Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. III/Documenti
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DOCUMENTI
Documento N. I.
Alla lettera della Presidenza dei Rioni XII e XIII (Rissa a Trastevere) del 22 febbraio 1850 n. 419 titolo IV, firmato dal vice Presidente Antonio Ungherini è annessa la seguente nota di Reduci di Vicenza, appartenenti ai detti Rioni :
1. | Mazzucchelli Giovanni | Capitano | fu uno dei più accaniti nemici del Papato.
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2. | Gonzales Luigi | Sergente | similissimo al suddetto. |
3. | Cianchettini Leone | Sergente | idem. Ha rimpatriato per ordine del governo.
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4. | Ubaldi Giuseppe | Sergente | accanito nemico del Papato. |
5. | Costa Giovanni | Caporale | Pessimo sotto ogni rapporto ed acerrimo nemico del Governo pontificio. Ha cambiato domicilio.
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6. | Berretta Odoardo | Caporale | idem |
7. | Berretta Luigi | Caporale | idem |
8. | Diosi Carlo | Comune | idem |
9. | Diosi Augusto | Comune | cattivo ma non quanto il padre Carlo.
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10. | Diosi Regolo | Comune | idem |
11. | Canestri Pietro | Comune | accanito nemico del Governo e dei Preti.
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12. | Canestri Gregorio | Comune | meno caldo del fratello Pietro.
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13. | Argani Filippo | Comune | cattivissimo. Non si conosce l’attuale suo domicilio.
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14. | Lizzani Gerolamo | Comune | Cattivissimo. |
15. | Marilonghi Antonio | Comune | idem |
16. | Bottacci Giuseppe | Comune | Cattivissimo. |
17. | Arati Luigi | Comune | idem |
18. | Feliciangeli Giuseppe | Comune | quasi buono |
19. | Iesori Luigi | Comune | idem |
Documento N. II.
Lettera del Conte Ilarione Petitti al Dottor Ottavio Gigli.1
Torino, 1 ottobre 1848.
- «Amico,
- «Amico,
«Due righe in fretta per replicare alla vostra del 26 p. p. e dirvi che ho mandato all’amico Gioberti con incalzantissimo biglietto la vostra, non avendo potuto portargliela in persona perchè a letto infermo. Ottimo cuore, son certo che potendo giovarvi lo fará. Duolmi che l’amico ha ora de’ disgusti, che vorrei potergli risparmiare: ma le rivoluzioni, mio caro tutto frustano, e molti rovinano. Ho letto gli articoli costì scritti contro me ed in specie quello del Contemporaneo. Fieramente accusato qui d’opposizione, non mi sarei aspettato d’essere tacciato di Vile Cortigiano. Ma alle contumelie, che non non furono mai ragioni, non si risponde, ed a queste soltanto ho risposto, come vedrete fra non molto, nel Risorgimento: vi pregherò allora dirmene il vostro parere, e dirmi l’effetto fatto costì.
«Dragonetti è egli tornato a Roma oppure rimane a Napoli? Datemene delle nuove. Duolmi siate stato voi pure malato. Io, dacchè cessarono i grandi calori, sto peggio assai, e le minaccie di idrope, tenuissime prima, son fatte gravissime dopo i freschi. Amico altre volte, e collega all’Istituto del Rossi, avrei potuto tentare io pure forse un’ufficio presso lui per voi; ma non oso, temendo ora anzi pregiudicarvi, in ispecie dopo i miei articoli contro Pio IX. Non so cosa possano più sperare costì da un rinnegato (sic) che ne è alla sua sesta patria e che non dispero vedere un giorno andare servire il Gran Turco. Aspettiamo l’intimato della mediazione o per meglio dire della mistificazione, la quale non sarà che un solenne fiasco. Intanto abbiamo 120 m. u. pronti; è un pò più che l’armata Pontificia e Toscana: due potenti aiuti coi quali, in virtù della lega, vorrebbero qui alcuni che ricominciassimo la guerra. Addio mio carissimo; amatemi credetemi
Tutto vostro aff.mo |
Documento N. III2.
Frammenti dell’epistolario Grandoni, sequestrato al Corbò.
1. «Pace con Ben: (certamente Benedetto suo fratello) se mi ami. . .» (forse è diretto a Teresa sua amica). II «Teta faccia quella cosa e, se credi, sotto la tua direzione ed in compagnia di chi può regolarla. Quando Iddio vorrà dar fine al mio ingiusto soffrire, e alle tue cordiali fatiche?». III. Sta male: non ha nulla a dire all’amico: gli scrive soltanto per incominciare la nostra nuova corrispondenza. V. «Quando sarà che Iddio intimerà il satis all’ingiusto mio soffrire e quando le tue fatiche avranno il premio?! «Costanza. Domenica, se viene il Papa a San Michele cosa sarebbe potergli parlare; non grazia, ma giustizia. Siamo nei 9 mesi di segreta! Dividi con la mia rondinella i miei amplessi; ti confesso è troppo da vero».
VI. Prega perchè trovi a favor suo e perchè vada da Benvenuti e da Pasqualoni. Saluta la T (Teresa). X Domanda pantaloni da inverno. «Vieni con Ben: — scrive — assistimi, ti prego. Inculco a te attaccamento; e costanza; a Ben: dovere fraterno». XI. Inconcludente. XII. Il carbone della matita è cancellato quasi tutto e non si legge quasi nulla. XIII. La persona di poca stima (si capisce che il Corbò gli aveva scritto che a favore di lui si sarebbe potuta adoperare una persona di poca stima, ma, forse influente; crede sia la più a proposito, nè si risparmi «spesa per salvare la riputazione ingiustamente assalita; nessun indugio adunque; si tentino contemporaneamente più mezzi; non ho che te. . .» Tutti i frammenti dal XIII al XVII dal XVII al XXII, illeggibili e inconcludenti». Una lettera in cui esprime che avrebbe avuto piacere che egli avesse parlato con Pietro (Forse De Angelis,) e lo prega di farlo da sè e non affidarlo a Ben: il quale cava profitto dal disordine dei suoi affari e cercherà che non se ne faccia niente, cercando di presiedervi lui; e così mangiarglisi tutto; dì a Pietro, «che nel caso, sarà indipendente da Ben: e tratterrà solo con te. Il tempo è urgente per prendere un partito; se mai non fosse pronto a risolvere subito nel modo che dissi io, che allora nel 1 gennaio potrà stare con me alla mercede conveniente, tu terrai conto di quanto si verrà spendendo e l’affare potrà poi farlo quando vorrà; dirgli che intanto mi faccia scannuceiare i canneti, tagliare i salci: sii cauto con Ben: perchè a me pare che lui coll’arte gesuitica va cercando di mettersi dentro agli affari miei. Giacchè mi usi tanta amicizia non gli affidare tanto facilmente le cose, se no, io seminerò e lui raccoglierá». Interessa vivamente Corbò, Montefoschi e Del Grande a impegnarsi per lui e prega che dica a Civili (altro amico) di andare da M. (Monsignore) B (forse Monsignor Benvenuti) e da M. M. (Monsignor Matteucci, forse). Ha avuto il passeggio anche la mattina; ne ringrazia; parla della visita fattagli dal capitano Evangelisti che gli riportò le carte che gli erano state tolte in quella perquisizione (in un'altra, non in quest’ultima) meno un cartello di memorie che crede gli sia stato smarrito d’accordo con Ben: — Altra lettera: Fuori A Clemente. Dentro, parla ancora della società con Pietro, se no si farà a colonia: vuol sapere se Pietro si mantiene lo stesso di prima: parla di scannuceiare, di tagliare i salci, che si comprino e seminino una ventina di scorzi di piselli, buoni, a prezzo discreto, ecc. Che i Carabinieri e il Maresciallo lo amano e lo rispettano. — Ormai è un anno che sta in segreta; si facciano istanze a suo favore. «Quella carogna di Nanna, sono sicuro, che non si sarà data nessuna premura di mantenere la promessa di venire da te e di andare con T. dove occorre. «Basta: lasciamo fare quei due indegni, compiano pure l’opera, come hanno fatto fin qui ecc. ecc. — Domanda due volte, in frammenti, a che saggio sta la moneta»
Nell’ultimo dei frammenti trovati presso Corbò (segnato col n. 51) scrive: «quale sarà il primo processo che sarà giudicato della Repubblica, e quali appresso in seguito?. .».
Segue la trascrizione delle carte trovate addosso al Grandoni. Nel mezzo foglio scritto a lapis è detto così: «Mi permetti di farti riflettere che è oramai un anno dacchè fui racchiuso in segreta e quanto sensibile mi sia il soffrire per l’età, salute e danni negli interessi, pregando solo di riflettere che nella entrante stagione ho deciso di lasciare incolti i miei fertilissimi terreni, piuttosto vorrei darli in affitto, che sfruttarli per non avere il rammarico della terminata stagione di averne cioè una porzione affittati senza avene neppure un soldo e di averne seminati a mie spese. . .» poi si salta in una istanza, di cui manca il principio e nella quale, mancano mezzi periodi, in cui egli espone le sue pene, riafferma la sua innocenza, poi seguita: «Non può a meno di assicurarsi, che io in un anno si conti, con opera sporchetta di più processanti, che nell’esponente non emerge colpa di delitto comune, nè suscettibile alla delinquenza, sul riflettere essere un anno circa che ritrovarsi in segreta, et quidem presso San Michele, nè facil cosa è il calcolare quali siano le pene che un uomo sopra i 40 anni, carico di affari, di salute guasta e cagionevole, possa soffrire. Prega perciò l’E. V. a prendere a calcolo tali emergenze e proporne nella Congregazione un esame sul conto dell’esponente e per la ricorrenza, delle S S. FF. di Natale, dargli quel sollievo che per giustizia o grazia crederà concedergli.
Documento N. IV.
S. Gregorio da Sassola, 15 ottobre 07.
- Ill.mo Sig. Professore,
- Ill.mo Sig. Professore,
Mi scuserà se ho tardato a rispondere alla sua del 3. 10 perchè l’Arciprete, a cui mi sono rivolto per aver notizie, era occupato con il Vescovo, venuto in visita.
Nel libro dei battezzati dopo aver letto tutti gli anni da lei indicati, ho trovato la seguente particella che trascrivo:
«Die 19 Aprilis 1818 Ego Augustinus Giarè Parochus S. Blasij baptizavi infantem natam ex Petro Mazzoni terre Petrelle, et Marianna Denari parrociae S. Gregori cui impositum fuit nomen Columba Camilla, quam in sacro fonte tenuit Dominica Pignatti de terra Poli nomine procuratorio, penes . . . Magdalena Jannilli ex oppidi S. Gregori».
Nel libro dei matrimoni dell’anno 1835 prima o dopo nulla risulta; così nel libro dei morti dopo il 1849 nulla è registrato:
Ho domandato ai più vecchi nati circa quell’anno: non hanno saputo dare notizie di queste famiglie, tali cognomi ora non esistono più; il padre della Mazzoni era di Petrella, (Aquila) e forse subito è andato via da qui.
Ho chiesto notizie anche a quei che si ricordano bene dei moti del ’49 ma non si ricordano affatto di questa famiglia.
Raffaele mio figlio trovasi in Roma, nell’Ospizio Tata Giovanni, se vuole chiamarlo per telefono. Si ricordi di esso, e veda se può occuparlo in altro posto che sia governativo.
La saluto distintamente e mi creda
Tomei Vincenzo.
Documento N. V.
73 — 134.
ROMANA
Di Lesa Maestà, ed Omicidio
Contro
Luigi Grandoni, del fu Pietro, Romano, di anni, 48 carcerato.
Relazione.
Arrestato per delitto di altra processura tuttora pendente, il negoziante Luigi Grandoni, fu dipoi compreso anche in quella relativa ai fatti pubblici che avvennero sul Quirinale nel giorno 16 Novembre 1848, nella quale perciò venne per la prima volta costituito nel 19 Febbrajo 1850 fol. 1366. Contiene la medesima due titoli ne’ quali una responsabilità criminale si è dovuta ad esso contestare. Si è l’uno la sacrilega ribellione che in quel giorno spiegò la sua forza: risiede l’altro nell’omicidio del Prelato Palma, che nel giorno stesso fra que’ moti sediziosi ebbe effetto. Di ambedue pertanto è d’uopo parlare distintamente.
Titolo I.
Lesa Maestà.
Alla imputazione del primo titolo sembra non essere il Grandoni sottratto dall’ultima amnistia Sovrana, perchè fu comandante di Corpo nel tempo de’ governi rivoluzionari. Egli narra che circa il giorno 20 Novembre 1848 una deputazione per parte de’ Civici reduci dalla campagna Veneta presentò un istanza al ministro Galletti, perchè si concedesse che questi si costituissero in battaglione civico separato dagli altri. Nel 22 successivo lo stesso Ministro restituì la supplica con rescritto di concessione di questo tenore «che dipendesse dal Generale e dalle leggi della Guardia Civica, e che nominassero per voti un comandante col grado di tenente Colonnello». Quindi se ne formò il ruolo nel quartiere in via S. Claudio, e dopo vari giorni si fece lo scrutinio per il comandante del battaglione, la cui scelta cadde sopra esso prevenuto che era già Tenente nel terzo battaglione Civico e così rimase nominato Tenente Colonnello al comando de’ Civici reduci dal Veneto. Conoscendo però che il numero de’ militari non poteva costituire un battaglione, ne fece non molto dopo rapporto a quel Ministero dell’Interno, per parte di cui fu ordinato che se ne formasse qualche compagnia civica mobilizzata. Egli allora dichiarò di non voler servire come mobilizzato ricusando il brevetto di nomina, e siccome ne dovette per qualche tempo restare al comando finchè fosse destinato altro soggetto in sua vece; così per non contrarre alcuna obbligazione protestò di non percepire intanto soldo nè emolumento alcuno. Si aprì intanto il nuovo ruolo, e furono spedite varie compagnie appena formate in varie città dello Stato, le quali nell’atto della partenza escivano dalla direzione dei movimenti delle compagnie, perchè questa dipendeva direttamente dal Ministero, ed esso perciò non di altro s’interessava che de’ respettivi soldi. Nè vedendo effettuarsi la sostituzione ripetè l’istanza pel suo ritiro allo stesso Ministero, e nel Marzo successivo il Ministro della guerra con ordine del giorno, dichiarò che sarebbe stato rimpiazzato da altro comandante purché fosse rimasto esso a sua disposizione. Irritato per questa condizione ebbe con lui caloroso dibattimento per cui fu posto agli arresti nel Forte S. Angelo: ad egual sorte più tardi fu nuovamente condannato per violazione di un ordine che egli volle commettere, perchè i civici non dipendevano da quel ministero. E sebbene lo stesso Ministro gli dicesse che in quei momento, in cui erano i Francesi a Civitavecchia il suo ritiro gli avrebbe potuto costare la vita; tuttavia non tralasciò insistere onde essere esonerato interponendo anche gli offici dell’Avvocato Sturbinetti, allora Senatore di Roma e Generale della Guardia Civica, il quale trasmise la sua petizione a quel Triumvirato che la respinse al Ministro della guerra con rescritto precettivo di sostituirgli altro comandante. Ma neppur questo si volle attendere e nel giorno 30 Aprile dovette obbedire agli ordini di stare coi suoi militi sulla piazza di Trastevere. Finalmente dopo qualche giorno si ritirò di fatto come fece conoscere al Ministero, che allora mandò un tal Pinna in sua surrogazione. Sostiene in ultimo di esser compreso nell’ultima Sovrana amnistia, come legalmente dimostrerà nel giorno della proposizione della causa f. 1369 a 1376 1368 3838.
Da un riscontro avuto dal Ministero dell’interno si apprende che negli atti del medesimo non esistono elementi per includere od escludere le circostanze dal Grandoni suesposte a suo favore; ne esistono bensi altri che dimostrano aver esso tenuto il comando di quel corpo anche dopo il giorno 30 Aprile, aver richiesto per lui armi e vesti, ed essersi adoperato nell Accrescerlo, e ne’ movimenti di qualche compagnia f. 3849.
L’altro riscontro del Ministero delle Armi, ed alcuni documenti dal medesimo trasmessi dimostrano che nel 23 Dicembre 1848 il ministro Campello deputava, fra gli altri, il Tenente Colonnello Grandoni all’Arruolamento, per cui spiegava le condizioni, di tre compagnie mobilizzate composte di reduci f. 38G2.
Nel 20 gennaio 1849 il ministro dell’interno Armellini, partecipava a quello delle armi, che il comandante Grandoni, il quale stava formando un battaglione di Reduci, avevalo avvisato di aver pronti 70 uomini per spedirsi nella provincia di Campagna, ad unirsi cogli altri già andati, e formare per tal modo una compagnia di circa 140 teste f. 3804.
Nel 30 Marzo 1849 il Grandoni, firmandosi Tenente Colonnello comandante il battaglione Reduci, scriveva al Ministro della guerra e marina afiinchè venisse determinato per il battaglione da lui comandato, quali fossero le competenze di soldo, soprasoldo e tutt’altro tanto pei militi che pei graduati f. 3805.
Nel 31 dello stesso mese il Capitano aiutante del Forte dichiarava essersi ricevuto agli arresti il cittadino Tenente Colonnello Grandoni, fino a nuove disposizioni f. 3800.
Nello stesso giorno il Ministro interino della guerra e marina, Calandrelli, ordinava che il Tenente colonnello Grandoni riassumesse il comando del battaglione de’ Reduci; e nel giorno successivo si faceva noto quest’ordine al Comando la prima divisione militare f. 3867 3868.
Nel 2 Aprile il Grandoni, firmandosi Tenente colonnello civico, scriveva al ministro della guerra e marina che era rimasto edificato del contegno dignitoso ed equo tenuto da lui e dal Triumvirato riguardo all’immediata sua reintegrazione nel proprio onore e grado: e domandava che prima di accettare il comando fosse eseguito quanto si era disposto in un dispaccio 14 Marzo relativamente ad alcuni capitani, che erano stati ammessi estranei al corpo ed avevano portato il disonore e il disordine nel Battaglione, e domandava pure che d’allora innanzi i graduati dovessero sortire dai ruoli a seconda delle leggi, e delle istituzioni di questo corpo f. 3809.
Nel giorno 20 Aprile il Grandoni, in un foglio da lui firmato come Tenente Colonnello, si doleva che mentre il Battaglione Civico de’ Reduci era istituito e confermato sotto la dipendenza del Ministro dell’interno, avesse voluto invece il Ministro della guerra mantenerlo sotto la divisione militare del generale Bartolucci, il quale poi aveva condannato lui comandante il Battaglione, agli arresti di rigore per mancanza ad altri imputabile. Quindi aggiungeva «non potendo più permettere di vedere compromesso il suo onore presso persone che prendono di fronte chi alla patria avea consacrato libertà, interessi, e vita col prestar servizio senza percezione di soldo, dichiara col presente atto di emettere la sua rinuncia formale al grado di Tenente colonnello comandante il Battaglione civico de’ reduci; con che però se non vi fosse in pronto il nuovo comandante, intende per pochi altri giorni prestarsi all’andamento di quel corpo senza però ne grado, nè responsabilità».
