Venere per la Julia e Valeria Luperca per la Valeria accennano rispettivamente ad una origine troiana ed etrusca. Inoltre i monetieri della gente Claudia colla Vittoria in quadriga, della Gellia con Marte e Nerio, in quadriga, della Tituria colla testa di T. Tazio, e così via, vollero tutti alludere alla loro origine sabina. Or bene, venendo alla moneta di L. Memmio, esaminiamola attentamente: essa al diritto ha una testa giovanile imberbe con corona che pare di quercia; al rovescio i Dioscuri in piedi, di faccia, tenenti i loro cavalli per la briglia. Nella presente memoria non seguiremo l’ordine, che pare il più naturale, cioè d’illustrare prima il tipo del diritto, poi quello del rovescio; ma viceversa, a noi importa muovere dal tipo del rovescio, perchè l’altro riceve luce da esso.
II.
Tranne la prova indiretta di Lucrezio e la precisa affermazione di Virgilio circa l’origine troiana dei Memmii, la letteratura latina anteriore a Virgilio non fa menzione di Menesteo compagno di Enea14. Abbondanti invece, sia presso gli autori greci, sia presso i latini, sono i passi che ci ricordano il suo omonimo ateniese. Fra i tanti eroi dell’età leggendaria la Grecia cantava il nome di Menesteo, re di Atene, figlio di Peteo e discendente dal magnanimo Eretteo15. Era egli uno dei personaggi più popolari, il cui nome, insieme a quello di Menelao, di Agamennone, di Ulisse, di Achille.... era rimasto nella coscienza dei greci come rappresentante dell’Ellenismo, come degno campione, in cui questo popolo vedeva personificata la lotta tremenda della Grecia coll’Asia, lotta conosciuta generalmente sotto il nome di guerra troiana. Eroe egli stesso, discendeva da una progenie di valorosi ed illustri personaggi, primo dei quali fu Eretteo, re di Atene; e da Orneo, figlio di questo, era fama che traesse il nome, a dir di Pausania, il comune di Ὀρεναί nell’Argolide16. Non meno eccellente degli altri capitani greci nell’arte della guerra, figura nell’Iliade Menesteo, a capo di cinquanta navi ateniesi: per lui Omero ha lusinghiere parole. Non eravi che Nestore al mondo, il quale uguagliar lo potesse nell’arte di schierar fanti o cavalli17, arte che tanto giovò ad Atene, quando Eumolpo, figlio di Nettuno, assaliva gli Ateniesi coi Traci18, e per la quale ottenne da Filostrato il titolo di τακτικώτατος τῶν βασιλέων 19. Giusta una tradizione riferitaci da Pausania20, egli avrebbe salpato per Troia dal porto del Pireo insieme ad Acamante e Demofonte21, e sarebbe stato uno dei primi a salire nel cavallo insieme a Menelao, Ulisse, Stenelo, Diomede, Filottete, Anticlo22. La sua vita è una serie di atti gloriosi e magnanimi: sotto le mura di Troia la sua schiera è in prima fila a combattere23; egli si scontra con Ettore e lo ferisce alla coscia24; torna in patria ove è accolto festosamente dagli ateniesi25, ed è uno dei giudici del parricida Oreste26. Ma ad onta che avesse l’antichità una così chiara idea delle imprese di questa eroe, discordi sono gli scrittori sulla sua fine: vi è chi scrive, e fra questi Plutarco, che dopo la guerra troiana tornasse in Atene ove finì i suoi giorni27; Eustazio invece afferma che fosse esiliato dai suoi concittadini28; Eusebio narra che reduce dalla guerra di Troia, morisse nell’isola di Melos29. Questa disparità di opinioni è importante per noi, attestandoci quanto grande fosse la popolarità dell’eroe Menesteo, il quale è chiaro come in seguito dovesse avere un culto. Ed infatti, quale eroe ateniese, era venerato in Atene, ove Pausania ci attesta di aver visto, fra i monumenti che adornavano la via dei Propilei sull’Acropoli, il cavallo Durio, dagli ateniesi costruito in memoria del cavallo troiano, donde erano in atto di venir fuori Menesteo e Teucro, seguiti dai figli di Teseo30. Il suo nome era misto a parole di lode in una delle tre iscrizioni, dagli ateniesi poste presso le tre erme, erette in onore di Cimone; onde risulta che quel popolo andasse superbo di vantare in lui il suo rappresentante nella guerra di Troia31. Ebbene, in quella iscrizione son ripetute le lodi che gli fa Omero, le quali bastavano, più che ogni altra, ad inorgoglire l’animo di ciascun ateniese.