Nel 26 Aprile dirigeva un foglio all’Avvocato Sturbinetti Generale della Guardia Civica e Senatore di Roma: gli accennava che nello scorso Novembre i Civici romani, reduci dal Veneto, ottennero dal Ministero dell’interno di formarsi in un Battaglione civico dipendente dal Generale di essa guardia, e che perciò a forma del regolamento civico, venne esso per voti eletto a comandante il battaglione: gli rammentava che stante i bisogni di correre al confine di Napoli e di altre città dello Stato furono mobilizzate varie compagnie, e che allora in Roma completamente armata non ve n’era che una, la quale guarniva il portone del Ministero dell’interno, mentre altra era mancante quasi tutta di armi e vestiario: lo cerziorava che nel giorno 18 dello stesso Aprile dietro sua istanza il Triumvirato avea deciso che il Battaglione dovesse dipendere dal ministero dell’interno a forma della primitiva sua istituzione, e che ciò non ostante il ministro della guerra, ed il Generale della divisione, preso di mira lui comandante, gli trasmetteva ad ogni momento prescrizioni ineseguibili, intimandogli ingiustamente anche gli arresti: quindi lo interessava che stante la dimissione da esso già data il dì 26 nelle mani del Triumviro Armellini, venisse senza dilazione sostituita persona al di lui rimpiazzo, tanto più che trovandosi esso per volontà del popolo eletto a consigliere municipale, restava impossibilitato ad occuparsi ulteriormente all’andamento di quel corpo f. 3871.
E nello stesso giorno 26 Aprile il Senatore Sturbinetti, raccomandandone l’ammissione, ripiegava la surriferita istanza del Grandoni al Triumvirato, che vi rescrisse ordine al Ministero della guerra perchè sostituisse altra persona al posto del Grandoni, il quale per necessità municipale dovea trattenersi in Roma f. 3872.
E finalmente nel 13 Maggio 1849 con ordine del giorno firmato «Avezzana» veniva affidato il comando del battaglione Reduci al capitano dalla civica mobilizzata Giorgio Pinna, promosso a maggiore fog. 3802.
E Giovanni Marchetti inquisito per altro titolo dice, che come cavallerizzo stava al servizio del Grandoni il quale era Colonnello de’ reduci, fog. 5450 t.
A suo carico pertanto oltre la generica prova stabilita in atti con molti deposti testimoniali sulla insurrezione dei giorno sedici Novembre milleottocento quarantotto, concorre
In specie.
Il suo intervento armato sul Quirinale nel tempo delle sediziose violenze di quel giorno.
Egli stesso narra che essendo allora Tenente al terzo battaglione civico, nel recarsi dopo il mezzodì verso il quartiere, vide a piazza Colonna alcuni civici del suo battaglione che non sa indicare, e per aderire alle loro preghiere ne formò un distaccamento, con cui cominciò a pattugliare per una parte del Rione, mentre un primo distaccamento guidato da diverso ufficiale si mosse a perlustrare altra parte. In tal modo giunse a piazza Barberini ove, sentendo il romore delle fucilate che proveniva dalle Quattro fontane, si condusse a quel luogo. Ivi arringò ai suoi militi, ricordando che la civica stava pel buon ordine e che era necessario fare uso di quella subordinazione militare che era indispensabile in quella circostanza d’allarme. Vedendo che qualcuno estraneo al suo distaccamento girava col fucile, pose fazione agli angoli di quel quadrivio con la consegna di non lasciar fermare nè trapassare la strada a chicchesia, stantechè si sentivano colpi di fucile, ed una traccia di sangue appariva presso una di quelle fontane. Ed avendo saputo che que’ colpi partivano dai tetti di S. Carlino, vi mandò un picchetto per cacciarne gli autori, ed ebbe l’apporto della esecuzione di tal ordine, sebbene questi non avessero voluto ubbidirvi al primo intimo. Quindi situò il distaccamento nell’antrone di uno di quei fabbricati, dando il ritengo ai suoi civici, che ubbidienti non mossero fucile, finchè per ordine del suo Colonnello tornò al quartiere da cui fu mandato col distaccamento alla piazza di Venezia, e poscia all’altra della Pilotta, ove stette fino a notte avanzata, quando ritornata la quiete, fu sciolto il distaccamento, ed egli si ritirò in casa. f. 1377 a 1383.
Ma il già conquisito Felice Neri die’ a conoscere che desso fu uno del distaccamento che dal quartiere di S. Claudio condusse Grandoni alle Quattro fontane per abbattere i Svizzeri, al qual effetto una ventina di uomini entrarono anche nel Convento di S. Carlino ov’erano già altri sul campanile a tirare fucilate. Aggiunse che il fuoco durò per un’ora circa, e cessò poi senz’alcun ordine, ma spontaneamente quando non si ebbe più resistenza, fog. 1280 t. a 1290 t. 2010 t. a 2013 t.
Il Grandoni risponde esser mendace il Neri nell’asserire che il distaccamento fosse da lui condotto per abbattere i Svizzeri, mentre non ebbe altro scopo che quello di pattugliare a tutela del buon ordine. Sostiene inoltre che il medesimo non fece parte di quel distaccamento, che era formato di soli civici del suo battaglione, cui il Neri certamente non apparteneva. Dichiara infine che a quell’epoca non era ancor aperto il quartiere di S. Claudio da cui Neri dice partito il distaccamento, fog. 1370 t. 3834 a 38303.
L’essere infine concludentemente stabilito, che il Grandoni fu capo di corpo, organizzò milizie sotto nome di Reduci, e n’esercitò il comando in sostegno de’ rivoluzionari poteri provvisorio, e repubblicano.
Titolo II.
Omicidio in persona di Monsig. Palma.
Sull’altro titolo fu già fatta relazione al Supremo Tribunale da cui si ordinò che fossero proseguiti gli atti per aversene ragione nella formale proposizione della causa, fog. 3708. Ciò è stato eseguito; ed ora tornasi a riferire il fatto e le emergenze degli atti che all’Inquisito riguardano.
Infuriava la ribellione sul Quirinale, ed alcuni civici e tiragliori scaricavano fucilate dal campanile della Chiesa di S. Carlino, su cui erano prepotentemente saliti. Da uno di quelli armati partì un colpo di fucile che subito spense l’infelice prelato Palma nella stessa sua abitazione, posta entro il palazzetto Pontificio dirimpetto quasi a quella Chiesa.
Si ha in genere.
L’atto di sezione, e l’esame dei fisici che la operarono, da cui risulta che due esterne ferite di figura sferica furono rinvenute sul cadavere di lui prodotte da un solo projettile: questo ebbe ingresso nella regione clavicolare sinistra, ove si vide il foro con bordo negricante e infossato e percorrendo sempre in direzione obliqua; fratturò la clavicola con la sottostante prima costa; traforò la colonna vertebrale con la recisione quasi totale della midolla spinale, penetrò nella cavità toracica e forando quindi ambedue i lobi polmonali si aprì l’esito nella medietà della scapola destra, su cui tu osservato altro foro con bordi sfrangiati all’infuori. Si stabili pertanto che l’unica ed immediata causa della morte del Palma furono le lesioni dei polmoni e più la recisione quasi completa della spinale midolla, fog. 1017 924 a 928 1014 a 1021.
In specie.
Le incolpazioni dei parenti dell’ucciso, e le deposizioni di due testimoni dalle quali si comprende che calmato il tumulto, e cessate già le esplosioni in massa fu colpito il Prelato da un’ultima fucilata mentre esso si presentò alla fenestra per assicurarsi della succeduta calma, fog. 808 1026 t. 1041 8041.
La deposizione di un testimone, il quale accenna essere stato ucciso il Prelato in odio all’enciclica del 29 Aprile 1848 da lui scritta, essendo questa la voce pubblica che in quei giorni correva, f. 1658 t.
L’essersi l’Inq, condotto e trattenuto con un distaccamento alle Quattro fontane, come già superiormente si è veduto nel tempo delle fucilate che partivano da S. Carlino e dell’avvenuta uccisione.
La materiale esecuzione del delitto che può credersi effettuata da un milite del suo distaccamento da lui condotto, e specialmente da Felice Neri ora defunto.
In fatti da più deposizioni risulta che il colpo mortale partì dal campanile di S. Carlino ov’erano anche a tirare fucilate diversi civici e tiragliatori reduci da Vicenza: fog. 465 547 685 t. 738 838 1131 1488 t. 1406 1658 2244 2318 t. 2454 t. 3062 3150 t.
Altri testimoni intesero dire che l’uccisore fosse uno di quei tiragliatori e specialmente il menzionato Felice Neri. fog. 168 t. 597 t. 727 810 1438 1768 1945 1946 2226 2245 2920 t.
Due altri testimoni (non sostenuti da altri che essi stessi indicano. fog. 426 t. 1945), depongono avere a loro un tal Natili raccontato di aver veduto che il Neri con un bel colpo uccise il Prelato fog. 20 t. a 25 1708., sebbene il Natili invece abbia asserito in giudizio di averne inteso contro lui parlare, mentr’esso lo vide soltanto vestito alla Vicentina, armato di fucile entrare nel convento di S. Carlino, fog. 1244 a 1249 1253: ed in questa asserzione lo verifica un testimone, fog. 2244 a 2240.
Anche altro deponente dalla sua casa vide Neri vestito alla Vicentina ed armato entrare nel convento, fog. 3154 t.
Un altro coinquisito, che nel giorno del fatto trovavasi in S. Carlino, dice che Neri ed altri salirono sul campanile, e dopo che ne discesero sentendo parlare dell’avvenuta uccisione potò comprendere che autore ne fosse stato il Neri, che più non vide, fog. 781 t. 784 t. 2329 a 2331.
E lo stesso Neri ammise che come reduce da Vicenza andò sul campanile a tirare fucilate, e ne partì dopo avere udito da ignoto fra suoi compagni, che era stato ucciso un prete. Sostenne essere in quel giorno uno della compagnia guidata dal Grandoni, il quale, per meglio battere li Svizzeri, condusse entro il convento una ventina d’uomini circa per la porta già aperta, i quali ascesi sul campanile tirarono, come altri che già vi erano, alla direzione delle finestre sopra il portone Pontificio, dalle quali tiravano pure li Svizzeri, ed intanto era un flusso e riflusso di quelli che venivano a. tirare sul campanile. Aggiunse che la compagnia non osservò più alcun ordine, ognuno andava, veniva, e faceva ciò che più gli piaceva. 1275 t. 1287 1289 t. 1290 1300 2010 ter. 2012 1288 1295.
Il Grandoni nulladimeno sostiene che i civici del suo distaccamento, che fu formato a piazza Colonna, ove se ne formò pure altro che fu capitanato da Capiccioni, non mossero fucile, e quei soli del picchetto entrarono in S. Carlino, che esso vi spedì per cacciarne gli autori delle schioppettate, e ritiene che i militi da lui spediti non scaricassero le loro armi perchè tornarono a lui all’istante. Ripete che Neri non apparteneva a quel suo distaccamento: ammette di aver inteso parlare, non ricorda quando, dell’uccisione del Prelato per colpo partito dai tetti di quella Chiesa; ma dichiara ignorare affatto l’uccisore. Nega infine qualunque sua responsabilità in quell’omicidio non potendo nuocergli la sua azione diretta al mantenimento del buon ordine nel condurre a quel luogo il suo distaccamento, fog. 1382 3834 a 38384.
Documento N. VI.
Difesa del Grandoni detta dall'Avvocato Pietro Gui.
Sarebbe superfluo il rammentare al Tribunale sul principio della nostra difesa; che se in tutte le cause egli è stato sempre solito di usare grande avvertenza e ponderazione per raggiungere la verità (per quanto è dato all’uomo di fare coi mezzi umani) più in questa conviene che vi ponga la massima possibile, perchè di quante ne abbiamo finora trattate è la più interessante e per la sua entità politica e per le conseguenze che ne possono derivare. Dico che sarebbe superfluo questo ricordo, poichè ciascuno di noi è profondamente penetrato della somma importanza della cosa, e quanto sia necessario procedere a rilento per non porre il piede in tallo, imperocchè un errore (che Dio tenga lontano) sarebbe fatalissimo, non solo perchè potrebbe costare il sacrifizio di taluno che potrebbe non aver meritato di essere immolato nell’altare della giustizia, ma ancora perchè, essendo tuttora viventi e sparsi sulla superficie d’Europa la maggior parte di coloro, che hanno avuto la parte principale negli avvenimenti di cui andiamo a discorrere, un errore del Tribunale, sarebbe per essi e per il loro partito il più glande dei trionfi, e che da essi potrebbe esser chiarito e troppo comprometterebbe in faccia a tutto il mondo l’onor nostro (chè tutti siamo solidali in questo giudizio): è l’onore del nostro legittimo Governo, che a tutti noi deve essere sommamente a cuore. Noi in questa causa dobbiamo internarci nei giorni tortuosi e tenebrosi di una rivoluzione, che, dapprima lasciata coperta, latente, con tripudi, e feste, ed evviva al Pontefice, scoppiava poi nei giorni 15 e 16 novembre 1848 in aperta ribellione e s’inaugurava col sangue di un primario Ministro di Stato; gli effetti furono a tutti palesi e palesi le cause moventi e finali; ma i mezzi e i modi speciali concertati e attivati nell’oscurità, il numero delle persone concorrenti allo scopo, e la parte principalmente da essi sostenuta, è ciò che in questo importantissimo giudizio si deve indagare e liquidare; in questi tortuosi e tenebrosi giri di rivoluzione noi abbiamo per iscorta principalmente la fiaccola alzata da un impunito, fiaccola, che, a mio credere serve, piuttosto a cambiar colore e forma di quello che a rischiarare gli oggetti. E pertanto di suprema importanza nella nostra discussione il fissar bene l’occhio e la mente sulla persona di costui, il considerare il rivelo, l’indagare quanto questo si trovi in armonia coi fatti e con gli altri risultati processuali, per giudicare quale e quanta credibilità possano meritare le sue parole, e qual peso possano le medesime portare nella bilancia della giustizia. Prima però di entrare nella parte analitica e critica, trovo opportuno (seguendo l’esempio del Ministro Processante nel fiscale ristretto) di toccare un momento la parte storica di questa Causa, o per dir meglio del processo. Protesto, per buona intelligenza dei mio discorso, che io non intendo qui di dolermi o di prendermela con alcuno dei due processanti o di coloro che possano aver avuto parte, o direzione, od influenza sulla compilazione degli atti; da banda le querele e i rimproveri che io dichiaro non voler dirigere ad alcuno; intendo solo di fare, in via di storia, delle osservazioni che molto potranno, a mio credere, conferire a dare la giusta valutazione a taluni elementi fiscali e ad interessarsi maggiormente della condizione di molti inquisiti in causa.
È noto che, avvenuto il delitto, ed assunti appena gli atti primordiali generici, la processura rimase deserta per lo scoppio della rivoluzione. Dopo cinque mesi da che era ripristinato il legittimo Governo, ossia ai 3 di novembre 1843 si riassume l’incarto per la prosecuzione. Cominciano a farsi degli arresti, fra i quali ai 20 di gennaio 1850 quello di Luigi Grandoni, non per mandato di giudice, ma per ispontaneo zelo degli agenti di Polizia, fra i quali era il più accanito e forse provocava la cattura del Grandoni, uno che aveva già militato nel Veneto alla guerra, si era mostrato caldo liberale e che poi, revoluto pallio, era tornato a funzionare fra le guardie politiche. Passano due interi anni di languore e d’inerzia fatale; dico fatale, perchè intanto venivano scomparendo dalla scena i veri rei, i principali, si assottigliavano e si smarrivano i mezzi di prova rispettivamente pel fisco e per gli accusati, come al proposito dimostreremo; insomma si andava sciupando il tempo più prezioso. Nella decorrenza di questi due anni il Grandoni, che intanto si macerava in una segreta, dopo il primo e preliminare interrogatorio, non subiva che due soli costituti (l’uno nel marzo 1850 l’altro nel novembre 1851) e presso reiterate sue richieste ed insistenze; e, fino dai primi momenti, con tutta ingenuità, deduceva i luoghi dov’esso accedette nell’epoca degli avvenimenti politici, e le persone che ebbe ad avvicinare, e nondimeno si ometteva di assumere i necessari mezzi di verifica, mezzi allora facili ed ovvi; la quale omissione vedremo qual pregiudizio abbia recato alla Causa. Dopo oltre due anni consumati in questo modo, come diceva, il Grandoni specialmente strepitava senza fine, e faceva giungere alto i suoi reclami; il pubblico che avrebbe desiderato di veder prima di ogni altra causa, i risultati di questa, mormorava, sicchè ai 10 di gennaio 1852, benchè poco o nulla si fosse concluso, Monsignor segretario di Consulta scriveva un dispaccio al Ministero inquirente, con cui dichiarando la necessità di vedere una volta ultimata la processura, ordinava al Processante di divenire alle contestazioni. Erano le cose a questi termini quando due giorni dopo tale dispaccio saltava in campo il famigerato Bernasconi, detenuto allora nelle carceri civili di Monte Citorio e domandava l’impunità, promettendo rivelar fatti importantissimi intorno all’assassinio di Rossi ed altri delitti seguiti nell’era rivoluzionaria. Costui, uomo perdutissimo sotto ogni aspetto, già condannato a 15 anni di galera pei furti violenti commessi a S. Croce in Gerusalemme, desideroso di riscattarsi dalla pena inflittagli e da altre cui poteva andare incontro per altri suoi reati, ebbe tutto l’agio di studiare e di architettare un rivelo in ordine all’omicidio Rossi. Esso era stato in S. Michele qualche tempo, ed aveva colà acquistate delle notizie relative allo stato degli atti; era stato alle Carceri Nuove, alle Terme, a Narni, a Civita Castellana, da ultimo al Carcere Criminale, da per tutto aveva pescato, organizzato, tramato per digerire il suo progetto ed avea avuto anche dei veicoli per concertare le cose.
Il mio collega, che ha sostenuto, non è molto, la Causa di un custode del Carcere Criminale, nella qual causa appariscono le mene, le pratiche e i raggiri dell’impunitario per sostenere il suo rivelo, alzerà bene il velo a queste magagne. Frattanto perchè non si creda che io asserisca senza fondamento e per mettere bene in guardia il Tribunale contro le trame dell’impunitario dirò che dallo stesso Bernasconi apprendiamo in processo fog. 3137 che, stando esso, fin dal febbraio 1851, in segreta alle Carceri Nuove, ebbe modo per mezzo di tal Maria, abitante incontro alle Carceri in Piazza Padella, di farsi venire a parlare certa Lucia Tomei, ch’esso dichiara sua sorella, ma che poi è chiarito non esser tale, ma una meretrice, che, sotto questo nome di sorella, accedeva poi frequentemente al Carcere Criminale quando il Bernasconi fu trasferito colà ed era per esso il mezzo principale di comunicazione: dirò che quando, poco dopo i primi riveli, al primo Processante sottentrò il secondo, questo trovò Bernasconi che, da otto mesi, stava alla larga, in piena libertà, ed a contatto con tutti, e ciò contro il disposto preciso della legge; dirò che dall’esame del condetenuto Amos Fioravanti si ha che il Bernasconi stette cinque mesi con esso al carcere criminale che diceva avere preso l’impunità per liberare sè e la madre; che una volta lo pregò a scrivergli diversi nomi, ma se ne rifiutò; che diceva di aver potuto raccogliere molte cose dai carcerieri nei diversi luoghi di detenzione, dov’era stato, e che sperava di poter riuscire al suo intento ; dirò che dall’esame di Pietro Croce, detenuto anche questo a Monte Citorio col Bernasconi, risulta che costui faceva tante ciarle, cui esso non prestava grande attenzione; e fra le altre diceva che quando usciva aveva da prendere alcune centinaia di scudi che teneva in una montagna, ma esso deponente non sa per qual motivo mettesse fuori queste favole. Il motivo però ce lo dimostra l’altro condetenuto Gaspare Casa, il quale depone di essere stato a Monte Citorio col Bernasconi, il quale, udito che esso era stato alle Carceri Nuove con uno dei Costantini, lo esortò a voler riferire al Tribunale che il detenuto Costantini si era con lui confidato di aver col fratello ucciso Rossi, e che se avesse ciò riferito, avrebbe liberato lui da 15 anni di galera e gli avrebbe regalato una somma. Dirò infine che sotto il 25 giugno 1852 l’Inquirente, a cui non potevano essere ignoti i maneggi del Bernasconi, fa un rilievo in atti, da cui risulta essersi chiesto sin dal 17 detto mese a Monsignor Presidente di Consulta che Bernasconi sia rimosso dal Carcere Criminale per essere collocato in altro luogo, separato non solo dagli altri coinquisiti in Causa, ma allontanato pure da qualunque contatto di altri carcerati, come meglio sarà possibile.
Ora, nonostante tutte queste mene per concretare il suo rivelo, nonostante che Bernasconi per camminar sicuro non si proponesse che di secondare le tracce inquisitoriali, già a lui ben note, nonostante che si facesse principalmente ad aggravare persone che sapeva emigrate e contumaci, poichè era tranquillo che non lo potessero smentire, pure per disposizione di Providenza, che in causa di tanto momento, non vuol permettere che il Tribunale sia ingannato da questo tristo, il suo rivelo è chiarito mendace, falso, calunniatore in parti sostanzialissime, come in progresso andremo vedendo.
Questo cenno storico era necessario per norma e lume del Tribunale di premettere alla dissertazione sul merito intrinseco della Causa.
Ora venendo a questo, conviene prima di tutto ben definire e dirò circoscrivere lo stato della questione: il processo, che serve di base al presente giudizio, presenta le fasi e i risultati della rivoluzione, lo scoppio di questa nei giorni 15 e 16 novembre 1848, le parti che molti vi presero e sostennero per raggiungerne lo scopo coll’uccisione del Rossi; non bisogna però amalgamare tutto insieme; conviene anzi sceverare il delitto politico dal delitto comune; quello che si perseguita, quello di cui unicamente si deve aver ragione, è questo; su quello il Santo Padre ha tirato un gran velo coll’amnistia. Tutte le indagini dunque si devono limitare e restringere all’omicidio del Ministro, e da vedere e chiarire chi direttamente vi ha cooperato. Non basta: chè molti liberali per conseguire l’intento, conoscendo che grande ostacolo n’era il Rossi, finchè trovavasi al potere, lo inimicassero, ne dicessero male, desiderassero, volessero che la sua caduta avesse luogo con mezzi legali e non legali, gioissero al suo assassinio, ne approfittassero per compiere la rivolta, tutto ciò non è sufficiente per stabilire una correità e complicità nel delitto, de quo agitur; e guai se lo fosse; non quindici inquisiti, ma centinaia e centinaia dovrebbero figurare in questa causa. La responsabilità del fatto versa su coloro che, non solo desiderarono e vollero la caduta di quell’uomo, ma entrarono nel disegno completo dell’uccisione e v’influirono efficacemente nella commissione. Posti così in chiaro i termini della questione, passo all’esame degli elementi che si portano specificamente a carico de’ miei patrocinati, incominciando dal Grandoni.
È ben singolare il contegno tenuto dall’impunitario per la parte che riguarda Grandoni. L’impunitario, che si proponeva per non sbagliare strada, di secondare ed ampliare le fila che trovava già ordite dall’inquisizione, sapendo Grandoni in carcere come imputato di correità nel delitto, volle confermare l’accusa; conoscendo però di non aver che fare con uomo del volgo, e che però facilmente l’avrebbe potuto smentire e confondere, fu molto cauto; in molte riunioni secondo lui preparatorie al delitto, non lo pose in mezzo, perchè poteva essere sbugiardato, ma lo mise al di fuori di notte, al buio; quanto ad altri fatti apposti al medesimo, per mettersi alla sicura, non parlò di fatto proprio, ma de relato altrui; e così gli parve di aver bene accomodato le cose, perchè se sorgevano dei testimoni a dire, per esempio, che al negozio Mattei, al fenile Brunetti, il Grandoni non era mai apparso, l’impunito poteva schermisi col rispondere — non lo potevano vedere, perchè in quei luoghi non entrava, ma chiamava fuori taluni per abboccarcisi, onde gl’intervenuti non potevano accorgersi della sua comparsa —; se sorgevano testimoni a dire che i tali e tali altri fatti imputati a Grandoni non sussistevano, egli poteva schermirsi col rispondere — Eh, a me l’ha raccontato Guerrini, l’ha raccontato Ranucci (soggetti emigrati e dai quali non potea temere esser contradetto) se il Guerrini, il Ranucci si sono ingannati, o mi hanno ingannato, che ho da farci io? — Ma non si avvide, nella sua malizia, l’impunitario della imbecillità di queste deduzioni; perchè è una cosa che desta non so se più la compassione o lo sdegno quella di supporre che Grandoni, se fosse entrato nelle trame che si dice venissero preparate, volesse andare fino al limitare della porta del negozio Mattei, del fenile di Brunetti, e poi avesse avuto quasi vergogna o paura di entrare, quando vergogna o paura negli agitatori non ve n’era a quei giorni più alcuna, nè esso avrebbe potuto temere la presenza dei convenuti, perchè tutti del medesimo pensare e sentire.
Nonostante tutta questa cautela il Bernasconi diede in un forte inciampo, allorchè, volendo dare a credere che la sera del 13 novembre avesse luogo l’ultima definitiva riunione al fenile di Brunetti con distribuzione di armi e denaro, disse che vi accedette il Grandoni con altro individuo, che da Guerrini gli fu detto essere Corsi chirurgo in San Giacomo.
Non sine quare l’impunitario nominò il Corsi come compagno di Grandoni, perchè sapendo che Corsi fin da due anni innanzi il rivelo era in carcere ed in causa, credette di poterlo nominare senza tema d’essere smentito; ma prese disgraziatamente un solenne marrone, perchè si venne a provare che il Dottor Corsi il 13 e il 14 novembre era in Soriano, sicchè dovette dimettersi in Camera di Consiglio. Invano si è cercato di cuoprir la menzogna dell’impunitario col supposto di un equivoco, mentre si è detto che nella legione romana vi erano due altri fratelli Corsi abitanti al Popolo, e che potea essere in quella circostanza uno dei medesimi, tanto più che avendo detto l’impunitario che l’individuo ad esso annunciato per Corsi gli parve di statura non bassa, questa corrisponderebbe ad uno dei Fratelli Corsi del Popolo, e non al Dottor Luigi Corsi.
Invano, dico, si è cercato ricoprire la menzogna, perchè il Guerrini avrebbe bene identificato all’impunitario, la persona del Corsi chirurgo in San Giacomo; dippiù il Guerrini in quella contingenza non avrebbe avuto neppur motivo di mentire coll’impunitario e nominargli un soggetto per un altro, mentre l’impunitario entrava in tutti i segreti di quel convenio.
Dunque il mendaccio di Bernasconi in questa parte è manifesto; ed apparve anche più chiaro quando, dopo aver detto che quei due si allacciarono alla porta e dopo aver dato una vaga descrizione del Corsi, in altri costituti, non rammentando più quel che aveva detto in antecedenza, espresse che in quella circostanza esso non vide affatto nè Grandoni, nè Corsi, ma li udì semplicemente annunciare. Concludiamo adunque in questa parte che il rivelo dell’Impunitario perciò che riguarda i supposti accessi di Grandoni al Negozio Mattei e al fenile Brunetti, specialmente la sera del 13, non solo è isolato, mancante di ogni verificazione necessaria, mentre nussun altro sia degli inquisiti, sia dei testimoni l’include; e ciò basterebbe perchè fosse interamente scartato: ma è dimostrato falso e mendace nella circostanza essenzialissima della suppósta associazione del Grandoni al Corsi Chirurgo, che ha provato un alibi limpidissimo.
Andiamo innanzi. L’impunitario, dopo aver parlato e della Società Brunetti a della Società Facciotti e della Società di Colonnello, delle quali due ultime ora non ha luogo a discorrere, parla ancora di quella dei Legionari a Capranica, e questa per noi è la più interessante, perchè niente meno si pretende che là appunto si fermasse il condetto specifico esecutivo per la morte del Bossi e là si estraessero perfino a sorte gli assassini. L’impunitario in questa parte è stato cauto, poichè non parla di fatto proprio, ma de relato altrui per porsi al sicuro; nondimeno vedremo in quali scogli gravissimi andasse anche qui ad urtare. Frattanto, come la esistenza della società dei Legionari è indubitata, occorre chiarir bene molte cose intorno la medesima. Rammento che in quell’epoca dominava anche troppo lo spirito generalmente di associazione; dapertutto casini e circoli e gli uomini tendevano a formar distinte riunioni secondo le varie professioni o classi, cui appartenevano. Così v’era il circolo romano, frequentato dai legali ed altre colte persone; il circolo dei commercianti, dove andavano coloro ch’eran dediti alla mercatura e al commercio; il circolo popolare pel basso popolo; v’erano anche circoli militari.
Non è dunque da meravigliare che anche i legionari rimasti in Roma, dopo la ricomposizione della Legione stessa che sotto il comando di Galletti andò nelle Romagne, e che non la seguirono o perchè non volevano far parte di truppa assoldata, o perchè non piaceva il comandante, si unissero fra loro e per associare i cadaveri di qualche commilitone, e per istabilire una società di mutuo soccorso, e per aver la medaglia dal Municipio; e per ricostituirsi ancora in battaglione. E qui prego di avvertire che non è il Grandoni che presieda, che domini, che diriga, come si è voluto malignare; l’idea di Grandoni non può scindersi da quella di Pietro De Angelis, di Ruspoli, di Giovanni Costa, di Belli e di Buti. Fin dalle prime sessioni fu creato presidente il Ruspoli, presidenza che esso non abbondonò mai. Consiglieri erano col Grandoni, Costa e Belli.
Da alcuni appunti rinvenuti al Grandoni sulle riunioni, si ha che fin dal secondo Congresso del 22 settembre alla Filarmonica s’incaricarono i deputati Costa, Grandoni, Lopez, di andare dal Generale della civica, onde informarlo dello scopo delle riunioni (tanto la cosa voleva farsi nei modi legali) e nel terzo Congresso ai 27 settembre nel teatro Capranica si rileva dagli appunti medesimi, cui si deve credere, perchè fatti in tempo non sospetto, che i deputati notificarono di essere stati dal Generale e di aver avuto assenso per le riunioni, purchè ciascuno dei Legionari presti il servizio ai rispettivi quartieri civici.
Il Buti, cantante e componente il Consiglio, fu quegli che s’incaricò di trovare il locale delle riunioni, prima alla Filarmonica e quindi al Capranica. Il teatro veniva aperto da taluni inservienti del luogo che ne avevano in custodia la chiave; l’accesso era libero a tutti. Il Grandoni ha sostenuto che esso non ha mai solo presieduto alle riunioni; ma sempre in unione di Costa, di Belli, di Ruspoli le cui idee sono indivisibili; e comunque a questi sia piaciuto di dire esservi stati chi soltanto due, chi tre volte, è un fatto constatate da tutti i Legionari esaminati in Causa, anche in aspetto di testimoni, che Grandoni non è stato mai il solo a dirigere le riunioni, ma sempre è stato veduto in compagnia dei suddetti. Nessuno parla che là si cospirasse all’eccidio del Ministro Rossi; e sarebbe stata una scempiaggine il supporre che si volesse in pubblica assemblea, a porta aperta, con l’ingresso libero a qualunque estraneo, trattare di siffatte materie; mentre poteva chiunque introdursi ed andare ad esplorare, come infatti vi è stato chi per conto della Polizia, vi si è portato a spiare. Che se anche da alcuni di coloro, che formavano la platea, di più caldi, si facevano proposizioni o progetti avventati, nessuno potrà dire che Grandoni e gli altri del Consiglio li approvassero.
Anzi il Ruspoli sostiene che talvolta Grandoni parlava in senso di tenere all’ordine certuni più irruenti nelle pretese, inculcando moderazione e che tutto si doveva ottenere coi mezzi legali; i quali principi, non piacendo forse a taluno, dice il Costa che il Grandoni non godeva perciò troppa fiducia, che si dubitava che si fosse intruso per qualche mira, che si tacciava da Gesuita, e udì perfino una volta che si trattava di sbrigarsi di lui; e De-Angelis asserisce avergli detto più volte il Grandoni a quell’epoca, che essendovi delle teste calde, egli cercava di tenerle sottocchio e in soggezione, perchè non eccedessero. Se dunque il Grandoni non era il primo rappresentante in quella riunione, essendo Ruspoli il presidente, se esso come consigliere ebbe sempre a soci indivisibili il Costa, il Belli, in tutte le riunioni cui intervenne, e che si tenevano a porte aperte, se niuno può dire che quando esso vi assisteva con gli altri nominati soggetti, si prendessero, lui consenziente, dei partiti immoderati, risultando, ch’egli si adoperasse per tenere in freno i caldi e gl’irruenti fino al punto di divenire esoso ed insidiato della vita, nessuno di voi, o signori, credo che vorrà calcolare come un elemento di reità a danno dei Grandoni la sua intervenienza a Capranica, come non l’ha calcolato a danno del Ruspoli, del Costa e del Belli, le cui idee non si possono scindere da quelle del Grandoni, e che pur non sono stati punto perseguitati dal fisco.
Ma veniamo un poco più alle strette. L’impunitario dice che la sera del 14 novembre vi fu riunione al Circolo popolare, dove fra gli altri intervenne il Grandoni e si tenne proposito dell’uccisione del Rossi, che circa le 3 o le 4 di notte mossero tutti per accompagnare Sterbini a casa, e colà giunti furono congedati da Sterbini, Ciceruacchio, Bezzi ed altri Legionari, dicendo loro Sterbini: — Ragazzi, io già l’ho annunciato nel mio Contemporaneo, non mi fate far domani trista figura — e si separarono; nè esso sa dove andassero.
Qui cessa di parlar di fatto proprio; e sottentrando a parlare de relato altrui per ciò che egli suppone avvenisse posteriormente, in quella sera, dice che la sera seguente del 15, il Ranucci al Caffè delle Belle Arti gli contò che più tardi Sterbini, Guerrini, Grandoni e i Legionari si erano riuniti a Capranica, che quivi non ricorda se tutti, od alcuni furono imbussolati e sortiti sei od otto per la esecuzione del delitto nel giorno seguente. Io credo che maggiori imposture e falsità non potevano accozzarsi di quelle che ha posto insieme l’impunitario in questo suo discorso, e quando parla di fatto proprio, e quando parla de relato altrui. Di fatto proprio egli dice di aver veduto Grandoni in quella sera al Circolo, e che questi con altri accompagnò Sterbini a Ripetta. Io potrei limitarmi a rispondere a questa parte di rivelo con una sola parola — proba —; tu sei attore, tu devi dare prove al Fisco delle tue asserzioni incolpative; il fatto sarebbe avvenuto in una clamorosa riunione, in un luogo pubblico,, presenti infinite persone. Adducine qualcuna a provar ciò che dici; ma tu non porti che una unica gratuita asserzione; e questo basterebbe perchè il Tribunale nella sua coscienza disprezzasse il tuo detto. Ma a me non basta; voglio chiarirti mendace. Tu dici che in quella sera con il Grandoni e con il Costa vi erano al Circolo, fra gli altri, Giuseppe Caravacci e i fratelli Pietro e Giovanni Trinca; quegli stessi fratelli, che tu poni poi anche la mattinata del 15 alla Cancelleria e vuoi farli figurare in tutte le fasi di quegli avvenimenti. Or bene, del Caravacci non parlo, e spetterà al suo Difensore il mostrare come in quella sera non era, nè poteva essere al Circolo, perchè assisteva indefessamente il fratello moribondo. Dico solo che è luminosamente provato in atti che i fratelli Trinca in quell’epoca erano nella Legione romana l’uno a Rimini, l’altro a Cesena, sicchè apparisce manifesta la calunnia del rivelante. Nè può ammettersi in esso un equivoco, perchè in un costituto protesta che conosceva da molti anni i fratelli Trinca alla salita di Marforio dove il padre teneva osteria, e ne dà una minutissima descrizione personale; e non basta; egli non solamente li fa presenti al Circolo in quella sera del 14, ma li pone più tardi a Capranica; li ripone la mattina del 15 alla Cancelleria; li fa di nuovo presenti la sera del 15 alle dimostrazioni partite dal Caffè delle belle Arti; insomma li mette in mezzo a tutti i garbugli. Un equivoco potrà avvenire relativamente ad una persona che poco si conosce, ed in una circostanza parziale nella quale per la confusione può essersi traveduto, ma quando si ha lunga e piena conoscenza di due soggetti, quando si pongono in diversi luoghi, in diverse circostanze, in diverse azioni, e a contatto proprio, sotto i propri occhi, e tutto ciò non sussiste, neanche un bambino potrebbe ammettere un equivoco, un travedimento; è falsità patente, Signori miei, è calunnia manifesta; e voi non ci dovete, non ci potete passar sopra, perchè questo infame per eccellenza, ha cercato ingannarvi, contravvenendo alle condizioni principali sotto cui gli è stata accordata l’impunità; e se quei due fratelli fortunatamente non ne avessero avuto un alibi sì limpido, li avrebbe avvolti nel turbine. E per dimostrarvi come costui giungesse al colmo della impudenza e svergognatezza vi dirò anche il contegno da lui tenuto, quando il Processante gli contestò, che i fratelli Trinca da esso accusati, in quell’epoca militavano nelle Romagne. Un altro si sarebbe ricreduto, avrebbe almeno posto per iscusa un errore, no; con una fronte di ferro si fa a rispondere a tale contestazione — Se è così, io pregiudicare non li vorrei, ma a me pare certo di averli veduti alla Cancelleria in quel giorno come dissi. — Or dunque, signori miei, vedete come avete a tremare sul rivelo d’un uomo apertamente calunniatore, e che come ha mentito in una parte, deve aver mentito in quasi tutte le altre. — Falsus in uno falsus in omnibus. — E che in realtà mentisse anche per ciò che riguarda la supposta presenza del Grandoni la sera del 14 al Circolo, e l’accompagno di Sterbini si rileva anche da due giudiziali deposizioni. L’una è di un Maresciallo di Carabinieri, mandato colà in quella sera dal Colonnello Calderari per esplorare. Questi era stato alla Guerra del Veneto, epperò, almeno di veduta, dovea conoscere il Grandoni ch’era ufficiale nella Legione romana; egli ci dice di aver veduto Sterbini, Canino, Brunetti, non fa punto menzione di Grandoni, che se v’era avrebbe veduto e quindi riferito.
L’altra deposizione è di Luigi Badini. Anche questo, ch’era un esploratore per parte della Polizia, andò a spiare quella sera al Circolo non solo; ma fu uno di quelli che accompagnarono Sterbini a casa. Dice che Sterbini e Brunetti lungo la strada andavano parlando insieme di Rossi, che Sterbini giunto a Ripetta entrò in sua casa, e Ciceruacchio all’osteria del Forno; ed esso deponente andò a riferire il discorso al Capo Agente di Polizia, che lo conferma in Processo pienamente, e non fa punto parola di Grandoni. È dunque chiaro, o signori, che l’accesso di Grandoni al Circolo e l’accompagno di Sterbini è una falsità dell’impunitario, come falsità era quella di aver posto colà i fratelli Trinca.
Ora consideriamo l’altra parte di rivelo in cui l’impunitario parla de relato altrui; ossia del Ranucci, il quale, la sera del 15, gli avrebbe confidato che la notte antecedente a Capranica vi sarebbe stata altra riunione, presenziata da Grandoni, Sterbini ed altri, dove si sarebbe fatta la sortizione dei sicari. Questo punto è uno dei più importanti della Causa, perchè qui precisamente si vuole fosse fermato il condetto esecutivo del delitto.