Ma il culto dell’eroe Menesteo non era circoscritto negli angusti limiti della sua città natale; che anzi era esteso per tutta la Grecia, e tre città lo riconoscevano lor fondatore. La prima per importanza era Ἐλαία, città nell’Eolide, da tutti gli scrittori greci e latini, che ne parlano, decantata pel suo porto, stazione delle navi di Pergamo32: la seconda era Scylletium nel Bruttium, detta ai tempi di Strabene Scylacium, che diè nome al golfo da cui era bagnato il suo territorio33; la terza Gades, in Ispagna. Non sappiamo con certezza se questa colonia fosse fondata da Menesteo, poichè non ci resta nessuna testimonianza diretta; ma possiamo argomentarlo da due passi. L’uno è di Filostrato ed è il seguente: καὶ μὴν καὶ Ἐλληνικοὺς εἶναί φασι τὰ Πάδειρα, καὶ παιδεύεσθαι τὸν ἠμεδαπὸν τρόπον• ἀσπάζεσθαι γοῦν Ἀθηναίους Ἐλλήνων μάλιστα καὶ Μενεσθεῖ τῷ Ἀθηναίων Θύειν34: l’altro passo è tratto dagli Scholia di Tucidide, ove in una enumerazione di varî fondatori di città greche, fra Teucro che andò in Cipro, Filottete che fondò Malachia, Diomede che colonizzò le isole Λιβυρνίδαι, è citato Menesteo che, ὑπὸ τῶν Θησειδῶν (ἐκβληθείς), εἰς Ἱβήριαν (ἀφίκετο)35
Da questi cenni degli scrittori greci intorno al loro eroe Menesteo risulta chiaro, che il culto di Menesteo ateniese dovesse essere diffuso e popolare non solo in Grecia, ma anche nell’Asia Minore, nell’Italia e nella Spagna, e che invece Menesteo troiano, non conosciuto dai greci, divenisse noto solo pel poema di Virgilio. È appunto la diffusione del culto di Menesteo ateniese nei paesi d’occidente, quella su cui poggio la mia congettura, circa la possibilità di uno scambio avvenuto fra i due eroi omonimi, alla quale debbo ricorrere per darmi ragione del tipo del rovescio di questa moneta. La spiegazione di qualche archeologo che riconobbe nella testa del diritto l’imagine di Apollo, supponendo che vi fosse stata impressa per rimembranza di splendidi giuochi apollinei, celebrati dagli antenati di Memmio, è una di quelle solite congetture che non hanno alcun fondamento, a cui spesso si ricorre in mancanza di notizie36. Non meno inesatta è l’altra del Cavedoni, il quale, leggendo in una lettera di Cicerone37 “C. Memmius Gemellus” dove tutt’i codici hanno “C. Maenius Gemellus” si spiega agevolmente il rovescio di questo denaro, col supporre che il monetiere avesse il cognome Gemellus38.
Il voler trovare in Troia tracce del culto dei Dioscuri per ispiegare il rovescio della nostra moneta, è opera vana; in Isparta nacque la loro leggenda donde si diramò per tutta la Grecia, nè sono mai associati ad eroi troiani nei monumenti, e resta perciò unica la notizia di Plinio39 e di Claudiano40 riguardante un dipinto di Parrasio con Enea, Castore e Polluce. Per tali ragioni converrà rinunziare ad una spiegazione plausibile, ovvero ricorrere ad altre congetture. E qui osservo che la spiegazione si presenta facile e spontanea a chi legga la storia di Menesteo ateniese, che è intrecciata con quella dei Dioscuri.
Narra Plutarco che, essendo Teseo re di Atene, Menesteo, il quale si studiava di guadagnarsi il favor della plebe, incitava i più potenti, che già da gran tempo mal comportavano Teseo. Mentr’egli faceva questi maneggi, aggiunse grande impulso alla sedizione la guerra mossa dai Tindaridi, che sopravvennero, e alcuni dicono, senza esitazione, che sopravvennero persuasi da lui. Da principio non facevano ingiuria veruna, ma richiedevan solamente la sorella rapita da Teseo, e rispondendo loro quei ch’erano nella città, di non saper neppure dov’ella fosse, si volsero a far guerra. Insistendo i Tindaridi, un tal Academo disse loro che Elena era tenuta prigioniera in Afidna. I Dioscuri assalirono quella città e presero Elena. Presa Afidna ed essendo perciò pieni di timore gli ateniesi, Menesteo persuase il popolo di ricevere nella città e di accogliere amichevolmente i Tindaridi, siccome quelli che avevano guerra solamente con Teseo41. Delle relazioni fra Menesteo e i Tindaridi fa cenno anche Aelianus42, il quale ammira la gratitudine di quello verso questi che gli avevano offerto, com’egli dice, il trono di Atene. Era troppo accentuata questa relazione, perchè fosse ignorata in quei paesi ove il culto di Menesteo era diffuso, e, per conseguenza, anche in Roma.