Ma non v’ha punto, dirò, più mancante di questo di una verificazione qualunque. È il solo impunitario che ne parla; ne parla non di fatto proprio, ma de relato altrui; ed il rivelo in questa, come nelle altre parti, contiene solenni falsità. Infatti il Ranucci avrebbe confidato all’impunitario che fra gli altri la palla nera sarebbe toccata anche al Chirurgo Corsi, e che vi sarebbero intervenuti fra i molti i soliti fratelli Trinca. Or per quel che abbiamo osservato il Corsi Chirurgo ed i Trinca provarono un alibi perfetto, e così apparisce chiaro che il rivelo contiene falsità; ed anche perchè i soggetti sortiti non tutti sarebbero stati Legionari il che escluderebbe la pretesa che a questi si volesse affidare l’eseecuzione del delitto.
Il rivelo contiene falsità o che le abbia inventate Bernasconi, o gliele abbia date ad intendere Ranucci, contiene falsità; chi potrebbe quindi ritenere che vi fosse in quella notte colà un conciliabolo e che v’intervenisse e prendesse parte attiva il Grandoni? Ponete bene nell’animo, signori, che il solo rivelante è che vuol darvi a credere questa storia; ch’esso non parla di fatto proprio, ma de relato; che il rivelo contiene palpabili falsità; e che d’altronde non vi ha un elemento per ritenere siffatto convenio e la ideata sortizione. L’impunitario dice che, uscito dal Circolo, accompagnò con altri a casa Sterbini; Badini ci aggiunge di aver veduto entrare in casa Sterbini e Brunetti andare all’osteria del Forno; il rivelante d’altra parte accompagnò a casa Facciotti: Ecco l’azione finale di quella sera; ch’era già ben tarda oltre le 4 ore di notte; qui la catena si spezza, il posteriore convenio a Capranica è un fatto nuovo, non in corrispondenza degli atti antecedenti; perchè chi a ora tarda, dopo una congrega al Circolo va a casa, e vi entra, si suppone che vada al riposo; e per ritenere che più individui siano poi riusciti un’ora più tardi dalle rispettive loro abitazioni per portarsi in un dato luogo, convien provare, e la prova manca assolutamente, ed ogni presunzione è contraria. Chi prova almeno in genere che quella sera ci fosse riunione a Capranica, che vi si portasse di più l’urna con le pallottole e bianche e nere per la sortizione? Nessuno. Eppure a tempo debito si potevan fare delle indagini su ciò, che forse sarebbero riuscite fruttuose, o al Fisco, o a taluno degli accusati; Grandoni fin dal secondo costituto aveva detto delle riunioni di sera al Capranica; se si fosse fin d’allora indagato chi avea la chiave, chi apriva, chi era solito di assistere si sarebbe venuto a capo di qualche cosa. Si lasciò scorrere un tempo prezioso e quando si attivarono le indagini era già tardi. Nel 31 luglio 1852 la direzione di Polizia riscontrando Monsignor Segretario di Consulta gli dice che tutte le pratiche possibili sono state fatte per aver qualche notizia nella riunione di persone a Capranica per trarre a sorte gl’individui destinati a pugnalar Rossi, ma il resultato delle medesime non ha dato alcun favorevole elemento alle viste della punitiva giustizia; solo si è saputo che nell’epoca ricordata la custodia di quel teatro l’ebbe Lorenzo Materassi, il quale vi faceva abitare la vecchia sua genitrice, oggi defunta. Si andava ad esaminare allora Cesare Sartori illuminatore del teatro, Pietro Varesi muratore e David Campeggi falegname del teatro stesso; dai medesimi nulla si ebbe per rapporto alla sera del 14; si seppe solo che in quell’epoca là vi abitava la madre di Materassi; e che quando si tenevano lé riunioni, le assisteva Marco di Notte e tal Antonio detto Fardacchino; ma la madre di Materassi e Marco di Notte eran morti e Antonio Fardacchino fu irreperibile; sicchè il Fisco, che avrebbe acquistato molto se avesse agito con celerità, rimase totalmente al buio per la inerzia inquisítoriale. Quindi non trovo al tutto irragionevoli le smanie e le furie del Grandoni quando per la prima volta ai 15 luglio, dopo quasi quattro anni, per la prima volta, come se allora cadesse in mano del fisco e si trattasse di un fatto recente, veniva domandato se dove passasse le sere del 13 e 14 novembre 1848; e vi volle un bel coraggio a domandarglielo, chiedendo quasi un impossibile a dirsi e a provarsi; onde il povero tribolato andò in escandescenze e rispose delle strambalerie, che poi gli si sono registrate in processo, quasi come altrettanti elementi di reità.
Concludiamo adunque che il convenio a Capranica la notte del 14 è una poesia del rivelante che neppur parla di fatto proprio, e priva di ogni verificazione, anzi infetta di falsità e calunnie; è un anello staccato dalla catena e che non si connette con gli atti precedenti, perchè la serata era finita con l’andarsene tutti a casa e Brunetti all’osteria del forno; epperò il Tribunale la deve assolutamente rigettare.
Ma si dirà dai susseguenti si possono argomentare gli antecedenti; la mattina del 15 si videro la maggior parte dei Legionari in tunica (cosa insolita) uniti alla Cancelleria, da alcuni legionari fu sacrificato Rossi, dunque vi fu fra loro precedente concerto, l’ordine d’indossar la tunica si vuol dato da Grondoni; egli era là presente; dunque anch’esso entrava nel condetto. A rilento, o Signori. Osservo dapprima che l’essersi il 15 trovati molti Legionari alla Cancelleria adunati ed in tunica, non proverebbe che ciò derivasse da un precedente concerto; è noto che il giorno innanzi pei quartieri e pei caffè e pei circoli si fecero girar polizze, colle quali s’invitavano di andar tutti all’indomani in uniforme alla Cancelleria.
Di ciò non può dubitarsi, perchè il Contemporaneo del 15 novembre al n. 200, dopo l’assassinio di Rossi, scriveva — che l’allarme gittato dal Ministro con la rivista aveva eccitato un’insolita agitazione; che il 14 s’invitava con biglietto a stampa la civica di trovarsi l’indomani in uniforme per garantire la pubblica quiete — Che meraviglia, adunque, che essendo tutti i civici invitati sin dal giorno innanzi, a vestir tutti la montura, i Legionari in quel giorno indossassero presso questo invito la loro divisa Vicentina, ch’era per essi divisa di vanti e di ostentazioni in quella giornata di solennità; e che trovatisi quindi molti in tale arnese alla Cancelleria si unissero insieme? Osservo inoltre, che, quando anche l’avessero indossata presso un concerto preventivo, non ne sorge la necessità di ritenere che tal concerto si prendesse a Capranica nella sera 14; ma potevano averlo preso altrove, ed essersi l’uno all’altro precedentemente passata la voce; come accadeva, quando associavano qualche cadavere dei loro commilitoni; che senza ordine o convenio, l’uno all’altro passavano voce e in un momento si trovavano tutti in divisa; taluni andavano al Caffè delle Belle Arti, altri ai Circoli, là si vedevano in molti; era facile il restar d’accordo di presentarsi il 15 in montura alla Cancelleria. Rifletto di poi esser falso che l’ordine di andare in quella mattina in panuntella partisse dal Grondoni; quei due che lo sostengono, dicono una solenne menzogna; poichè l’uno dice che l’ordine fu scritto, l’altro verbale, ma dato il dì precedente nel quartiere dei Reduci a San Claudio; ma è provato a fior di evidenza che il quartiere a San Claudio il 16 non era ancoro aperto; che non poteva esserlo perchè non era costituito il Battaglione; che il quartiere stesso non si aprì che ai 25 di novembre, come evidentemente risulta dai riscontri del Ministro delle armi e dalla deposizione del Suscipi proprietario del locale, che solo il giorno 25 sgombrò delle macchine che vi teneva e ne consegnò la chiave; e che infine Grondoni non poteva dare quell’ordine perchè esso allora era ancora semplice Tenente civico appartenente ancora al 3 Battaglione, dove fino al 25 novembre prestò servizio, epperò non aveva alcuna qualifica od autorità di emanare un ordine a chi non gli era soggetto. Dico infine che quando anche, per ipotesi, fosse stato il Grandoni che avesse ordinato ai Legionari che si fossero trovati colà in tunica, non se ne potrebbe logicamente dedurre che fosse a parte perciò di un condetto ad necem, e che per sostenere l’operazione, avesse detto ai Legionari di trovarsi là in panuntella; poi che il concetto della maggioranza, era di fare una dimostrazione soltanto contraria al Ministro, di fischiarlo, di mostrargli che non si aveva paura di lui per i Carabinieri raccolti per imporre; ed infatti taluni testimoni udirono dai Legionari là uniti che questo era il loro pensiero; nè osta che frattanto i capi agitatori, che ora sono lungi, avessero prezzolato alcuni sicari per una operazione più grave e delittuosa, cui per confondere le idee, avevan fatto coprire di tunica (ed infatti taluni dei designati assassinii non erano Legionari, comunque si vedessero là in panuntella, mentre di tuniche, dopo lo scioglimento della Legione, se ne trovavano dapertutto e da molti di quelli che le avevano spogliate eran passate presso i rigattieri, e gli ebrei). La storia ci mostra che nelle congiure non si son fatti entrare mai molti individui, perchè più grande è il numero, maggiore è il pericolo della scoperta e di mandar fallito il colpo: indettar pochi e risoluti e fidi, ed anche mascherarli, cambiando loro veste per divergere i sospetti e confondere le idee, è la tattica usata dai congiurati; è quella che dovettero usare Canino e Sterbini e Galletti ed altri caporioni della rivoluzione. Epperò un testimone a contatto del Rossi dice saviamente:
Ignoro se tutti coloro che circondarono il Rossi fossero consapevoli che si dovesse pugnalare, ma è da riflettere che siccome la uccisione del Rossi fu occultamente condotta e riuscì tanto inaspettata è a ritenersi che non tutti forse i componenti i gruppi fossero indettati dell’effetto finale di quell’accedere e riunirsi attorno al Rossi sul luogo del delitto.
Ma Grandoni quella mattina era là presente, e girava e si abboccava coi Legionari. E ciò che prova? Era là presente, come vi era mezza Roma; non si è neanche stabilito il vestito che indossava; chi lo vuole in panuntella, chi in divisa civica, chi vestito alla borghese; anzi l’impunitario sostiene precisamente alla borghese. Girava e parlava coi Legionari? E De Angelis e Costa, che erano anche là, non giravano anch’essi, non parlavano con alcuno dei loro commilitoni? Eppur nessuno ha pensato a molestarli. E qui ancora occorre di rimarcare la falsità e calunnie dell’impunitario anche in questa parte. Egli dice che fra i Legionari in tunica vide i fratelli Trinca, e i fratelli Ferrauti, Giuseppe Caravacci e che Ranucci poi gli confidò che vi era anche il Chirurgo Corsi. Quante menzogne! i fratelli Trinca stavano in Romagna, Pio Ferrauti provò a fior di evidenza che in quel giorno non si mosse dalla zecca Pontificia; il Chirurgo Corsi provò pure una limpida coastata; ed altrettanto si viene a stabilire a favore di Caravacci, ch’era, in quei momenti, presso il letto del fratello agonizzante.
Quante menzogne! Ora andate, signori miei, e trovate una dramma di vero nei detti dell’impunitario e arrischiatevi a prestar fede nella minina parte alle sue asserzioni!
Ora andiamo brevemente ai susseguenti. L’impunitario dice che la sera stessa del 15 fu fatta una dimostrazione di pubblica esultanza, che partì dalle Belle Arti e dal Circolo popolare, andò al Popolo a festeggiare ed associare i Carabinieri, transitò il Corso, si portò alla Pilotta dai Dragoni a far altrettanto, ed infine alla Minerva dal Galletti poi Ministro, e che a tale dimostrazione si unì il Grandoni al solito, i fratelli Trinca, il Caravacci; ma se è provata inesistente la presenze dei Trinca specialmente: se il rivelante è calunniatore anche in questa parte di rivelo, chi potrebbe crederlo in ordine al Grandoni, come se questi avesse voluto unirsi a quella canaglia da trivio? Grandoni l’impugna; nessun testimonio o coinquisito lo nomina; si nominarono molti individui veduti in quella dimostrazione; nessuno vide Grandoni; eppure fu una solenne pubblicità; si percorsero le vie più frequentate di Roma al chiaror delle facci e dei lumi, che si acclamavano dalle finestre; tutti correvano sulle porte, ai balconi per vedere quella processione; se vi era il Grandoni era un impossibile che qualcuno nol vedesse; se niuno lo vide, è prova che non vi era; ed anche in questa parte il rivelo precipita. Ma, parlando dei susseguenti, è molto significante il contegno del Grandoni il giorno 16, quando scoppiò la rivoluzione al Quirinale. S’esso entrava nel condetto, doveva vedersi in quel giorno alla testa de’ suoi Legionari salire il Monte, ed associarsi a coloro che vollero con la violenza imporre al Sovrano un ministero democratico; invece si vede il Grandoni che, sul tardi, con un drappello di civici del 3 Battaglione, cui apparteneva, muove a ridosso del palazzo Pontificale, alle Quattro fontane; e costringe i tiraglieli e i Legionari montati sul campanile di San Carlino per far le fucilate contro il palazzo, li costringe, dico, a cessare il fuoco ed uscir di quel luogo. Ma come? quegli che gli avrebbe diretti e guidati il giorno innanzi, il di seguente li abbandonava non solo, ma volgeva contro di loro la sua autorità ed i suoi civici? Come spiegare questo paradosso?... Sta là un processo risolto da questo Tribunale in comprova di ciò ch’io dico.
Ad attaccar la vita del povero Grandoni si recano altri fatti. Guardate, si dice, dopo l’uccisione di Rossi non ebbero più luogo le riunioni a Capranica, si costituì allora il Battaglione dei Reduci, e fu il Grandoni, nominato Tenente colonnello, grado cui egli grandemente ambiva. Signori, quando si volesse malignare, a qualunque fatto può darsi un’interpretazione sinistra. Grandoni ha ben dichiarato la ragione per cui non ebber luogo più le riunioni a Capranica, come si formò il Battaglione, e ne ebbe esso il comando e come e quanto lo esercitò. Il 15, il 16, il 17 furono giorni di terribile tumulto a Roma, e non si pensò certo a riunire i Legionari; frattanto siccome si era sparsa voce che l’uccisione di Rossi fosse avvenuta da coloro che vestivano la tunica Vicentina, siccome questa si vestiva da molti che non avevano pur appartenuto alla Legione, e il loro aspetto allarmava grandemente la città, furono solleciti Grandoni, De Angelis, Ruspoli, di riunire i Legionari nel palazzo Chigi, persuaderli a spogliar quella divisa, e prometter loro d’interessarsi per la formazione del Battaglione, come era loro desiderio, e ciò per impedir maggiori disordini, e metter coloro sotto una disciplina militare. Con tale divisamente essi tre come deputati presentarono l’istanza per la formazione del Battaglione al Ministro Galletti, che, due giorni dopo, la respinse con rescritto favorevole, in cui si leggeva — Udite il volere di S. Santità — Ruspoli conferma tutte ciò e dice averne parlate al Generale della Civica e al Ministro Galletti. Fu allora aperto il quartiere a San Claudio, ed aperti i ruoli; si fece quindi la votazione, nella quale la maggioranza dei voti fu per Pietro De Angelis, poi per il Grandoni, quindi per il Romiti. Non volendo nè il primo, nè il terzo accettare, fu quasi costretto ad assumere l’incarico Grandoni. Ebbe nomina provvisoria. Nella formazione dei nuovi ruoli in Dicembre, espulse i peggiori, non prese mai soldo; non indossò mai i distintivi di Colonnello; non s’imbarazzò che della parte amministrativa; ed emise quindi la sua rinunzia prima delle contestazioni col Bartolucci, come può verificarsi. Ed, ecco che i fatti han tutti la più plausibile spiegazione.
Non ho detto tutte ancora. Il rivelo dell’impunitario, è totalmente atterrato, perchè chiarito falso calunniatore in parti sostanzialissime, e nelle altre totalmente nudo e destituito di ogni mezzo di prova, e da questo il Grandoni è garantito abbastanza; mi resta a parlare di altri soggetti i cui detti potrebbero ferire ugualmente il Grandoni; vale a dire di Felice Neri e di Innocenzo Zeppacori.
Felice Neri, che ognuno di noi conosce in quali condizioni si trovasse in causa, vistosi presso a morte, mandò a chiamare Monsignor Matteucci per fare una spontanea; ma Matteucci vi mandò il degnissimo Monsignor Fiscale col Processante per assumere le sue deduzioni; ed in queste disgraziatamente disse più bugie, che parole, mostrando così esser purtroppo vero che «nonnullos vita prius quam improbitas deserit».
Volle, fra le altre cose supporre, che il 14 il Grandoni facesse affiggere al quartiere di San Claudio un ordine del giorno manoscritto in cui prescriveva che tutti i Legionari in tunica e colla daga si trovassero alla Cancelleria, e che qualora i Carabinieri avessero preso contrasto si fossero tutti raggruppati in piazza di Spagna. Il non essere allora aperto il quartiere, il non potere per ciò affiggersi il supposto ordine del giorno, il non essere allora Grandoni rivestito di un’autorità da emanare tali ordini, l’inesistenza del Battaglione, mostra come quell’infelice volesse mentire sino agli estremi, e come fosse animoso contro il Grandoni a carico del quale anche suppose che il 16 andasse a tirar le fucilate a San Carlino da cui fu ucciso Palma, mentre il Tribunale, per resultati del Processo per questo titolo, lo dichiarò innocente. Ma se anche un momento si volessero attendere i detti del Neri, si guardi cosa egli esprime — a me il Grandoni non rivelò alcuna operazione da farsi — ma da tutte quelle circostanze insieme riunite esso opinò che Grandoni fosse inteso di quel che doveva accadere.
Era una sua opinione, ma Grandoni non rivelò a lui alcuna operazione da farsi. Ma se Neri era nel condetto ferale e si protestava che il Grandoni non gli rivelò, ne viene di conseguenza che anche a volergli prestar fede, non si proverebbe che Grandoni fosse cosciente di quanto era per accadere.
Andiamo a Zeppacori: Quest’altro sciagurato che aveva protestato di non conoscere Grandoni, e che non sapeva se avesse avuto parte al delitto, dopo una lunga tortura per uscir di tribolazione, affrastellò diverse storielle di confidenze fattegli al Palazzo di Venezia dal Costantini e dal Todini, i quali gli avrebbero detto che il Grandoni e il Costa erano al Circolo popolare la sera del 14, quando Canino e Sterbini dissero doversi uccidere Rossi e che quei due entravano nella congiura. Posteriormente ebbe a revocare i suoi detti e a dichiarar che quanto aveva detto, lo aveva detto per tedio del carcere e per avere un più umano trattamento. Quando si crederà a quest’uomo? Prima, nel mezzo, in fine? Mai, io credo; perchè un uomo sì vario, incostante ne’ suoi detti non merita fede alcuna. Ma ne meritasse alcuna, qual norma avremo noi per conoscere quando ha mentito, e quando ha detto il vero?