Mi preme ora mostrare quali fossero le ragioni che favorirono e resero possibile lo scambio fra l’eroe troiano e l’eroe ateniese, avvenuto, a mio parere, nella famiglia dei Memmii, spiegando così la contraddizione fra le fonti letterarie, le quali fanno menzione di un Menesteo troiano progenitore dei Memmii, e i tipi della presente moneta, che fanno pensare indubbiamente a Menesteo ateniese. È proprio di ogni popolo cercare le origini sue in personaggi leggendari e soprannaturali. Le famiglie romane facevano a gara, per così dire, a chi vantasse un’origine divina: di qui false etimologie dei loro nomi o cognomi, identificazioni astruse ed immaginarie di eroi e divinità di un paese con eroi e divinità di un altro, ed infine leggende d’ogni genere. È di somma importanza un passo di Cicerone43 ove leggesi che le orazioni funebri degli uomini illustri, fatte dai loro discendenti e dai clienti delle loro famiglie, erano ispirate piuttosto dalla vanagloria che dalla verità “scripta sunt in iis quae facta non sunt; falsi triumphi; plures consulatus; genera etiam falsa.” La leggenda di Menesteo troiano dovette, fin dai tempi di Ennio, essere divulgata fra i Memmii e durare forse fino ad età inoltrata, quando seguì la fusione delle due mitologie, greca e romana. Questa ipotesi trova una conferma nella considerazione che i Memmii non acquistarono importanza storica, che nel 538 d. R., fino al quale anno giacquero nell’oscurità, senza che qualche illustre personaggio di quella famiglia potesse diffondere e consolidare la primitiva tradizione della loro origine. Dobbiamo scendere al 667 d. R. perchè la storia faccia menzione la prima volta di un Memmio, oratore noto a tempo delle lotte fra Mario e Silla44. Da questo tempo, come dicevo, la gente dei Mennnii comincia a diventare illustre: vanno ricordati L. Memmio, che militò sotto il comando di Pompeo in Sicilia (672 d. R.)45 e fu questore in Ispagna nella guerra contro Sertorio (677 d. R.)46, e il fratello Gaio, anch’egli questore in Ispagna nello stesso anno, pretore nel 696, propretore di Bitinia il 69747, e finalmente imperator48. Ma già prima di questo tempo era seguita la confusione dell’eroe troiano coll’eroe ateniese nella serie dei Memmii a noi incogniti. Varie furono le cause di questa fusione.
La civiltà romana si lasciò talmente penetrare dalle infiltrazioni del genio greco, che i romani si sentivano più orgogliosi di discendere da antenati greci, che dai Sabini, da T. Tazio e dalla banda di Romolo o dall’Ercole italico. Catone il vecchio, che visse in un tempo in cui lo antiche tradizioni genealogiche non avevano ancora niente perduto della loro veridicità primitiva, sappiamo che nel II e III libro delle “Origines” aveva raccolto importanti notizie sugli Etruschi, i Volsci, i Latini, i Sabini ed altri popoli italici e connesse le favole di Diomede, di Ulisse e di altri eroi greci alle antiche tradizioni italiche. A sviluppare questa tendenza dello spirito romano influirono grandemente le opere degli scrittori. La più importante fu quella di Varrone intitolata “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” nella quale, mentre si propose di essere un antiquario ed un erudito, volle farla da filosofo e da teologo, accomodando le credenze religiose alle esigenze del suo secolo. Il suo metodo etimologico, assai ardito, che noi conosciamo pe’ suoi libri “De lingua latina” egli lo applicò nel parlare della origine di Roma, fondendo insieme la storia della Grecia e del Lazio. Così egli, col non rimanere estraneo ai pregiudizi del secolo, pose l’opera sua per accrescerli. Dionigi d’Alicarnasso nella sua storia non mirò ad altro, che a provare di essere i romani dei veri greci, esser Roma una città greca per lingua, costumi, religione. Con questi ed altri scritti, di cui si conservano pochi frammenti, e talvolta appena il titolo49, la letteratura esercitò un grande influsso sulle leggende genealogiche delle famiglie romane, e i greci, i quali erano in gran numero a Roma in qualità di schiavi maestri o parassiti o retori o grammatici, per sentimento di vanità o per orgoglio di stirpe, fecero penetrare nelle tradizioni romane l’elemento greco. In molte famiglie però non si fece strada questo nuovo spirito, e rimasero inalterate lo loro leggende di origine italica; i Fabii riconoscevano l’Ercole italico per loro capostipite; i Fontei Fonto, figlio di Giano; i Marcii Anco Marzio....; altri pretendevano discendere da genî nazionali. Ma, in generale, le greche genealogie ebbero il sopravvento, specie in tutta la serie delle pretese famiglie troiane, che venivano distinte coll’appellativo di aenades50 o di troiugenae51.