La norma più sicura io credo sia quella di confrontare le sue parole con quelle di Colombina. Questa donna del suo cuore era la depositaria de’ suoi secreti; questa era dimorante al Palazzo di Venezia e tutto udiva e vedeva; questa credette che Zeppacori avesse preso l’impunità, epperò volle secondarlo con piacere manifestando senza ritegno quanto era a sua cognizione. Or bene questa donna che dice sul merito di Grandoni? Nulla. Mentre deduce tante altre circostanze, mentre dice che Zeppacori le magnificava sempre Canino e Sterbini, Ciceruacchio, come quelli che avevano ordinata la morte di Rossi, non le nominò mai Grandoni. Dunque? La conseguenza è chiara; Zeppacori nulla sapeva di Grandoni, nè di fatto proprio, ne de relato altrui, perchè l’avrebbe confidato con tutto il resto a Colomba. Ma già il Tribunale stesso ha dimostrato quanto poco creda alle ciarle di Zeppacori, mentre avendo questi nominato Costa come uno dei Capi della congiura, per referto di Costantini non l’ha punto molestato.
Nulla dirò poi degli scritti intercetti a Grandoni e a Corbò, in cui si crede sieno fatte pratiche per aiutar Grandoni. Io gli ho letti, nè vi ho appreso quel che si suppone in contrario. Si duole della lunga inquisizione, parla sempre della ingiustizia delle sue pene, della propria innocenza, e ricorda talvolta delle circostanze unicamente per richiamo di memoria necessario dopo un lungo tempo trascorso; ma non fa pratiche per intorbidare il vero. A me pare aver combattuto alla meglio gli elementi che si recano contro il Grandoni.
A meglio persuadersi della loro fallacia faccia un’ipotesi il Tribunale. Ponga al posto di Grandoni, il Ruspoli o il Costa, ma precisamente questo, e vedrà che quanto si attribuisce a Grandoni può star bene ai medesimi ugualmente.
Se l’impunito avesse nominato Costa; vediamo; Costa legionanario, interveniente a Capranica, anzi uno del consiglio; Costa al Circolo popolare la sera del 14; designato anche lui da Zeppacori come uno dei capi della congiura; Costa alla Cancelleria la mattina del 15; insomma dapertutto compagno indivisibile del Grandoni. Se queste circostanze non hanno nociuto a Costa per essere avviluppato nella processura, come potrebbero nuocere al Grandoni? D’altronde si rammenti la confessione fatta dal Trentanove al Colonnello del Battaglione Monti nell’atto di emigrare colle lacrime agli occhi. Ad esso svelava dove, come, e da chi si disegnasse ed eseguisse la morte di Rossi; ed avendogli domandato se Grandoni vi era stato, rispose di si a poca distanza, ma che non sapeva niente del delitto che doveva eseguirsi, e che anzi era rimasto spaventato.
Si rammenti che il Dott. Mucchielli ebbe una consimile confidenza da altra persona che collima perfettamente alla confessione del Trentanove.
Si rammenti ciò che ha dedotto l’inquisito Testa in due costituti; cioè che da due diverse persone, che nomina, udi al Caffè di S. Carlo, che Grandoni la mattina del 15 si adoperava anzi a distorre ed allontanare i Legionari dal Palazzo.
Si rammenti che quanti conoscono Grandoni e quanti sono stati interpellati sul suo conto, tutti han parlato della sua onestà e moderazione e nessuno, nessuno lo stima capace di aver cooperato alla commissione di un delitto, che più volte ha poi deplorato.
Si rammenti che se Grandoni era correo avrebbe emigrato con gli altri; aveva tempo di farlo, e denari: ebbe sollecitazioni dal Giudice Bosi e non volle muoversi.
Si rammenti che le stesse stravaganze fatte da questo uomo dal primo giorno che è entrato in carcere sono una prova della sua buona coscienza.
Dopo tutto questo io abbandono il Grandoni alla vostra religione. Badate; se le apparenze che lo gravano son molte, molti sono i fatti e gli argomenti che lo giustificano. Badate; un errore sarebbe fetale; se un solo dubbio restasse, voi non potete condannarlo.
Questo e il caso in cui realmente è applicabile la gran sentenza del Romano diritto satius esse ecc.
Documento N. VII.
Sunto della difesa stampata dall’avvocato Pietro Prassinelli a favore degli imputati Caravacci, Papucci, Selvaggi, Zeppacori, Capanna e Colonnello.
L’avvocato Pietro Frassinelli era incaricato della difesa dei sei imputati Giuseppe Caravacci, Paolo Papucci, Gioacchino Selvaggi, Innocenzo Zeppacori, Filippo Capanna e Ruggero Colonnello.
Egli dunque presentò ai. Giudici del Secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta, una memoria a stampa, di 37 pagine, in carta grossa, barbata, in fogli in-8, grande, edita in Roma dalla Tipografia della Reverenda Camera Apostolica, di cui quella carta porta la marca con lo stemma: ma la stampa ne è scorrettissima.
Consacra il Frassinelli le prime sedici pagine della sua scrittura dal § 1 al 16 a dimostrare le lacune, le deficenze e le fallacie principali della relazione fiscale, l’abiezione morale, la scelleratezza dell’impunitario Bernasconi, la inattendibilità delle rivelazioni ed accuse di lui, di cui rileva le contraddizioni e le menzogne, fondandosi non poco sulle risultanze del processo contro Onofrio Colafranceschi.
In alcuni punti di questa parte, non ostante lo stile curialesco e trasandato, le argomentazioni dell’avvocato Frassinelli sono abbastanza efficaci e vigorose.
E nel § 16 il Frassinelli conchiude così: «Risultando dagli atti che una cospirazione estesa predisponesse l’insurrezione del 16 novembre; che dai capi cospiratori fosse determinato l’assassinio del giorno 15 come mezzo a fine, mentre le indagini processuali dovevano allargarsi alla cognizione integrale della causa, del mezzo e dallo scopo, doveva l’effetto punitivo pur limitarsi, in forza dell’editto di amnistia, a coloro che come mandanti principali od esecutori diretti apparissero aver prestato opera dell’omicidio Rossi.
«Che dalla qualità dei mezzi adoperati per consumare un delitto, il delitto stesso assuma la sua qualifica, qualifica che mentre va a renderlo di maggior conseguenza penale, non ne altera certamente però la sua essenza, basta di prendere a lettura il nostro Codice penale per convincersene. Ed in vero, se per esimere un detenuto dalle mani della forza si recano a questa ingiurie o ferite, la violenza addiviene qualificata; se per derubare Tizio delli suoi effetti viene usata violenza aperta, o scalata la casa, il furto addiviene qualificato; se per fuggire dal carcere, viene ucciso il custode, la fuga addiviene qualificata, e non si legge già omicidio con fuga, ma bensi fuga con omicidio, giacche lo scopo del delinquente era la fuga, e dell’omicidio fu duopo qual mezzo per riuscire nell’intento.
«La stessa epigrafe del processo Lesa Maestà con omicidio comprova abbastanza il nostro assunto.
«Se, dunque, l’uccisione del Rossi, come si confessa dallo stesso Giudice Istruttore non fu che il puro mezzo per riuscire nell’intento propostosi dalla rivoluzione, e questa in forza della magnanimità sovrana venne amnistiata, non all’effetto di infligger pena, ma allo scopo unico della reintegrazione dei danni a favore degli eredi dell’ucciso, potrà oggi ricercarsi se consti del colpevole. L’assassinio Rossi non fu il mandato di segreta società, nè fu l’effetto o di una personalità, o di individuale modo di pensare politico, ma bensì flagrante la rivolta si volle nella tomba, (sic) per seppellire con lui la sua politica».
Come i lettori vedono, in questa singolare visione della gravissima causa che si discuteva c’era per parte dell’Avvocato Frassinelli nel tempo stesso della semplicità, della leggerezza, della ingenuità ed anche della furberia.
E la furberia consisteva nella premessa che l’effetto della punitiva giunti zia doveva limitarsi a coloro che come mandanti principali od esecutori diretti appaiono aver prestato opera all’omicidio del Rossi; poichè, da questa premessa, l’Avvocato Frassinelli si apprestava a dimostrare che niuno dei suoi sei difesi era stato o mandante principale o esecutore diretto e per conseguenza confidava francarli tutti sei di ogni responsabilità.
Di fatti dal § 17 al § 29 egli si diffuse a dimostrare quanto inconsistenti fossero le prove, quanto lievi gli indizi accumulati contro Giuseppe Caravacci dal Fisco e gli fu facile ottenere poi il proscioglimento di lui dall’accusa per non abbastanza provata reità.
E simile effetto sortì agevolmente la difesa fatta dall’Avvocato Frassinelli, nei paragrafi dal 29 al 33 dell’imputato Paolo Papucci, esso pure, come il Caravacci, figura di secondaria importanza nel processo, e contro il quale non erano risultate prove di molta entità.
Ed anche per Gioacchino Selvaggi, da lui difeso nel paragrafi dal 34 al 40, l’Avvocato Frassinelli, tuttochè il Selvaggi fosse persona di maggior rilievo del Caravacci e del Papucci nelle file del partito avanzato, consegui il proscioglimento dal carcere, quantunque sul Selvaggi il Fisco avesse raccolto indizi più gravi che sugli altri due, sebbene nè veramente serii, nè efficacemente convincenti.
Quattro soli paragrafi l’Avvocato Frasinelli consacrò alla difesa di Innocenzo Zeppacori, perchè mostrò di credere che le deposizioni dei quattro pescivendoli, che avevano asserito essere egli rimasto in pescheria sino all’una e mezza o alle due pomeridiane del 15 novembre, avessero costituito una coartata sufficiente per stabilire la di lui assenza dal palazzo della Cancelleria nell’ora del delitto; ma non pare che badasse abbastanza alle risultanze processuali, ai continui sproloqui, alle ora affermate, ora smentite e poi di nuovo affermate rivelazioni del Zeppacori e alle continue sue contraddizioni e alla importante sua nomina a Capo-popolo del Rione IX e alla provata sua intrinsechezza con Ciceruacchio. Il difensore non valutò esattamente la gravità della situazione del suo cliente, il quale sarebbe stato ugualmente condannato, anche con una più diffusa, più vigorosa difesa ; ma questa, ad ogni modo, quale la presentò il Frasinelli, fu fiacca, slombata e deficiente.
Più fortunato fu l’Avvocato Frasinelli nelle brevissime deduzioni presentate, in tre soli paragrafi, dal 42 al 45, a favore di Filippo Capanna, sul quale, benchè fossero gravi, non erano schiaccianti le resultanze processuali, per cui, quale complice dell’omicidio Rossi, andò assolto.
Gli ultimi sei paragrafi della sua difesa a stampa il Frassinelli consacrò a scolpare l’equitatore Ruggero Colonnello dalle molteplici e gravi risultanze che si erano venute addensando contro di lui e che, a rigore di giusta procedura, non avrebbero dovuto e potuto provare la complicità di esso nell’omicidio del Rossi, ma che venivano, nel loro insieme, a dare rilievo alla figura del Colonnello, designandolo come uno dei capi di quelle turbe di facinorosi in parecchi e svariati eventi e in troppe circostanze, in guisa, se non da legittimare, da spiegare le soverchianti illazioni del Fisco.
Anche in questa ultima parte della sua memoria defensionale, non ostante qualche fugace lampo ingegnoso, il Frasinelli non fu felice e stringente argomentatore e nou riusci a sottrarre il Colonnello alla condanna, da cui, dato l’ambiente, le circostanze, il momento, nè Demostene, nè Marco Tullio lo avrebber salvato.
Documento N. VIII.
Sentenza definitiva dei due Turni riuniti del Supremo Tribunale della Sacra Consulta contro gli imputati dell’uccisione del Conte Pellegrino Rossi.
Sacra Consulta
Oggi mercoledì 17 maggio 1854
Il Supremo Tribunale
Composto
Degli Illustrissimi e Reverendissimi Giudici
Monsignori Salvo Maria Sagretti, Presidente
Paolo Paolini
Costantino Borgia |
Coll’ intervento
- Dell' Illustrissimi Monsignori
- Banaventura Orfei Avvocato generale dei poveri
Pietro Benvenuti Procuratore Generale del Fisco e della Bev. Cam. Apostolica; non che
Degl’Ili.mi Signori Avvocati
Pietro Frassinelli |
Difensori d’ufficio |
Assistendo l’infrascritto Cancelliere
Si è adunato nella grande Aula del Palazzo Innocenziano in Montecitorio per giudicare a forma dell’Articolo 565 del Regolamento Organico, e di Procedura Criminale la Causa
Romana
Di Lesa Maestá con omicidio
In persona
Del Conte Pellegrino Rossi
Contro
Grandoni Luigi, del fu Pietro, Romano di anni 40. Mercante di Campagna.
Costantini Sante, di Feliciano, da Foligno, di anni 28 compiti, Scultore.
Costantini Francesco, di Feliciano, da Foligno, di anni 21, Ebanista.
Colonnello Ruggero, del fu Michele, da Napoli, di anni 50, Cavallerizzo.
Facciotti Bernardino, di Giacomo, da Palestrina, di anni 34, Ebanista.
Facciotti Filippo, di Giacomo, da Palestrina, di anni 30, Ebanista. Zeppacori Innocenzo, del fu Filippo, romano di anni 20, Pescivendolo; non che
Contro
Sterbini dottor Pietro, ed altri mandanti, ed esecutori contumaci, ed emigrati
Sulla qual causa il Secondo Turno di questo Supreno Tribunale nel dì 2 Maggio 1854, pronunciò la sua sentenza.
Premesse quindi le solite preci all’Altissimo.
Sentito il rapporto della causa fatto dall’Ill.mo e Rev.mo Monsignore Giovanni Muccioli, Giudice Relatore.
Letta la suindicata Sentenza del 2 Maggio 1854, con la quale venne dichiarato constare in genere di mandato per ispirito di parte dato ed accettato per uccidere il Conte Pellegrino Rossi, non che dell’eseguita morte del medesimo, mediante istromento incidente e perforante, avvenuta in Roma nel Palazzo della Cancelleria Apostolica, il giorno 15 Novembre 1848, e come colpevoli di detto omicidio con animo deliberato, e per spirito di parte vennero condannati in qualità di mandatari Sante Costantini ad unanimità di voti, ed a maggioranza di voti Luigi Grandoni alla pena dell’ulultimo supplizio ; non che come complici nel prefato misfatto Ruggero Colonnello e Bernardino Facciotti alla galera perpetua ; Francesco Costantini, Filippo Facciotti, ed Innocenzo Zeppacori ad anni venti della stessa pena, ordinando in pari teigpo che si proseguano gli atti a forma di legge contro i Contumaci, e chiunque altro inindiziato nel su espresso delitto.
Viste e ponderate le risultanze processuali.
Visti i Verbali d’Udienza del 24, 27, 28, 29, 30 Marzo 5, 7, 26, 28, 29 Aprile, e 2 Maggio 1854.
Udite le Conclusioni Fiscali.
Ascoltate le verbali deduzioni defensionali del signor Avvocato Pietro Gui per Luigi Grandoni, Sante Costantini e Francesco Costantini; del signor Avv. Pietro Frassinelli per Ruggiero Colonnello, ed Innocenzo Zeppacori ; del signor Avv. Giovanni Sinistri per Filippo e Bernardino Facciotti ;
Ricevuta da tutti i predetti Signori Difensori la dichiarazione di non avere altro da aggiungere, avendo avuto per gli ultimi la parola.
Chiusa la discussione e rimasti soli i giudici per deliberare
INVOCATO
IL NOME SANTISSIMO DI DIO
A Turni riuniti il Supremo Tribunale ha reso, e pronunciato la seguente
SENTENZA.
Era il giorno 15, Novembre 1848, giorno fecondo di quanti mali ebbe quindi riversato l’anarchia negli Stati della Chiesa, e la riapertura de’ Consigli legislativi richiamava al Palazzo della Cancelleria un numeroso concorso di spettatori. Molti deputati erano già al loro posto, erano piene le Tribune, e molta frequenza di popolo nell’atrio, e fuori. La Guardia Civica dalle dieci del mattino guerniva la piazza della Cancelleria, e la porta dell’Aula del Consiglio; ma nell’atrio, o meglio dal vestibolo del Palazzo lino alla Scala vedevansi in vari gruppi altre assise militari: eran circa sessanta volontari di quel battaglione, che intitolavasi dai Reduci sotto gli ordini di un Luigi Grandoni, armati di daga, e vestiti tutti della vecchia e leggera tunica estiva, che faceva un curioso contrasto coi rigori della nuova stagione. Scorgevansi fra questi acerbi visi un confabular sospetto, un muoversi di continuo, come di chi attenda altrui con impazienza, e udivansi ancor tronche parole, imprecazioni, e talor qualche voce, che diceva — Come arriva lo cuciniamo, vogliamo farla finita — Altri sospetti appostamenti notavansi alla porta minore del palazzo, ed all’altra pure che introduce per l’attigua Chiesa. Giungeva in questo il Deputato Pietro Sterbini, e da costoro veniva ricevuto con ogni maniera di applausi, e di evviva fragorose.
Batteva l’un’ora, e mezzo pomeridiana e già talun d’essi si udiva ripetere — Quando arriva questo boia? Questa carogna dovrebbe aver paura — quando sorgono altre voci — Eccolo eccolo — e tutti, con un movimento celere, ed unanime si schierano in due ale dal punto, ove chi venendo in carrozza avrebbe dovuto discendere, tino alla scala. Era il Conte Pellegrino Rossi Ministro dell’Interno, che si recava al Consiglio mal presago del destino, che l’attendeva. Imperocché, disceso egli appena col suo compagno Cav. Pietro Righetti, al silenzio fino allora osservato, succede, e sorge un sibilo, un urlo, che eccheggia fino alla sala de’ Deputati, misto a delle grida furibonde — Ammazzalo, abbasso Rossi, morte a Rossi.
Egli speditamente ed imperturbato s’invia alla scala; ma le due ali d’armati lo dividono dal compagno, e stringendolo in mezzo a loro gli fanno villania, e frattanto, mentre urtato a destra volgeva il capo da quel lato, porgeva a sinistra discoperto il collo ad un pugnale, onde era trafitto di larga, e mortale ferita.
Venuto meno alla forza del colpo gravissimo, e caduto in terra n’era rialzato, e sorretto dal Righetti, e dal servo Giovanni Pinadier, che a stenti, il sangue spicciando a larga vena, lo conducevano sù per le scale, e quindi nelle prossime stanza dell’Emo Card. Gazzoli, ove in brevi istanti esalava lo spirito.
Coloro, visto il mortal colpo si dileguarono, sgombrando l’atrio colle parole — È FATTO, È FATTO: VIA, VIA — nell’atto che altri fattisi presso la porta, e sollevando le mani, come a quietare il movimento, che incominciava fra la calca, andavano ripetendo — ZITTI, QUIETI, NON È NIENTE —.
All’annunzio di tanto delitto, da cui rifuggiva l’animo di ogni uomo, che pervertito non fosse, e del quale niuno avrebbe saputo misurare le conseguenze, attonita più che commossa la Città, atteggiavasi come colpita da pubblico infortunio. Eppure nella Camera de’ Deputati nè in quel giorno, nè mai si formulava un’accusa, non si alzava una voce, non risuonava una parola, che muovesse al richiamo dell’assassinio; e udivasi invece in quella stessa mattina in mezzo al turbamento destatosi alla nuova del truce caso, all’ansia, ond’era la maggior parte compresa, benchè in numero non legale i Deputati, il Presidente ordinare la lettura del processo verbale dell’ultima tornata; ma la sala restò quasi deserta, anche prima che la lettura terminasse. E mentre, fosse terrore, o prudenza, la Camera dissimulava l’eccidio di un Ministro di Stato, che si recava nel suo seno, trucidato sotto i suoi occhi, in un terreno soggetto alla vigilanza del suo Presidente, d’altro lato la Guardia Civica, anche quella, che guerniva la piazza, restava inerte, e passiva al suo posto. E verso sera una turba di sollevati, capitanata da quei stessi Legionari, e da altri primi agitatori traeva alle vie più popolose della città, mandando frenetiche grida di gioia scellerata, benedicendo al pugnale, onde Rossi fu spento, menando in trionfo l’assassino, e giungendo perfino presso la casa della vittima illustre, e maledire alla sua memoria, a schernire le lacrime disperate de’ suoi congiunti, e non faceva sosta, che all’alloggio di un Giuseppe Galletti, giunto in quel giorno stesso da Toscana, con cui ricambiava calde e festevoli dimostrazioni di affetto.
Coll’avanzar della notte cessava quell’orgia per dar luogo al nuovo giorno, apportatore di assai più gravi attentati. Imperocché le torme della Fazione ognor vittoriosa ingrossate di guardie civiche, e di popolani d’ogni specie, mossero al Quirinale con lo Sterbini, col Galletti, e col Mariani, ed altri capi, ed imponevano al Pontefice nuovo Ministero democratico, la guerra contro l’Austria, la convocazione della Costituente italiana, l’adozione del programma Mamiani del 5 giugno. Ne v’ha qui mestieri di tessere la storia di questo politico avvenimento, onde restò commosso l’intiero mondo cattolico. Giovi solo per ciò, che refluisce al giudizio, che ne intrattiene, il sapere come scopo dell’assassinio del Ministro essendo stato quello di abbattere in Lui un grave ostacolo alla rivoluzione, fosse questa pienamente consumata il di veniente sul Quirinale, ed il sapere altresi, come il Pontefice non piegasse, che in qualche parte al solo aspetto dell’ultimo disastro minacciatogli colla diftalta della pubblica Forza, colla uccisione di un suo Prelato, colla invasione della casa di un Eminentissimo Porporato, che campava prodigiosamente la vita colla fuga coll’incendio di una porta maggiore del Palazzo, coi colpi di fucile giunti sin’alla sua anticamera, coll’apparato infine di un cannone e di un numeroso stuolo di armati pronti a far impeto contro la stessa Sua Sacra Persona.
A diligenza del Tribunale Criminale di Roma si assumevano il giorno 15 e 10 novembre gli atti generici sul delitto, l’esame di un domestico, e s’invitava al tempo stesso il Galletti succeduto al Rossi nel Ministero dell’interno, e Polizia a somministrare gli elementi a procedere, che non mai dati, il processo restò deserto, finche restaurato appena il legittimo Governo fu riassunto, quando però erano già evasi i principali Mandanti del delitto, che erano pure fra i Capi del Governo intruso, non che molti dei Mandatari, e quando pel lungo tempo decorso, e por le non coltivate, e impedite indagini, ne riusciva più lunga, e più scabrosa la compilazione. Portato a compimento ha presentato all’attuale Giudizio,
Luigi Grandoni |
essendo morto in carcere Felice Neri, e trovandosi contumaci
Pietro Sterbini |
Luigi Salvati Angelo Bezzi </poem>}} ed altri o mandanti o mandatarii.
Considerando come dall’atto di giudiziale autopsia del cadavere del Conte Pellegrino Rossi si raccolga a chiarissime note la causa unica, e necessaria della morte di lui, essere stata una sola ferita nella regione laterale sinistra del collo, penetrante oltre quattro dita trasverse con recisione completa della carotide, e vena jugulare esterna e con recisione parziale della carotide primitiva, prodotta da istromento perforante ambitagliente.
Considerando in ordine alle cause, che preparavano si grave delitto, come fin dai moti, nati in Roma nel maggio 1848 alla manifestazione della Sovrana volontà sulla guerra di Lombardia, incominciassero quei stessi novatori, che avevano già presa tanta parte nei politici avvenimenti, ad istituirsi in fazione avversante i principi del Governo, contro cui impresero a cospirare segretamente, corrompendo colle arti della seduzione, e col danaro i traviati uomini della plebe, e le milizie; al che con tanto maggiore studio intendevano, quando si udivano i fatti di Napoli del 15 maggio, che frenando la foga dell7 irrompente anarchia, vi ristoravano l’ordine, e la regale Autorità.
Considerando, come risulti indubbiamente dagli atti e pel detto di un rivelante, e per deposto di testimoni, e per prove incontrastabili, che fondatesi in quel torno due società, l’una delle quali conveniva ora in qualche osteria presso la Piazza del Popolo, ora nel fienile di Angelo Brunetti, ora in casa di questo; e l’altra nel rione Monti presso la bottega dei fratelli Facciotti, e al Colosseo, e in campo Vaccino, e nel Rione Regola; queste, che si componevano dei più tristi e perduti del popolo seguendo gli impulsi, che imprimevano al movimento i Capi Agitatori, il Giornalismo, ed il Circolo Popolare, che era come a centro dell’azione, altro scopo non avevano che di abbattere la potestà temporale del Pontefice collo stolto pretesto della guerra, e della unione d’Italia, meditando a tal effetto la strage delle prime Autorità, la rapina, il saccheggio.
Considerando, come dopo essere surti, e caduti con varie fasi in mezzo a questa politica commozione più Ministeri, dopo le vittorie delle armi Austriache a Vicenza, a Curtatone ed a Milano, dopo gli avvenimenti di Napoli, compressa così in gran parte l’idra rivoluzionaria in Italia, l’Augusto Gerarca sperando i Novatori se non più assennati, almen più docili all’impero delle circostanze, volgesse l’animo, e la mente ad istituire un Ministero moderato, e forte, che pari all’altezza delle esigenze de’ tempi, intendesse al rassodamento dell’ordine, e delle pubbliche cose. Ed all’uopo ricorrendo al senno del Conte Pellegrino Rossi, in cui la fama e per sapienza di pubblica amministrazione, e per fermezza di carattere additava l’uomo, che la circostanza richiedeva, lo nominava Ministro dell’Interno, e Polizia. Assunto il Rossi al Ministero alla metà del settembre si affrettava a pubblicare il suo programma, il cui principale concetto era quello di serbare intatta la Monarchia Pontificia, che chiamava sola, e viva grandezza d’Italia.
Considerando, che se l’intendimento, ed i voti del Ministro venivano bene accolti dagli uomini onesti, non lo erano altrimenti da una Fazione, che infingendosi devota ad una causa, che dicevasi italiana, o sotto il velo, e le attrattive di una poesia di principi impossibili ad attuarsi, celava lo sfogo di private cupidità coll’attentare al Supremo potere, ed alla pubblica, e privata sostanza; onde i Club, la Stampa, il Circolo Popolare e primo fra tutti lo Sterbini si dettero ad attaccare violentemente nei pubblici e privati Circoli i principi del Rossi, la sua politica, la sua vita, la sua persona. E frattanto un altro Club organizza vasi, che periodicamente nelle ore della sera congregavasi nel Teatro Capranica, composto della parte peggiore del battaglione dei volontari, che toccata la sconfitta di Vicenza, aveva non a guari fatto ritorno in Roma, e di qua sotto gli ordini di Bartolomeo Galletti era partito a guarnire le Romagne, lasciando costoro, che rotto ogni vincolo di disciplina, sordi, e contumaci agli ordini del Governo di deporre la tunica, e di entrar nelle file de’ battaglioni Civici, tentavano di organizzarsi in Corpo separato, e speciale. La qual brama più forte ancora scuoteva l’animo del tenente Luigi Grandoni che, tratto da ambiziose voglie, e da spirito insieme di emulare il Galletti, anelava grado ed onori da Colonnello, nè per altra via egli il poteva, che col blandire i più torbidi, e più ribaldi di coloro, che erano insieme i più operosi, materia perciò più adatta a strappare dal Governo una malconsigliata concessione. E questo Club presieduto dal Grandoni, composto di gente più spinta, ed ardita, visitato non di rado dallo Sterbini, dal Direttore del Don Pirlone, da altri parlatori del Circolo Popolare, visitato dai faziosi della Congrega Facciotti, divideva gli stessi pensieri, partecipava alla stessa unità di azione.
Considerando che nel nuovo Ministero, e nel Rossi precipuamente che lo informava dei principi già proclamati, scorgendo le società summentovate, ed il circolo, non solo un gravissimo ostacolo allo sviluppo de’ loro disegni, ma minacciata altresì la esistenza delle loro stesse associazioni, impresero a cospirare per prima cosa contro il Rossi, onde spianarsi la via alla rivoluzione, e si dettero quindi a farlo cadere dalla pubblica estimazione col discredito, e colla diffamazione, spargendo colla stampa, e nel popolo delle voci, che gli addebitavano ogni enormezza. Ma quando lo videro fermo e tenace nel suo proposito, quando meglio conoscendo la sua forza di carattere, videro tornar vano questo mezzo; quando fatti accorti, che le loro proclamazioni erano per divenire una merce senza credito presso la maggioranza della Camera; e che per la riputazione che il Rossi godeva era impresa ben ardua il conquiderlo nei Consigli, si volsero ad insidiargli la vita, risultando per detto non solo di un rivelante, ma di più per prova testimoniale, che a questo tendessero le macchinazioni di tutte e tre le società, per cui avvedutisi i capi cospiratori dell’identità in esse dello scopo, e dei mezzi, pensarono di fonderle in una sola, sotto la direzione dello Sterbini e del Brunetti, onde agissero così di concerto con un centro di esecuzione.
Considerando, che mentre nelle maniere sopradiscorse cospiravasi in Roma contro la vita del Rossi, ed al rovescio del Pontificio Governo, giungevano allo stesso Ministro notizie, che nel Congresso tenuto a Torino il 10 ottobre, in cui interveniva eziandio lo Sterbini, si fosse stabilito di allontanarlo ad ogni modo dal Ministero, che troppo, ed essenzialmente avversava il progetto federativo da loro pubblicato di poi il 27 dello stesso mese; e che in altro congresso tenutosi successivamente in Toscana dal Ministero, figlio dei moti di Livorno, a cui prendeva parte lo Sterbini, e vuoisi ancora Giuseppe Galletti, si fosse deciso altrettanto. In conseguenza di che udivasi ripetere dal Montanelli essere la politica del Pontefice funesta all’Italia, ed egli stesso venuto in Roma in quel tempo le prediceva grandi ed imminenti avvenimenti; e lo Sterbini infine tornato dai congressi sollevava più furiosamente la voce alle associazioni, scuoteva e preparava alla tremenda catastrofe i già disposti animi delle turbe, e nel Contemporaneo fra le calunnie, che gittava contro il Ministro, fra la diffidenza, che spargeva anche su i Deputati, della fede de’ quali mostrava di dubitare, minacciava al Rossi la caduta fra gli scherni, e le risa del popolo, facendolo segno all’odio pubblico, alla pubblica vendetta.
Considerando che se da un canto le ingiurie, e le minacce della fazione venivano dal Rossi ricevute con lo spregio, è bensì vero dall’altro che si preparava a combatterle con quei mezzi che erano in suo potere. Imperocchè mentre di coloro altri ammoniva, mostrandosi informato delle loro mene, altri sorvegliava, mentre dava ordini, ed istruzioni alle guardie di Polizia, alla Civica, ai Carabinieri; mentre chiamava alla Capitale un vistoso rinforzo di quest’Arma, allontanava al tempo stesso dalla Polizia un assessore Accursi, la di cui aderenza al partito rivoluzionario gli era ben nota, nominava il Galletti presidente del Tribunale di appello in Macerata e tentava in fine d’intimidire i cospiratori coll’arresto dei due Napoletani Carbonelli e Bomba, agitatori anche essi della associazione Facciotti. Le quali disposizioni, se in altri tempi avrebbero raggiunto l’effetto, non riuscirono nel caso, che a render più certo, perchè più necessario, l’assassinio. Ed invero, se per le discorse cose è dimostrato che scopo di costoro era la rivoluzione; se ostacolo a compierla era il Rossi che minava si da vicino la loro politica esistenza; se il Rossi non poteva essere abbattuto nè coll’intimidazione, nè col discredito, se non era sperabile la sua caduta nei Consigli, ove la sua riputazione e i suoi talenti politici erano per guadagnarsi una assoluta maggioranza, come già dubitava l’avverso partito, si rende manifesto, che se era per essi una politica necessità l’allontanamento del Rossi dal Ministero, quale si dichiarava dai congressi di Torino, e di Toscana, e quale indubbiamente si riconosceva dalle associazioni romane, fosse necessaria del pari la di lui morte prima che fosse giunto a procurarsi il favore della Camera de’ Deputati. Ma se poi si aggiunga il timore incusso dall’esempio dei seguiti arresti, dall’apparato straordinario della forza, e dalla fermezza del suo animo, il colpo rendevasi necessario anche dal lato della loro personale sicurezza.
E questo colpo forte, ardito, inaspettato in persona di un primo Ministro, in pieno giorno, innanzi agli occhi de’ Deputati, mentre si recava in Consiglio, oltre al vantaggio, che loro imprometteva di sconcertare il governo, togliendogli la mente che lo informava, di intimidire le Camere, di spargere il terrore nella Civica, e nella pubblica forza, muoveva altresi circa il modo di esecuzione la stolta vanità de’ congiurati.
Considerando, che se l’assassinio si ebbe riconosciuto necessario dai cospiratori, non fu meno concertato, e preparato da essi. Se i risultati dei congressi di Torino, e Toscana accennavano alla caduta del Rossi, se il Montanelli in Roma la prevedeva, se al riritorno dello Sterbini maggiore fu l’impeto, fu l’ardore de’ faziosi, più pronunciato, più deciso il loro proposito; d’altro lato i giornali romani, il Contemporaneo, e Epoca, la Pallade, ed il beffardo Don Pirlone, quale minacciava, quale prediceva la fine del Ministro nel prossimo giorno della riapertura dei Consigli, e quest’ultimo la mattina stessa del 15 prima del ferale avvenimento presentava una caricatura del Rossi, in cui si accennava perfino alla parte del corpo, ove avrebbe egli ricevuto il colpo. L’assicurava il Bezzi fin dal giorno 14, l’assicuravano i Facciotti, il Colonnello, i legionari, ed altri partigiani; più e replicati avvisi riceveva il Ministro del pericolo, che correva anche pochi istanti prima del suo fine; e lo stesso indirizzo, che veniva distribuito ai Carabinieri qualche ora dopo il delitto, era stato preventivamente disteso, e stampato; alcun altro deponente infine che ebbe accesso nello stesso giorno 14 nel Circolo Popolare, e nel notissimo Caffè delle belle arti, asseriva che parlavasi in que’ luoghi dell’assassinio come di cosa già eseguita, e consumata. Quindi un sessanta legionarii tutti in tunica insieme al Grandoni in militare divisa, non richiesti, nè chiamati da veruna autorità occupano l’atrio del palazzo; i loro ceffi, i loro parlari, i loro simultanei movimenti, le grida, il loro circondar la vittima, l’essere da un di loro vibrato il colpo fatale, il loro comune disparire dopo la esecuzione tutto rivela la esistenza, e l’azione di un tenebroso, ma vasto concerto, ordito con arti, e mente di congiurati.
Considerando come non meno eloquenti siano le cose, ed i fatti che seguirono d’appresso l’enorme delitto, per ritenere il preordinamento, e le fila di un preventivo condetto. Il Galletti, che dicevasi intervenuto al congresso di Torino, scriveva qualche giorno innanzi al 15 novembre da Bologna con istudiate parole non potersi per mancanza di mezzi porre in viaggio, nè per la capitale, onde esser presente al Consiglio il giorno che si riapriva, nè per Macerata, ove era stato destinato in qualità di Presidente del Tribunale di Appello, per cui pregava il Ministero a volerlo in eguale qualifica nominare in Bologna sua patria. Ma il giorno 15 ero invece inaspettatamente già in Roma per ricevere nella sera le ovazioni dei sicari del Rossi, e per assidersi nel dì appresso sul sanguinoso suo seggio. Ed il Montanelli il giorno 16 già annunziava in Firenze gli ultimi avvenimenti di Roma consumati non prima delle ore due pomeridiane del dì precedente. Quindi le ovazioni, i tripudi, e in Roma, e in Livorno, l’inerzia della Civica, i plausi del giornalismo democratico, gli avvenimenti del 16 consumati, e diretti dagli stessi congiurati del 15; il processo infine sull’omicidio abbandonato, e deserto dal Ministero, che succedeva non senza avere il Galletti tradita la missione dei Deputati di Bologna, dai quali aveva ricevuto ed accettato l’incarico di procurarne alla Camera la pronta spedizione.
Considerando come siffatte risultanze vadano ad ottenere anche un maggiore, e più luminoso sviluppo, da quelle che percuotono più da vicino i singoli imputati, colle quali sono essenzialmente connesse.
E tenendo per primo proposito del Grandoni già si notava, come egli si facesse capo del circolo de* Legionari, che congrega vasi nel teatro Capranica, e come questo circolo cospirasse con gli altri ed alla rivoluzione, ed alla uccisione del Bossi; si notava con quai mezzi, e per quali vie procurasse di aprirsi egli la strada alle ambiziose sue mire, che avversavano direttamente le disposizioni del Governo, le quali imponevano ai suoi legionari, ed a lui stesso di tornare nei battaglioni Civici, deponendo la tunica.
Ora egli chiamato a dar conto di questi fatti impugnava non solo l’aver cospirato contro il Ministro, non solo negava l’intervento suo nella riunione dello Sterbini, del Brunetti, del Bezzi, e di altri capi agitatori, ma giungeva perfino ad occultare i suoi conati per la formazione in corpo separato dei legionari, volendo invece far credere, che egli disconvenisse del tutto da questo intendimento, e ciò forse nella vista di non ammettere il primo impulso che egli ebbe ad associarsi alla cospirazione, e ad entrare nelle macchinazioni della fazione.
Ma risultanze ineccezionevoli provano le pratiche, e i disegni della sua ambizione, più testimoni, ed un rivelante stabiliscono la parte da lui presa, come capo di quell’associazione alle trattative per la rivolta, ai discorsi ostili al Bossi, gli accessi dello Sterbini, e degli altri, mentre il rivelante, ed un testimonio sostengono, che egli più esplicitamente cospirasse contro la vita del Ministro. Che se pure tutto ciò unitamente alle sue impudenti menzogne non bastasse a convincerne v’ha la risultanza in altri modi stabilita della sua aderenza allo Sterbini, ed agli altri, v’ha che col giorno dell’assassinio terminava ogni congrega di quel Club, v’ha infine che il Grandoni dopo aver alcun tempo scritto il risultato delle sessioni, cessava quindi dal tarlo, quando appunto l’argomento delle medesime non era se non delittuoso.