Avendo trovato in Roma tanto favore queste leggende genealogiche di origine greca, favorite dai poeti e dagli storici, e fondate sopra semplici nomi che servono di punto d’unione, è naturale che, da una parte lo spirito greco, il quale aveva invaso ogni romano, dall’altra l’opera del tempo, favorissero un involontario scambio dei due eroi leggendarî nella gens Memmia, e con sintesi ardita si favoleggiasse non più di due Menestei, l’uno troiano, l’altro ateniese, ma di un solo, al quale, riconoscendosi l’origine troiana, si attribuisse una parte della leggenda dell’altro, cioè quella relativa ai Dioscuri. E in questa fusione ebbe anche gran parte il crescente diffondersi del culto di Menesteo ateniese in occidente, come sopra ho accennato. Nessun caso analogo, che io mi sappia, riscontrasi nella storia delle altro famiglie di origine troiana, poichè nessuno fra i compagni d’Enea, a noi noti, ha somiglianza di nome con qualche eroe greco. Per la Memmia lo scambio era tanto naturale e spontaneo, attesa la tendenza delle famiglie romane alle origini greche, che doveva certamente seguire; inoltre Menesteo troiano e Menesteo ateniese avevano preso parte alla medesima impresa, quale fa la guerra di Troia. Correva poi una importante leggenda in Roma, tramandataci da Aurelio Vittore52, la quale dovette favorire tale identificazione. Eccone il testo: “....ferunt Creusam Erachtei regis Atheniensium filiam speciosissimam, stupratam ab Apolline enixam puerum, eumque Delphos olim educandum esse missum, ipsam vero a patre, istarum rerum nescio, Xipeho cuidam comiti collocatam. Ex qua cum ille pater non posset exsistere, Delphos eum petiisse ad consulendum oraculum, quomodo pater fieri posset. Tum illi deum respondisse ut quem postero dio obviam habuisset, eum sibi adoptaret. Itaque supra dictum puerum, qui ex Apolline genitus erat, obviam illi fuisse, eumque adoptatum. Cum adolevisset non contentum patrio regno, cum magna classe in Italiam devenisse: occupato monte, urbem ibidem instituisse, eamque ex suo nomine Ianiculum cognominasse.” Da quali fonti Aurelio Vittore abbia tratto questa favola, non si sa, ma qualunque sia la sua origine, doveva essere divulgata in Roma, perchè egli al principio usa il verbo ferunt; e l’esser venuto in Italia un discendente di Eretteo e progenitore di Menesteo ateniese, proprio sul Gianicolo ad abitare, era questo un motivo che dava appiglio ai Memmii. Un’analoga identificazione di due eroi, ben più arbitraria, avvenne nella leggenda della fondazione di Taranto. Questa città ebbe nome dall’eroe Taras, uno dei coloni cretesi che la fondarono, e più tardi vi giunse una colonia di Spartani, dalla piccola città di Amicle, condotta da Falanto Amicleo. Narrasi che nel recarsi a Taranto, per ordine dell’oracolo di Delfo, Falanto coi suoi sia naufragato e che un delfino l’abbia deposto sulla spiaggia di Taranto. I coloni greci di questa città in seguito, memori del beneficio ricevuto, mandarono doni ad Apollo delfico, fra’ quali anche un gruppo rappresentante il re Opi morto53, con accanto l’eroe Taranto, lo spartano Falanto e non lungi da lui il delfino che lo aveva salvato54. E qui osserva il Garrucci55: “come mai Aristotile potè dire che tipo solenne del nummo tarentino è l’eroe Taranto, figlio di Nettuno, che cavalca il delfino?56”. Nel donativo che i Tarentini mandarono a Delfo, non era accanto a Taranto, ma presso Falanto, il delfino; e la tradizione che narra di Falanto salvato dal naufragio per opera di un delfino, non racconta dell’eroe figlio di Nettuno, che approdasse a Taranto cavalcando un delfino. Bisogna dunque ritenere che i Tarentini attribuissero a Taranto quell’avventura che si narrava di Falanto, forse per ripetere la loro origine da Nettuno.
Abbiamo così accennato alle ragioni che possibilmente concorsero nel fare che alla leggenda primitiva di Menesteo troiano si sovrapponesse, anzi subentrasse affatto col tempo quella di Menesteo ateniese. Ma la prima non scomparve giammai, sibbene fu arricchita di particolari dall’altra e ne subì quasi l’innesto, senza venire alterata: e se al principio di tale innesto potevansi ancora entrambe separatamente distinguere in Roma, alla fine della Repubblica erasi di esso talmente perduta la memoria che le due leggende più non si distinguevano, nè si rintracciava chiaramente la nazionalità di Menesteo ateniese. Le testimonianze di Virgilio e di Lucrezio, circa i Memmii mettono in chiaro il mio ragionamento. Lucrezio, invero, nella dedica del suo poema a C. Memmio, mostra di avere una vaga notizia dell’origine dei Memmii e non si estende a parlare di Menesteo, come sarebbe stato necessario in quel caso: laddove Virgilio, che ebbe cura ed interesso di raccogliere dalla bocca del popolo o dai libri quante favole correvano sull’origine delle famiglie romani rannodantisi ad Enea, da uomo dotto ci parla di Menesteo troiano, mettendo le cose nei loro termini.
Per compendiare adunque diciamo, che il tipo del rovescio di questo denaro riceve luce dalla ipotesi che l’eroe troiano sia stato col tempo confuso con l’eroe ateniese, e solo così si spiega la rappresentanza dei Dioscuri al rovescio.
Si osservi inoltre che il tipo dei Gemelli su questo denaro non è il tipo comune a tutt’i primi denari romani anonimi o con simboli e iniziali. L. Memmio coniò in un’epoca in cui già era stato alterato il tipo primitivo e sostituito da quadrighe o bighe di divinità o anche da ricordi famigliari. Se i IIIviri preposti alla zecca nel VII secolo conservano ancora l’immagine dei Dioscuri al rovescio, egli è per rispetto alla tradizione, ma sopratutto perchè questi dei hanno importanza nella storia delle loro famiglie o ricordano un fatto di qualche loro illustre antenato. La gente Quinctia conserva il tipo ufficiale, ma sotto i piedi dei cavalli di Castore e Polluce imprime uno scudo macedonico, al quale era affidata la memoria dello splendido trionfo di T. Quinzio Flaminino su Perseo e della dedica da lui fatta ai Gemelli nel tempio di Delfi, consistente in due scudi d’argento. A. Postumius Albinus, col rappresentare sul suo denaro i due giovani eroi nell’atto di abbeverare i loro cavalli alla fonte Juturna, volle perpetuare la ricordanza della famosa battaglia al lago Regillo, vinta dai Romani sotto il comando del dittatore A. Postumio Albino. Era questa una lieta ricordanza che rendeva orgogliosi i successori del dittatore. Infatti il suo trionfo assicurava la libertà e introduceva a Roma due nuovi dei che protessero sempre i romani57. I loro busti sul denaro di L. Servius Sulpicius Rufus accennano alla vittoria riportata sui latini da Servius Sulpicius e alla liberazione di Tuscolo, antica patria dei Dioscuri. C. Serveilius torna al tipo originario, ma alquanto lo altera, forse pel suo cognome Geminus, avuto da parecchî suoi antenati, a partire da P. Servilius Geminus, console il 50258. Se dunque ogni volta, dopo l’abolizione del tipo primitivo sui denari, la presenza dei Dioscuri sulle monete romane trova una ragione storica, possiamo ammettere che L. Memmio abbia voluto lasciarci anche lui sul suo unico denaro un ricordo della sua remota ed illustre discendenza.
III.
Osserva il Riccio che la testa giovanile imberbe del diritto di questo denaro ha una pinguedine tutta propria, la quale “non si ravvisa in altri denari di famiglie romane; 59” ma questo suo giudizio è facile a confutarsi. Uno dei caratteri che fa distinguere alcune volte le monete della zecca di Roma da quelle delle zecche di città greche è la inesatta esecuzione del lavoro, la quale rivela un’arte non avanzata. Una certa pinguedine del viso è caratteristica di molte figure impresse sulle monete romane, e si scorge a prima vista nella faccia di Apollo che ricorre sui denari di C. Considius Paetus, di P. Clodius Turrinus, di Q. Caepio Brutus, di Pomponius Musa, di Scribonius Libo, di L. Flaminius Cilo. Vero è che essa sulla moneta di L. Memmio è molto esagerata; ma se si ammette che questi esercitò l’ufficio di triumviro monetale insieme con Mn. Aquilius e Flaminius Cilo, i cui denari peccano della stessa imperfezione, più che tutti gli altri citati60, non si esiterà a dire che l’incisore, per poca esperienza nel disegnare o per dare alle figure carattere di arcaismo si compiacesse di esagerare le proporzioni del volto61. Ciò premesso, credo potersi dimostrare che la testa del diritto sul denaro di Memmio, sia di Apollo, tenuto conto delle seguenti considerazioni. Fra i personaggi della gens Memmia, che non sono in iscarso numero, ne trovo citato uno di cognome Apollinaris62: e siccome i romani si compiacevano di ricercare l’etimologia dei loro nomi o cognomi nei nomi degli dei o degli eroi, non è improbabile l’ipotesi che il cognome Apollinaris, il quale distingueva un ramo della gente Memmia, derivasse da qualche particolare culto che essa esercitava in onore di Apollo.
È di somma importanza al caso nostro una notizia che traggo da Isidoro63 circa una tal Memmia, sacerdotessa di Apollo, la prima a comporre inni in onore di questo dio e dello Muse, già fin dall’età di Ennio. Sul nomo di lei però discordano le lezioni dei codici: alcuni hanno Mnemia64, altri Memmia65. Ma se vogliamo stare ai secondi, avremo una ragione di più a confermare la nostra dimostrazione, osservando che l’inno della sacerdotessa Memmia potrebbe da una parte attestarci l’esistenza, anteriore ad essa, di un culto ad Apollo nella sua famiglia, e dall’altra l’importanza e l’incremento che questo dovette acquistare in seguito per opera di lei66. Se il tipo del diritto di questo denaro, il cognome Apollinaris, la notizia di Isidoro ci rivelano un culto speciale esercitato dalla gente Memmia verso Apollo quale divinità protettrice; il verso di Virgilio, che abbiamo segnato come punto di partenza, ci dà ragione di questo culto. Quali divinità potevano i Memmii venerare con ispecial culto, in memoria della loro origine troiana? Delle due l’una: o Venere o Apollo, entrambi numi tutelari d’Ilio. Questa città coi suoi eroi era posta sotto la particolare protezione di Apollo, il quale ne guardava lo stato ed era legato di peculiare affetto ad alcune prosapie, come ad esempio a quella dei Pantoidi; egli vendica Ettore per l’onta di Achille e ptorta nel suo tempio Enea ferito67. Del culto poi di Venere in Troia va fatta appena menzione. Or bene, se l’esistenza di un cnlto dei Memmii per Venere è attestata apertamente dai denari di L. Memmi. Gal e di L. C. Memies. L. F. Gal, può anche ammettersi che accanto a questa dea si venerasse da quella gente anche Apollo, la cui testa forma il tipo del diritto del nostro denaro.