Considerando, come dai detti del rivelante si raccolga in ordine alla storia dei fatti prossimi, e precedenti al delitto, che nel prepararsi gli animi all’assassinio dallo Sterbini già di ritorno dai congressi di Torino, e Toscana, e dal Brunetti nelle notturne loro congreghe nei Fienili di quest’ultimo, specialmente la sera del 13 novembre presenti Bezzi, Facciotti, Colonnello, Salvati, Conti, ed altri capi e satelliti apertamente dallo Sterbini stesso, e dal Guerrini si dichiarasse decretata la morte del Rossi per il giorno 15 alla riapertura del Consiglio, e doversi eseguire prima che fosse giunto a parlare, poichè sarebbe stato di estremo pericolo il permettergli la parola; gli esecutori essere una parte de’ Reduci di Vicenza, diretta dal Grandoni, che sarebbero comparsi vestiti della vecchia loro tunica; gli stessi Reduci, gente di armi avrebbero incominciata la lotta coi Carabinieri, se il Rossi avesse fatto da questi guernire il Palazzo, e la strada della Cancelleria; nel caso di resistenza della Forza dover essi accorrere armati nelle diverse piazze di Roma, ove avrebbero trovato i loro capi per insorgere, giacchè in quel giorno dovevasi fare la rivoluzione, ed il Rossi uccidersi in qualunque luogo si fosse trovato. Furono quindi in quella sera dispensate a tutti gli intervenuti, che erano pur molti, una, o due pistole per ciascuno. Depone altresì il rivelante, come in questa adunanza prima che s’incominciasse a parlare, accedesse ivi il Grandoni associato ad altro individuo, il quale come aveva fatto altre volte, trasse fuori a parlare lo Sterbini, ed il Guerrini, e forse anche il Brunetti, e terminato il colloquio questi rientrassero, senza che quegli si facesse più vedere. E circa la sera del 14 narrava, che a notte inoltrata, sortito dal circolo lo Sterbini, col Grandoni, Brunetti, Bezzi, Facciotti, ed altri non pochi legionari s’inviassero tutti verso la casa di abitazione dello Sterbini stesso, ma prima di giungervi, venisse da lui licenziata una parte di coloro, che nel lasciarlo tornava ad animare con incoraggianti parole, restando così egli col Grandoni, Brunetti, Bezzi, fratelli Costantini, ed altri parecchi legionari. Veniva poi a conoscere nel giorno veniente, che di qua lo Sterbini con tutto il seguito si recasse al teatro Capranica, luogo delle riunioni dei Legionari, ed ivi presiedendo costui, il Grandoni, il Brunetti, il Guerrini fossero prescelti sei, od otto, i quali dovevano colpire il Rossi, come meglio a ciascuno fosse caduto sotto il pugnale, nel passare, che avrebbe fatto, venendo al Consiglio, per l’atrio del palazzo, rimanendo stabilito, che il colpo doveva darglisi al collo, per timore, che nella vita potesse indossare una qualche maglia di ferro.
Considerando come a sostegno, ed in verificazione di tale rivelo sorga primieramente il detto di non pochi inquisiti in causa, e di molti testimoni, che depongono di circostanze corrispondenti, e prossime ai narrati fatti; quindi le manifestazioni del coinquisito Innocenzo Zeppacori, il quale nel narrare le confidenze fatte con esso lui dai due fratelli Costantini coimputati, e dal contumace Alessandro Todini, deduceva avergli questi tutti e tre confessato di essersi trovati fra i congiurati dell’omicidio Rossi, formando con gli altri Legionari, fra quali il Trentanove, e Luigi Brunetti, il circolo intorno al Rossi. Gli dissero pure, che nella sera del 14 eransi riuniti tutti e tre insieme al Grandoni, al Todini, al Neri, al Brunetti, al Ranucci, ed altri nel Circolo popolare, ove avuto accesso nel Circolo segreto, si era ivi stabilito, che per opera loro il giorno appresso, sarebbe restato ucciso il Conte Rossi; quali confessioni Sante Costantini ripetevagli anche in altre circostanze.
Considerando come resti avvalorato il tema di tali rivelazioni da un grave riflesso, che vero, è costatato com’è in atti, che ai Legionari del Club Capranica fosse affidata dai Cospiratori la esecuzione del misfatto, la prima cura di costoro dovesse rivolgersi, a guadagnarsi il consentimento, e la cooperazione del loro Capo, che esercitava su di essi una diretta influenza, e col quale avevano coloro frequenti congressi, e colloqui, onde averlo fautore in cosa di tanta importanza, che forse lui avverso, avrebbe potuto venir meno nella finale esecuzione; ciò che non doveva certamente sfuggire a gente scaltrita, che ebbe per tutto l’agio di prepararsi al delitto.
Considerando come circa i suoi ripetuti accessi al fienile del Brunetti, e molto più quello della sera del 13, come pure sulle riunioni della susseguente sera 14 al circolo, indi al Teatro Capranica non sapesse il Grandoni non solo porgere alcun mezzo di esonerazione; ma dippiù rifiutando di render conto delle ore di quelle sere, dichiarò di non voler nominare le persone che ebbe in sua compagnia, come di non rammentare se vi fosse riunione al Teatro Capranica in detta sera 14; contegno che non può non ingerire a suo carico i maggiori sospetti.
Considerando, che essendo incontroverso per deposizioni testimoniali, e risultanze indubitate, che i Legionari, che comparvero la mattina del 15 Novembre al palazzo della Cancelleria, malgrado che non fossero chiamati a rendere verun militare servizio si vedessero tutti vestiti della tunica così detta di Vicenza, che per essere di un leggero tessuto, mal si addiceva a quella stagione, e pel divieto della Superiorità militare, ben di rado, e da pochi veniva usata; si rende manifesto, e per le deduzioni del rivelante, e per legittima conseguenza del fatto, che una tal veste avendo qualche cosa di comune col delitto da essi consumato, fosse assunta sia allo scopo di imporre alla popolazione nel caso di un fatto d’arme, sia per segno di riconoscimento, sia infine per poter nella uniformità delle vesti meglio confondere il braccio del sicario. Ora è un fatto costatato non solo dal rivelante, ma altresì dal Coinquisito Felice Neri, e da un altro testimone Legionario, che l’assunzione della tunica in quel giorno venisse preventivamente ordinata o in voce, o in iscritto dal loro Capo Grandoni. H quale argomento per se stesso assai grave, acquistava anche maggior valore dal contegno giudiziale di lui, che non solo negava l’ordine dato, ma avendo ammessa la sua presenza nell’atrio della Cancelleria, giungeva ad impugnare perfino di aver veduto verun legionario vestito di tunica, e ciò nello scopo di non essere chiamato a render conto del motivo come di quell’insolito, e straordinario vestimento, così del suo tollerarlo, ed assentirlo, non senza aggiungere uno di detti deponenti, che egli il Grandoni, quando alcuno de’ suoi si presentava in quella mattina con altre indumenta, lo rimandandava perchè indossasse il vecchio abito di Vicenza.
Considerando, come di non lieve peso sia pure il detto dello stesso Legionario Neri, il quale deduceva nelle sue manifestazioni aver il Grandoni tanto a lui, che agli altri legionari ordinato, che qualora nella esecuzione dell’omicidio avessero i Carabinieri resistito, essi tutti dovevano riunirsi armati a piazza di Spagna, ove avrebbero ricevuto gli ordini ulteriori. Il qual detto, che resta sussidiato dal deposto giurato di un testimone, cui nella stessa mattina del 15 il Neri riferiva la istruzione ricevuta, va pure ad incontrarsi con quello del rivelante, circa gli ordini dati dai Capi del complotto la sera del 13 nel prevedibile caso di resistenza della Forza politica.
Considerando, che nel concorso di si gravi antecedenti determinavasi la convinzione del Tribunale sulla colpabilità del Grandoni dalla sua presenza sul luogo, e nel momento del patrato assassinio. Imperocchè resta provato col detto concorde di più testimoni di fatto proprio, come il Grandoni stando colà venisse salutato da ciascuno de’ suoi militi, che sopraggiungeva; che quindi si affacendava a discorrere riservatamente or coll’uno, or coll’altro di essi, ed in special modo con quelli destinati alla patrazione del misfatto, in atto di dar loro ordini, e disposizioni, e quando il delitto compivasi, egli si trovava sui primi gradini della scala di fronte al Ministro, che discendeva dalla carrozza, ove doveva per certo vedersi tutto il tragico avvenimento, e se ne poteva altresì colla presenza assistere, ed animare la esecuzione. Qual fosse l’argomento di quei parlari, a che accennassero quegli ordini, quelle disposizioni si fa palese dal soggetto, che in quel momento ingombrava la mente de’ Legionari, che era cagione della grave, e tetra preoccupazione dell’anima, che si leggeva loro sul viso.
E se questo apparato di preoccupazione, lo straordinario loro movimento, il loro aspetto minaccioso rendevano sospetti, ed accorti di qualche grave macchinazione, quanti ebbero ad osservarli; se le parole stesse, che udivansi dai loro labbri chiaramente additavano a chi era loro dappresso la idea malvagia del meditato delitto, come poteva questa rimaner celata al Grandoni, che divideva con essi il movimento, e le parole? o piuttosto come non doveva egli essere a parte delle stesse macchinazioni? Ed ove pure non calcolando a suo carico tutto il peso degli antecedenti si volesse considerare in lui la ipotesi di un condetto non ad uccidere, ma ad una sola dimostrazione contraria al Ministro, sembrò impossibile al Tribunale il conciliar questo tema colla gravità dell’attitudine minacciosa, col concertato vestimento delle tuniche, con le esplicite manifestazioni del delitto.
Considerando inoltre, come i susseguenti fatti del Grandoni non siano meno eloquenti a suo carico degli altri già discorsi. Egli al dire del rilevante si associava la sera ai tripudi dell’orda debaccante, egli stesso confessa, e più testimoni provano, che nel di successivo, si recasse co’ suoi uomini sul Quirinale, ove si consumava la ribellione; e pochi di dopo dal nuovo Ministero democratico i suoi militi erano organizzati in corpo speciale, ed egli, colla rinuncia di altro candidato già Colonnello nelle Legioni, ne otteneva il Comando, ed il grado lungamente desiderato.
Questa concessione, o fosse prezzo dell’opera prestata, o fosse condiscendenza della democrazia, in qualunque delle due due ipotesi è sempre vero che il Grandoni, che era stato spettatore dell’enormità dei suoi militi, non avrebbe potuto mai dissimularlo a se stesso, ed a tutti, e ove non ne fosse stato partecipe, come accettare egli il comando dei Sicari a lui chiariti, ancor bagnati del sangue di un Ministro di Stato, e bruttati di altre inespiate nefandezze; egli che più tardi, sotto il dominio dell’intruso governo Repubblicano per semplice scorno di punizioni disciplinari rinunciava lo stesso grado ed onori di colonnello? E nell’intendimento appunto di non rendere conto di questo fatto il Grandoni impugnava non solo di conoscere, che fra i suoi Legionari fossevi l’uccisore del Rossi, non solo facevasi ignaro, di qualunque loro sospetto movimento, ma giungeva perfino a mostrarsi inconsapevole dello stato politico di Roma, inconsapevole eziandio se a Rossi alcun Circolo, e Giornale si pronunciasse ostile.
Considerando, che per esimersi il Grandoni da tanta responsabilità nel delitto, tentava con scritti spediti clandestinamente dal carcere di far praticare premure a più persone per indurle a testimoniare a suo vantaggio.
Considerando che se il Grandoni, e la sua associazione cospirava per una rivoluzione, se onde riuscirvi congiurava con altri alla morte del Conte Rossi, se egli conveniva coi Capi del partito, se interveniva ai Congressi ultimi, per trattare sul modo di esecuzione; se presiedeva alla turba degli esecutori, è chiaro, che ebbe nel Condetto una parte principale nel mandarlo ad effetto, ed avendo dato anche alla consumazione materiale del delitto un’opera primaria, e diretta, deve riguardarsi come uno dei rei principali.
Considerando in ordine a Sante Costantini, come appartenesse alla parte più esaltata del popolo, venendo descritto da chiunque lo conosceva per uno di quei fanatici, ed esagerati, che spingevano il Governo, e gli avvenimenti a politiche esorbitanze. Dopo essersi infatti recato nel Veneto, ascritto al Battaglione de’ volontarii, e dopo averne fatto vitorao, fu uno di coloro, che lasciato il Galletti, seguì invece le parti del Grandoni in Roma, ove appartenne a quel Corpo, che dopo i rovesci del 15 e 16 Novembre venne dal Grandoni organizzato.
Considerando, come si abbia per prova testimoniale, che il Costantini fin dal suo ritorno di Vicenza, si facesse a seguire il noto Angelo Brunetti, e lo Sterbini, si associasse alla parte più perduta de’ Legionari, fra quali Luigi Brunetti, Antonio Ranucci, Felice Neri, intervenisse nelle Congreghe sovversive e preparatorie al delitto sia del Club Capranica, che del Brunetti.
Considerando esser dal rivelante dedotto, che il Costantini intervenne tanto al Condetto della sera del 13 nel Fienile Brunetti, quanto all’ultimo, che ebbe luogo la sera del 14 prima al Circolo popolare, e quindi al Teatro Capranica, e che egli fosse uno dei destinati con Luigi Brunetti, Trentanove, Ranucci, Neri, ed alcun altro a pugnalare il Rossi nella seguente mattina, il quale rivelo viene sostenuto, e accreditato in questa parte dalle manifestazioni del coinquisito Zeppacori, che riferiva avergli lo stesso Sante Costantini confidato di essere intervenuto all’aecennato concerto, e di essere stato uno degli eletti a consumare l’assassinio.
Considerando, come egli in effettuazione del Condetto fosse veduto la mattina successiva al palazzo della Cancelleria, e nel tempo del delitto vestito della concertata divisa della tunica fra gli altri Legionari, ciò che viene stabilito dal detto del rivelante, e dal deposto di un testimone. La quale risultanza, di che egli sentiva tutto il peso, restava in peculiar maniera avvalorata dalla coartata di luogo, e tempo, che egli introduceva nel processo scritto, tentando all’uopo anche di subornare testimoni, che gli veniva però ampiamente esclusa, e smentita. Ma quando nella formale discussione della causa udiva nuovamente contestarsi siffatte cose, mutato linguaggio, ammetteva, vestito però di propri abiti, per due volte l’accesso alla Cancelleria in quella mattina, nella seconda delle quali si faceva spettatore della uccisione del Rossi per colpo scagliatogli da Luigi Brunetti, ed in verificazione delle sue assertive molto più del vestiario da lui indossato, nello spazio che corse fra i due accessi, avendo introdotto di essersi recato in altro luogo, rimase anche in ciò smentito da prove di fatto.
Considerando come dalla maggioranza delle varie deposizioni de’ testimoni, che viddero vibrare il colpo fatale al Rossi, si raccolga, che il Sicario oltre all’essere legionario fosse per varj connotati simile alla persona del Costantini.
Considerando, che intervenuto il Costantini nelle ovazioni della sera del 15 Novembre fu veduto venir sollevato dai correi Legionari, come in trionfo colle grida «viva bruto terzo» mentre poi nel giorno 16 concorreva anche egli armato al Quirinale a prendere parte coi Brunetti, e con gli altri Legionarii agli atti di violenza, e di ribellione.
Considerando come in coincidenza di tanti, e sì gravi risultamenti si abbiano in processo i detti e del Zeppacori, e di altri non pochi testimoni, ai quali il Costantini confessava in più, e varie circostanze la propria correità nel delitto, mostrando perfino un pugnale corrispondente appunto alla descrizione della ferita, col quale diceva essersi consumato l’assassinio. E mentre egli da un lato non si ristava da tali confessioni, la pubblica voce dall’altro riferita da un coro di testimoni lo indicava appunto per uno de’ Sicari del Conte Rossi, per cui veniva soprachiamato «taglia carote» facendosi con ciò allusione alla carotide recisa all’infelice dal ferro omicida.
Considerando che un argomento anche più certo, e positivo di sua colpabilità risulta dal contegno come di lui, così dello Sterbini, e del Brunetti, allorchè poco appresso al delitto, trovavasi alle lavorazioni di Tor di Quinto nelle vicinanze di Roma; nelle quali tanto lo Sterbini Ministro de’ lavori pubblici, quanto il Brunetti suo collaboratore impiegavano il Costantini, ed il Ranucci in qualità di assistenti, e questi coll’esagerare l’opera de’ giornalieri, e coll’accusarne un numero sempre maggiore del vero, appropriandosi tanto denaro fino alla somma di scudi sette per giorno, destarono i rimarchi di altri invigilatori, che non desistevano dall’ammonirli, e dal farne rapporto allo Sterbini; ma essi all’incontro minacciando costoro nella vita, dichiaravano aver con loro la macchinetta del rossi alludendo al ferro che l’uccise, e millantavano non poter lo Sterbini far loro opposizione pei vincoli troppo forti, che insieme li univano, per avere appunto insieme salvata la patria, liberandola dalla tirannia del Rossi. Ed avveniva infatti che lo Sterbini non solo non oppone vasi al furto, ma pochi dì appresso invece rimosse l’indiscreto, che promuoveva il rilievo. Le quali cose tutte restando provate con deposizioni di molti testimoni, rivelano apertamente quanto di delittuoso intercedesse fra l’uno e gli altri in piena armonia di tutte le altre processuali risultanze, e danno un saggio altresì dello scopo finale, cui tendeva la fazione.
Considerando come il Costantini in prezzo dell’opera da lui resa, oltre le accordategli rubberie di Tor di Quinto, venisse quindi promosso al grado di ufficiale nella Legione Masi, e poco dopo il Brunetti, ed il Guerrini lo assunsero a compagno nel recarsi in Toscana a promuovere colà la unificazione con Roma.
Considerando, che il Costantini nella coscienza del commesso delitto, caduta appena la Repubblica, fuggiva da Roma coi Brunetti, e col Garibaldi; ma mentre di poi col Neri tentava in Ancona l’imbarco per l’Estero, veniva ivi arrestato insieme al compagno.
Considerando come egli ad allontanare da sè le conseguenze penali del misfatto durante la formale discussione della causa, facesse dimanda d’impunità, che non essendogli stata accordata, variava quindi contegno ammettendo talune circostanze, ed accusando quai principali Mandanti dell’assassinio lo Sterbini, il Guerrini, il Salvati.
Considerando, che tutte le discorse risultanze, mentre inducono una compiuta morale convinzione sulla colpabilità del Costantini, lo chiariscono altresì nelle maniere più manifeste, come uno dei principali correi dell’Omicidio.
Cosiderando sul conto di Ruggero Colonnello esser egli ben noto qual abituale Cospiratore fin dalla sua prima giovinezza, contro il Governo di Napoli, e di Roma, per cui subiva condanne anche della galera perpetua, come nel 1844 per cospirazione insieme a Giuseppe Galletti ed altri. E conseguita la libertà in forza della Amnistia del Luglio 1846 coll’esilio però dallo Stato Pontifício, recavasi prima in Firenze, ed al cominciar poscia del 1848, tornando in Roma, associavasi a principali faziosi, fece vasi assiduo compagno del Galletti, il quale non dubitava di chiamarlo suo amico, e di additarlo qual uomo onesto, malgrado che rotto ad ogni maniera di delitti sia stato condannato da Tribunali Ordinari a gravi pene, anche per furti qualificati.
Considerando, che esuberanti prove addimostrano, come la dimora del Colonnello in Roma fosse una missione assidua nell’intelligenza del Galletti, dell’Accursi, del Brunetti ed altri capi agitatori per promuovere le associazioni della plebe dei diversi Rioni, e specialmente del Rione Regola, demoralizzarla, e corromperla nel senso della demagogia; nel quale assunto mostrava tanta operosità, da attirarsi perfino i motteggi d’un Bezzi sul battesimo Settario, che dava ai ladri della Città, coi quali usava di continuo assai famigliarmente.
Considerando essere pur provati i suoi continui contatti con Angelo Brunetti, Bernardino Facciotti, Girolamo Conti, Vincenzo Carbonelli, Gennaro Bomba, ed altri napoletani emigrati per fellonia, dopo i fatti del 15 maggio 1848; essere pure stabilito, che presiedesse alle congreghe con Bernardino Facciotti, e nella bottega di questo, ed a Campovaccino studiandosi di eccitar nella plebe l’odio contro il ministro Rossi; essere infine constatato dal rivelo di un correo, e da molte deposizioni testimoniali, che all’approssimarsi del 15 novembre si adoperasse per fondere le diverse società, sotto la direzione dello Sterbini, e del Brunetti, e che intervenisse alle congreghe preparatorie al delitto del 13 e 14 novembre.