Essa, oltre ad avere una pinguedine, la quale fè astenere i numismatici dal dichiararla di Apollo, è cinta da una corona che pare di quercia. Una testa di Apollo con simile corona vedesi sopra una bellissima e rara moneta di Catania, descritta con esattezza soltanto dall’Eckhel68, ed è sicuro che sia la testa di Apollo dalle lunghe chiome, perchè sotto leggesi απολλων.69. La rappresentazione di Apollo con corona di quercia è unica nelle due citate monete. Se non che essa non resta il solo esempio di attribuzione inesatta nella storia del tipo di Apollo. Sappiamo quanta comunanza di attributi avessero nella primitiva concezione Giove ed Apollo, due divinità nelle quali acquistò forma il concetto del cielo sereno e sgombro di nubi, e come talvolta Giove fosse rappresentato in sembianza di Apollo, imberbe, questi in sembianza di Giove, barbato, collo scettro e sedente come lui. Lo ζευς ελλανιος che veneravasi in Sicilia e la cui immagine è sulle monete di Siracusa 70, non accenna forse ad una medesima ed unica concezione primitiva delle due divinità che rese possibile lo scambio e, quasi direi, la fusione dei due tipi? Or se Apollo fu rappresentato talvolta colla barba, lo scettro, il fulmine, tutti attributi di Giove, non sarà certamente estraneo alle consuetudini greche e romane trovare un Apollo con corona di quercia: specie quando abbiamo una conferma indiscutibile nella citata moneta di Catania. Un Apollo con corona di pino in una dipintura murale di Pompei71; un altro con corona di edera72 usata nelle processioni dionisiache, e le figure di questo dio con ramo di mirto sopra alcune monete73 costituiscono altrettante eccezioni nella storia del suo tipo e provano di conserva con l’Apollo di Catania e della nostra moneta che esso tipo andò soggetto a qualche lieve mutamento per influenza di leggende locali. Potremmo noi quindi ignorare qualche particolare leggenda dei Memmi, la quale abbia determinato il tipo di Apollo con corona di quercia. Giova per altro tener presente che Apollo il quale si ebbe in Italia il soprannome di Veiovis e che aveva un tempio tra l’Arx e il Capitolium fin dai più antichi tempi di Roma, è coronato di alloro sui denari di Mn. Fonteius74, di quercia su quelli che portano segnati i nomi di Vergilius, Gargilius, Ogulnius75.
Bastino ora questi brevi argomenti per sostenere la nostra ipotesi circa la testa imberbe della moneta in questione, il che verrà in seguito più esattamente dimostrato.
IV.
Anche facendo astrazione dalla storia della gens Memmia, l’unione di Apollo e i Dioscuri è frequente sui monumenti numismatici. Nello studiare una moneta, quella che prima ci deve venire in aiuto, è la storia della famiglia o della città a cui essa si riferisce. Ma non sempre la storia basta ad illustrare entrambe le facce; molte volte il tipo del rovescio trae luce dal tipo del diritto ed è in corrispondenza con esso. Per citare qualche esempio fra i monetieri romani, giova ricordare il denaro di C. Postumnis Ta (At?), che è coverto al diritto dal busto di Diana, alla faccia opposta, da uno degli attributi di questa dea, il cane; e quello del denaro di Q. Pomponius Rufus colla testa di Giove al diritto e l’aquila al rovescio, e così via. Nei quali casi il rovescio della moneta è in istretta dipendenza da quello della faccia opposta. Ciò premesso, possiamo noi rintracciare una relazione fra i tipi del denaro in questione? Nulla di più facile. Le relazioni dei Dioscuri con Apollo si possono studiare nella leggenda della loro vita. Essi rapirono e fecero loro spose le due figlie di Leucippo, a nome Phoebe e Hilaeira. Ora, secondo l’autore dei canti ciprii, Phoebe e Hilaeira erano figlie di Apollo76. Da ciò risulta, e da altri indizi, che Leucippo, “l’eroe dei bianchi corsieri”, è in realtà identico ad Apollo, di cui il suo nome non è che un epiteto77. E inoltre Elena, l’avvenente sorella dei Dioscuri, presso Euripide, è rapita da Apollo che l’avrebbe menata seco nell’Olimpo78.
Ma non bisogna ricorrere a queste sparse notizie per istudiare i rapporti fra queste divinità nel mondo antico; una più ampia conferma è dato ricercarla nel loro carattere astronomico. Dal giorno in cui, secondo la leggenda, Castore e Polluce salvarono il naviglio di Argo assalito da una fiera tempesta presso le coste della Tracia, la Grecia rappresentava i Gemelli sempre con in capo la stella che gli Argonauti avevano visto brillare sulla testa dei loro compagni. Gli artisti non si dimenticavano mai di figurarla sulla fronte e sull’elmo conico delle statue di questi dei e i marinai del Mediterraneo ravvisavano sempre quelle fiamme fosforescenti, che oggi si chiamano fuochi di S. Elmo, la presenza dei Dioscuri protettori. A questi fuochi, assimilati ad astri mobili, dovettero Castore e Polluce il loro carattere di divinità astronomiche, che loro venne in parte anche dalla leggenda, la quale può interpretarsi in un senso astronomico. Dal momento che escon fuori dall’uovo di Leda, simboleggiante la notte unentesi al dio del giorno, Zeus, per generare i due astri rischiaratori del mondo, fino al momento che abitano a vicenda l’Olimpo, Castore e Polluce appaiono sempre come due divinità essenzialmente luminose. Tutti gli episodi della loro vita, tutti i personaggi che si trovan loro associati, sembran essere la traduzione e la personificazione di fenomeni naturali della luce: Phoebe è “la luminosa” (φοίβη); Leucippo è l’“eroe dai bianchi corsieri” (λευκόπωδος); Ida e Linceo, i fidanzati delle figliuole di Leucippo sono i chiaroveggenti. Per questa loro natura si trovano frequentemente associati ai Cabiri sopra un gran numero di specchi etruschi79, e a Vulcano loro padre, tutte divinità del fuoco. Ma a preferenza d’ogni altro sono accanto ad Apollo, col quale vengono talvolta identificati, fino ai più tardi tempi dell’impero. Sulle monete imperiali dell’Asia niente di più frequente che l’unione di queste divinità con Apollo; ora questo è figurato al diritto e i Gemelli stanno al rovescio coi loro attributi, ora sulle monete di Filippo padre e figlio, di Gordiano Pio, di Gallieno, Apollo tiene per mano e sorregge col suo braccio uno dei Gemelli.
Un gran numero di monete autonome dell’Italia meridionale e della Sicilia associano i Dioscuri ad Apollo, ed è notevole che nella maggior parte di esse il diritto sia occupato dalla testa di Apollo, il rovescio dai Gemelli o a cavallo o in piedi, ma sempre coi loro berretti conici e gli astri. Nuceria, Tarentum, Paestum, Locris, Rhegium, Catana, Messana, Syracusae, Tyndaris ci porgono esempi abbondanti della costante unione di queste divinità, le quali avevano un’affinità indiscutibile; e sono sufficienti a comprovare anche un’altra volta che i tipi della nostra moneta siano quali li abbiamo descritti: maggiormente poi quando si pensi che di tale unione non manca un qualche esempio nella stessa numismatica romana, la quale nel denaro di A. Albinus S. F. ci addita la via per la spiegazione della moneta di L. Memmius.
Dott. Ettore Gabrici
Note
- ↑ Aen. V, 117.
- ↑ Id. IV, 288; V, 597: IX, 779, 784, 812; XII, 127. Quanto al nome Mnestheus o Menestheus v. De Wit, Onomasticon s. v. Mnestheus.
- ↑ Per non uscire dalla serie delle famiglie roinane, i cui nomi si leggono sulle monete della repubblica, cfr. Babelon, Monnaies de la Republique romaine sulla origine delle seguenti famiglie: Annia, Antia, Antonia, Fonteja, Mamilia, ecc.
- ↑ Aen. V, 121.
- ↑ Id. V, 122.
- ↑ Serv. ad Aen. V, 117.
- ↑ Festus, s. v. Caeculus.
- ↑ Id. s. v. Clodia.
- ↑ Cic., Brut. XXXVI, 136; LXXXIX, 304.
- ↑ Aen. XII, 127.
- ↑ Lucrezio dedicò il suo poema a L. Memmio figlio di C. Memmio, e in esso fa intendere che questi considerava Venere come protettrice della sua famiglia: De rer. nat., I, 27.
- ↑ Bab. Memmia, n. 2.
- ↑ Id. id. n. 8.
- ↑ Fra gli scrittori latini posteriori a Virgilio, solo Igino fa cenno di Menesteo troiano, compagno di Enea ne’ suoi viaggi. Non sappiamo donde traesse la notizia di una finta battaglia navale, data da Enea nel tempo che dimorò presso Aceste, in Sicilia, nella quale Menesteo si segnalò e si ebbe in premio una corazza. (Hygin. fab. CCLXXIII).
- ↑ Apollodoro, III, 10.
- ↑ Pausania, II, 25, 5.
- ↑ Il. II, 552.
- ↑ Alcidam. in Orat. Att. II. p. 200.
- ↑ Philostr., Heroica. II. 16
- ↑ Paus., I. 1, 2.
- ↑ Lisymach. in Müller, Histor. gr.
- ↑ Quint. Smyrn. XII, 317.
- ↑ Il. XIII, 690; Dict. Cret., I. 14.
- ↑ Dares, XIX.
- ↑ Dict. Cret., VI, 2.
- ↑ Id. VI, 4.
- ↑ Plut., Thes., XIX.
- ↑ Eckhel, Numi Vet., p. 208.
- ↑ Eckhel, Numi Vet., p. 203.
- ↑ Paus., I, 23, 9.
- ↑ Plut., Cimo, VII.
- ↑ Steph. Byz. s. V. Ἐλαία, Strab. Geogr. XII, 622: XIII, 615 e 622; Plin. Nat. Hist. V, 31, 1, et passim. Una moneta di questa città, del tempo di M. Aurelio, ha il nome del suo fondatore (Eckhel Doct. II p. 494). Essa è riprodotta in Numi vet. p. 203, tab. XII n. 5.
- ↑ Strab. Geogr. VI, 261.
- ↑ Philostr. Vita Apoll. V, 4.
- ↑ Thuc., Schol., I. 12.
- ↑ Riccio, Memmia.
- ↑ Cic. Fam. XIII, 19.
- ↑ Riccio, Memmia, n. 8; ma il Mommsen (a Borgh. Oeuvr: T. I, p. 152) osserva: “Les manuscrits de Ciceron portent C. Maenius Gemellus, ce qui a toute l’apparence d’être la bonne leçon; C. Memmius n’est autre chose qu’une conjecture assez mal avisée”.
- ↑ Plin. XXXV, 3G, 10. “Parrhasius pinxit in eadem tabula Aeneam, Castorem, et Pollucem.”
- ↑ Claud. Eidyl. VII, 38.
- ↑ Plut. Thes, XVIII. 19; Paus. III, 18, 5.
- ↑ Aelian, Var. Hist. IV, 5.
- ↑ Clar. Or. 62.
- ↑ V. nota. 9.
- ↑ Plut., Pomp., XI.
- ↑ Cic., p. Balb., II, 5.
- ↑ Catull., Carm. X, 28.
- ↑ Riscontra il danaro del figlio di lui, ove egli ha il titolo di “imperator” Babelon, Memmia. n. 10.
- ↑ In Aur. Vict. Or. g.r. 15, trovasi citato un libro di Sex. Gellius “Origo G. Romanae” del quale non si possiede alcun frammento.
- ↑ Iul. Caes., apud. Ovid. Met. XV, 804; Aug. apud Ovid. Pont. I, 1, 35.
- ↑ Iuven. I, 99.
- ↑ Orig. G. R. 2.
- ↑ Opi era re degli Iapigi che aveva aiutato i Peucezii ai danni dei Tarentini: ma era morto in battaglia.
- ↑ Paus., X, 13.
- ↑ Garrucci, Mon. dell’Ital. ant. Part. II, pag. 121.
- ↑ Pollux, IX, 80.
- ↑ Dopo la battaglia al lago Regillo, il loro carattere in Roma è quello di due divinità guerriere; non vi è, per così dire, guerra importante, dove i Dioscuri non appariscano per assicurare la vittoria ai Romani od annunziarla. Cfr. Cic. De n. d. III, 5; Flor. III, 3, 20.
- ↑ Per altri esempi consulta Albert, Le culte de Castor et Pollux en Italie, p. 76, 77, 78.
- ↑ Riccio, Memmia, 8.
- ↑ Il Cavedoni invece (Ripostigli, p. 191) unì in un sol collegio monetale C. Fonteio, col bifronte imberbe, L. Memmio e L. Valerio Flacco con Marte tropeoforo per la singolare somiglianza di stile, che passa fra i loro denari.
- ↑ E qui ricordo che sul quincux di Lucera (Babelon, Class. chronol., n. 41) è impressa la testa di Apollo, d’una pinguedine estranea alla finitezza dello stile greco.
- ↑ Borghesi, Oeuvr. VIII, p. 393.
- ↑ Isid. Orig. I, 38, 17.
- ↑ Id. id. ediz. Areval.
- ↑ Id. id. ediz. Lindem.
- ↑ I discendenti dovettero serbare memoria della sacerdotessa Memmia, come i Claudii ben ricordavano, anche negli ultimi tempi della repubblica, la vergine vestale Claudia Quinta, che riescì a far entrare in Roma la statua di Cibele trasportata da Pessinunte (v. Babelon Claudia, n. 12, 13).
- ↑ Curtius Stor. gr. I, pag. 71.
- ↑ Eckhel, (D. N. V. Tomo I, pag. 203) così la descrive: Caput iuvenile adversum promissis crinibus et corona querna relimitum, iuxta arcus, in imo ΑΠΟΛΛΩΝ, inde ΧΟΙΚΕΩΝ R/ ΚΑΤΑΝΑΙΩΝ.... Cfr. Fox, Engravings of unpublished or rare greek coins. Part. I. pl. III, 30. Questi e l’Head, leggono però ΧΟΙΡΙΩΝ.
- ↑ Nè può sospettarsi che ΑΠΟΛΛΩΝ sia il nome abbreviato dell’artista Apollon (ios), poichè il nome che leggesi a sinistra della testa, quello è certamente dell’artista. Non so capire perchè il Torremuzza la dichiarasse testa femminile e l’Head (Catal. B. M. Sicily, n. 31) non faccia proprio cenno della corona.
- ↑ Head, Coins of Syracuse.
- ↑ Overbeck, Apollon p. 418; Atlas, Taf. XXV, N.° 12.
- ↑ Id. id. p, 452; Atlas; Taf. XXV, N. 13.
- ↑ Vaill., Num. Imp. arg. p. 27; num. aer. p. 74, 96. Schol. Nicand. Ther. v. 613.
- ↑ Babelon, Fonteia, n. 9, 12.
- ↑ Id. Gargilia, n. 1, 2; Ogulnia, n. 1. 2; Vergilia, n. 1.
- ↑ Paus., III, 16, 4.
- ↑ Decharme, Mythologie gr. p. 696 n. 3. Sul trono di Apollo ad Amicleo era scolpito questo ratto. (Plin., Hist. nat. XXXV, 40).
- ↑ Eurip., Orest. 1629 e seg. e Schol. 1682.
- ↑ Instit. Archeologico. Annali 1841 p. 234. Inghirami, Monum. etruschi, II, pag. 482 e s. tav. 49, Gerhard, Etruskische Spiegel, CCLV. Id. LVI. ecc.