Considerando, come presso tutto ciò non possa dubitarsi, che il Colonnello, come capo di faziosa moltitudine, e in dipendenza dei primi cospiratori prestasse ogni appoggio ai propositi dell’assassinio, alla sua esecuzione, ed alla consecutiva ribellione, giacchè il rivelante, ed i testimoni assicurano esser egli comparso prima del delitto sulla piazza della Cancelleria, aver quindi convocato turba di vaccinari già da lui predisposta, e pronta a dar mano agli avvenimenti; essersi di poi nella sera recato al Circolo popolare, ed aver preso parte alle ovazioni; essersi infine condotto, come egli stesso non impugna, nel giorno 16 a capo di molta plebe ad aggredire il Quirinale, giungendo perfino ad introdursi audacemente nel palazzo Apostolico con Federico Torre, ed altri per minacciare l’ultima catastrofe, se in brevi momenti non si fossero secondate le dissennate voglie dei congiurati.
Considerando come Bernardino Facciotti per quanto anche è stato precedentemente osservato, prestasse pure favore in dipendenza dei principali mandanti, alla ribellione, ed all’assassinio, mentre resta ad esuberanza stabilito, che caldeggiasse pei sistemi repubblicani, e fosse di massime pervertite, ed immorali; che si adoperasse ad estendere le associazioni, a sedurre la truppa, ed in particolar modo i Dragoni, tenendo congreghe sovversive nella stessa sua bottega; che fosse in intima relazione non solo col Colonnello, col Brunetti, Conti, Salvati, Accursi, ma anche con Aurelio Saliceti, ed altri.
Considerando come resti pur provato negli atti, che l’inquisito intervenisse alle Congreghe preparatorie all’assassinio che ebbero luogo nei giorni 18 e 14 novembre nel Fienile Brunetti, ed al Circolo popolare, e che fin dallo stesso giorno 14 si udisse ripetere senza mistero, che nell’indomani il Rossi non sarebbe arrivato a salire la scala del Palazzo della Cancelleria.
Considerando, che la mattina del 15 novembre si recava l’Inquisito premusosamente alla Cancelleria, prima assai, che avvenisse il delitto; spiava l’animo di qualche pattuglia di Carabinieri in perlustrazione; si dava moto col Conti, perchè quelli della Fazione si trovassero pronti, nel caso che i Carabinieri avessero fatto resistenza, presenziava infine la esecuzione dell’assassinio; circostanze tutte riferite dal rivelante, e da un testimone, ai quali è forza prestar fede, giacchè lo stesso Facciotti ammette il suo accesso alla Cancelleria ed ammette l’associazione col testimone, e col rivelante.
Considerando, che più testimoni depongono, come seguito appena l’assassinio il Facciotti a vedere il sangue ancor fumante dell’estinto Ministro facessegli ingiuria con vituperevoli parole, ed alludendo alla Congiura, terminasse col dire «il rossi voleva rovinar noi; e noi invece abbiamo rovinato lui» non senza manifestar quindi, che la uccisione del Rossi era stata decretata dallo Sterbini, ed anche dal Galletti, dall’Accursi, e da altri.
Considerando che nella sera stessa del 15 novembre prese pur parte l’Inquisito alle ovazioni; accorse con altri a far plauso al Galletti, ciò che non seppe impugnare esso medesimo; mentre poi anche egli il giorno 16 concorreva con feccia di plebe a sostenere la ribellione nel Quirinale.
Considerando, che Filippo Facciotti, e Francesco Costantini in dipendenza dei rispettivi loro fratelli fecero parte delle società sovversive, intervennero ai raduni notturni, ed alle congreghe preparatorie del 13 e 14 novembe, concorsero con gli altri faziosi la mattina del 15 alla Cancelleria per sostenere gli avvenimenti; furono fra quelli, che per le pubbliche vie insultando alla memoria dell’estinto, plaudivano da forsennati all’assassinio; apparvero infine armati fra i ribelli del giorno 16 al Quirinale; fatti, e circostanze, che provate col detto del rivelante, di Coinquisiti, e di più testimoni spiegano a sufficienza la criminosa cooperazione da loro prestata al delitto.
Considerando, che Filippo Facciotti malgrado l’ostinato negativo contegno tenuto nel corso dei suoi interrogatori, ammetteva tuttavia il suo intervento ai raduni notturni nel fienile del Brunetti, ove pur diceva, che fossero distribuite ai congiurati delle pistoiese Francesco Costantini pure ammetteva, che in special modo dai lavoranti di Tor di Quinto dipendenti dal Brunetti veniva indicato insieme al fratello, come uno di quelli, che erano concorsi all’uccisione del Rossi.
Considerando come a carico di Innocenzo Zeppacori si abbiano le stesse prove superiormente accennate, che gravano i Prevenuti Filippo Facciotti, e Francesco Costantini.
Considerando che lo Zeppacori pel favore prestato all’assassinio, ed alla rivoluzione non solo veniva eletto Capopopolo del Rione Nono; ma otteneva pure dai triumviri la liberazione di una sua Amasia, che era stata poco tempo innanzi condannata a pena perpetua per omicidio.
Considerando come lo stesso inquisito abbia ammesso di aver seguito sempre il partito del Brunetti, ed in coincidenza di ciò si ha pure, che in tempo dell’anarchia reiteratamente palesasse alla sua Amasia, che l’assassinio del Rossi fu ordinato dallo Sterbini, dal Brunetti, e da altri, e che ancor esso era intervenuto al Condetto, ed aveva presenziato la esecuzione del delitto.
Considerando, che per tutte le emergenze sopra esposte mentre non può dubitarsi della colpabilità dei suddetti inquisiti Colonnello Fratelli Facciotti, Francesco Costantini, e Zeppacori; è però da ritenersi che l’opera da loro data al delitto comunque efficace, e diretta, non fosse principale, nè da confondersi coll’azione de’ primari colpevoli.
Visto, e considerato tutt’altro da vedersi, e considerarsi.
Visti gli art. 100 § 2 e 13 del Regolamento Penale.
Il Supremo Tribunale ha dichiarato, e dichiara constare in genere di Omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi avvenuto in Roma nel Palazzo della Cancelleria Apostolica il giorno 15 di Novembre 1848 intorno alle ore due pomeridiane per ferita prodotta da istromento incidente, e perforante; ed in specie esserne convinti colpevoli in seguito di mandato dato, ed accettato per ispirito di parte:
Luigi Grandoni e Sante Costantini con pieno dolo; e con minor dolo Ruggero Colonnello, Bernardino Facciotti, Francesco Costantini, Filippo Facciotti ed Innocenzo Zeppacori. In applicazione quindi dell’art. 100 § 2 del Regolamento Penale, ha condannato, e condanna, Luigi Grandoni, e Sante Costantini alla pena di morte; ed in base al succitato art. 100 § 2 combinato coll’art. 13 dello stesso Regolamento Penale, ha condannato e condanna Ruggero Colonnello, e Bernardino Facciotti alla pena della galera perpetua; Francesco Costantini, Filippo Facciotti ed Innocenzo Zeppacori ad anni venti della stessa pena.
Ha inoltre condannato, e condanna tutti i summenzionati colpevoli all’emenda dei danni in favore degli Eredi dell’ucciso, ed alla rifazione delle spese alimentarie, e processuali verso il pubblico erario da liquidarsi li uni, e le altre in separata sede di giudizio, come di ragione; nulla innovando sul rimanente di quanto è stato disposto nella primitiva sentenza.
S. Sagretti, presidente |
R. Castelli Cancelliere.
Luigi Grandoni è morto in carcere li 30 giugno 1854.
Documento N. IX.
Primo giudizio del Conte Camillo Benso di Cavour su Pellegrino Possi, tolto dall’epistolario dell’immortale uomo di stato pubblicato da Luigi Chiala.
Un primo giudizio su Pellegrino Rossi fu emesso dal conte Camillo di Cavour nel Maggio del 1835 in una lettera indirizzata alla Contessa Anastasia di Circourt, allorquando, cioè, Pellegrino Rossi aveva 48 anni e aveva levata alta fama di sè come penalista e come economista e quando il Conte Di Cavour aveva venticinque anni ed era già dimissionario da Ufficiale e si era dato alla agronomia e agli studi economici e sociologici:
«No, signora — scriveva il futuro grande statista alla Contessa di Circourt che lo esortava ad abbandonare l’Italia e a stabilirsi a Parigi — non posso abbandonare la mia famiglia, nè il mio paese. Me lo impediscono dei sacri doveri, che mi legano ad un padre, ad una madre che non mi diedero mai il menomo motivo di lagno. No, signora, non posso trafiggere il cuore dei miei genitori, non sarò mai ingrato verso di loro e non li abbandonerò sino a che la tomba non ci separi. E perchè, signora, abbandonerei il mio paese? Per venire in Francia a cercare una riputazione nelle lettere? Per correr dietro a un pò di rinomanza, a un pò di gloria, senza poter mai raggiungere il fine che la mia ambizione si prefiggerebbe? In che cosa potrei servire l’umanità fuori del mio paese? Quale influenza potrei esercitare in prò dei miei fratelli sfortunati, stranieri e proscritti in un paese ove l’egoismo tiene occupati tutti i principali posti sociali? Che fanno a Parigi i tanti stranieri, spinti dalla sventura o dalla propria volontà lungi dalla loro terra natia? Chi di loro si è reso veramente utile ai suoi simili? Non uno solo. Perfino coloro che sarebbero stati grandi sulla terra che li vide nascere vegetano oscuri nel turbine della vita parigina. I torbidi politici, che hanno desolato l’Italia, hanno costretto i suoi più nobili figli a fuggire da lei. Ciò che il mio paese conteneva di più ragguardevole in ogni genere si è spontaneamente espatriato, la maggior parte di questi nobili esilianti sono venuti a Parigi, ma nessuno ha realizzato le splendide speranze che egli aveva destate.
Quanti personalmente ne ho conosciuti mi hanno rattristato nel fondo del cuore con lo spettaccolo di grandi doti rimaste sterili ed impotenti.
..... «Un italiano solo si è acquistato a Parigi nome e posizione ed è il criminalista Rossi.
Ma quale posizione? l’uomo più di spirito dell’Italia, il genio più versatile dell’epoca, la mente più pratica dell’universo, forse, è riuscito ad ottenere una cattedra alla Sorbonne e un seggio all’Accademia, ultimo fine che la sua ambizione possa raggiungere in Francia.
Quest’uomo che ha rinnegato la sua patria, che mai più potrà essere qualcosa per noi, avrebbe potuto, in un’avvenire più o meno lontano, avere una parte cospicua nei destini del suo paese, ed invece di fare il maestro di scuola di alunni indocili, egli avrebbe potuto aspirare a guidare i suoi compatriotti nelle vie nuove quotidianamente aperte dallo sviluppo, della civiltà. No, no non è fuggendo la patria perchè infelice che si può giungere alla gloria. Sventura a colui che abbandona con disprezzo il paese che lo vide nascere, che rinnega i propri fratelli come indegni di lui! In quanto a me sono risoluto, non separerò mai la mia sorte da quella dei Piemontesi. La mia patria sventurata o felice, avrà tutta la mia vita: non le sarò mai infedele, quand’anche fossi sicuro di trovare altrove brillanti destini».
Dalle Lettere edite ed inedite del Conte Camillo Di Cavour illustrate da Luigi Chiala Deputato al Parlamento, Torino 188387, Vol. I, 13-16.
Documento N. X.
A questo primo giudizio, caldamente encomiastico per l’ingegno altissimo di Pellegrino Rossi, ma severo per riguardo al carattere e alla condotta di lui, il grande statista ne fece seguire un secondo, ventisei anni dopo, nella seduta del 25 Marzo 1861, nel suo primo discorso a proposito della discussione per la proclamazione di Roma a capitale d’Italia, giudizio pieno di lodi e di ammirazione per il Rossi quale Ministro nel 1848.
Lo stralciamo dalla Atti ufficiali del Primo Parlamento italiano:
«Ed invero, o signori, pochi mesi dopo la restaurazione del 1814 noi vediamo, all’apparire negli Stati della Chiesa di un illustre guerriero, facendo appello al principio della nazionalità italiana, noi vediamo insorgere i popoli di quelle contrade; noi vediamo proclamata la incompatibilità del Governo temporale colla civiltà novella da quel grande italiano, che, nel suo lungo esiglio, rese illustre la nostra patria, come grande economista, come abile statista; da quel glande Italiano che, sul finire della sua carriera, per ispirito di abnegazione, volle tentare la impossibile impresa di conciliare il potere temporale col progresso civile e la cui morte fu una delle più grandi sventure che sia toccata all’Italia (Bravo! Benissimo! dalla destra). Intendo parlare di Pellegrino Rossi, che nel 1814 proclamò in Bologna il principio della nazionalità italiana».
Dagli Atti Ufficiali del Parlamento italiano del 1861.
Documento XI
MISERERE
AL MINISTRO ROSSI
Del De Rossi in sulla tomba
Mesto un canto ognor rimbomba:
Miserere Domine.
Ma coll’alme inique e nere
E sprecato il miserere:
Miserere Domine.
Chi più nero e scellerato
Del De Rossi già scannato?
Miserere Domine.
Fu bandiera di ogni vento
Non amò che il tradimento:
Miserere Domine.
Liberal da sera a mane
Si mostrò quest’empio cane:
Miserere Domine.
Servì ben Napoleone
Ma divenne un gran birbone
Miserere Domine.
Rovesciata la bilancia
Ei fuggi d’Italia in Francia
Miserere Domine.
In Elvezia ritirossi
Quest’iniquo infame Rossi
Miserere Domine.
E si ben seppe egli fare
Che da ognun si fece amare
Miserere Domine.
Fondò scuole e si fè amico
Con persone d’ogni intrico
Miserere Domine.
Visse sempre fra l’imbroglio
Con Guizot e il Duca di Broglio
Miserere Domine.
Egli scrisse dei Trattati
Ma il più ner (?!) fu fra i scienziati (sic)
Miserere Domine.
Da Lucerna discacciato
Si fu in Francia ritornato (sic):
Miserere Domine.
E qui poi non si sa come
D’Italiano abiurò il nome:
Miserere Domine.
H De Rossi Pellegrino
Fu francese cittadino:
Miserere Domine.
Lui, quest’uom di iniquo cuore:
Diventò Ufficiai d’Onore
Miserere Domine.
Della Francia è diventato
Pari ancor sto scellerato (sic):
Miserere Domine.
Giunto a Roma Ambasciatore:
Fu d’Italia disonore
Miserere Domine.
Da Filippo era legato
Sto (sic) Italiano scellerato:
Miserere Domine.
Con Gregorio e i suoi clienti
Ordia Rossi i tradimenti:
Miserere Domine.
E tal mostro da Pio Nono
Fu chiamato appresso il Trono:
Miserere Domine.
Con la più vile canaglia
Tentò alfin crollar l’Italia: (sic)
Miserere Domine.
Già alla patria tutti i mali
Tesi avea coi Cardinali:
Miserere Domine.
Quando un braccio invitto e forte
Col pugnai gli diè la morte:
Miserere Domine.
Benedetto il terzo Bruto
Che lo diede in mano a Pluto:
Miserere Domine.
Or che Rossi è nell’inferno
Canti Italia in sempiterno:
Laus tibi Domine.
Documento N. XII.
Lettera autografa e spropositata di Angelo Bezzi.
Roma 17 Marzo 1849.
- Cittadino Ministro,
- Cittadino Ministro,
Fra i tanti luoghi qui in Roma che si radunano i nostri nemici per reagire e per rovesciare il Governo presente pure la Sabina non va esente. Carigos predica ed ha guastato l’intera popolazione esso trovasi a Monte Catino in Sabina. — Durante Valentini a Cottanello come sopra — Alai e Freddi a Mentana. — Del primo ne è stato informato Giovitta (sic) Lazzarini Ministro di Grazia e Giustizia, ma credo che non si sia presa alcuna determinazione. Io parto per andare a vedere mia moglie a Civitavecchia, volo e ritorno, al mio ritorno avrete un dettaglio esattissimo dei quattro sopradetti Capi reazionari, intanto pregherò il celo (sic) che v’apri (sic) gli occhi se pure si arriverà in tempo e vi dia a tutti voi quel coraggio necessario per risolvere, al mio ritorno dico piomberò coi miei sopra costoro e li porterò in Roma a brani. Addio ci siamo intesi.
Il Cittadino |
NB. Di tutto pugno di Angelo Bezzi, evidentemente diretta o al Ministro dell’Interno, o a quello della Guerra, esistente nell’Archivio di Stato, Miscellanea politica 1846-1849, busta 83, cop. 177.
Documento N. XIII.
Lettera del Colonnello comm. Adriano Gazzani.
- Carissimo Amico,
- Carissimo Amico,
3 Gennaio 1908.
Dopo tanti anni trascorsi comprenderai che rammentarsi con precisione gli avvenimenti e quanto si riferisce all’uomo di cui tu mi domandi notizie non è cosa facile.
Tuttavia, riportandomi all’epoca e in ciò che posso ricordare ti dirò; di aver conosciuto il Grandoni nell’anno 1848 quando si trovava ufficiale nella 1. Legione Romana, ma che le mie relazioni con lui non furono tali da potermi fornire apprezzamenti sicuri sulla sua personalità.
Ad ogni modo però non voglio tralasciare di manifestarti con tutta franchezza il mio pensiero dicendoti; che, quantunque nulla possa asserire circa la sua onestà e punto d’onore, pure considerando le notorie relazioni tenute dal Grandoni con alcuni elementi turbolenti della Legione, non sarebbe stata del tutto improbabile la sua preventiva e vaga conoscenza di quanto meditavano per l’assassinio del Rossi, escludendone però ogni diretta compartecipazione.
Ecco mio buon amico quanto posso accennarti circa i due quesiti esposti nella tua lettera, ed ora non avendo altro da aggiungere in proposito ti saluto e mi confermo.
Tuo aff.mo |
Documento N. XIV.
Lettera del Capitano Ingegnere Comm. Demetrio Diamilla Müller.
Roma 30 Dicembre 1907.
- Onorando e Carissimo Amico,
- Onorando e Carissimo Amico,
Rispondo subito alla tua lettera del 28 corr. che è una prova novella del tuo studio indefesso di difendere sempre la Sacrosanta verità storica, anche quando le apparenze sembrano contrarie all’assunto della sua difesa. E permettimi che, prima di tutto, ti ringrazi di rivolgerti a me sul grave fatto dell’assassinio del Conte Pellegrino Rossi, del quale delitto fui testimone oculare, e ho dato qualche notizia nel mio libercolo Roma e Venezia. (Appendice al volume Politica Segreta Italiana).
Mi rivolgi due domande su Luigi Grandoni, uno dei 16 accusati di quell’assassinio, condannato a morte con Sentenza del Supremo Tribunale della Consulta ai 17 Maggio 1854 (cioè sei anni dopo il reato) e che suicidossi in carcere.
Alla prima domanda rispondo:
Conobbi assai da vicino Luigi Grandoni, che fece parte della patriottica spedizione 1848 nel Veneto, quale Tenente della Legione Romana, nella 3. Compagnia, capitanata da mio cugino Luigi Malagricci.
Non ostante i gravi difetti del carattere di Luigi Grandoni, non ostante la sua presunzione, vanità e ambizione, sul mio onore e sulla mia coscienza, ti dichiaro che l’ho sempre giudicato un uomo onesto, e pieno di punto d’onore.
Alla seconda tua domanda:
Non ho mai creduto e non credo che egli fosse partecipe della trama ordita contro la vita di Pellegrino Rossi. — Non vidi Grandoni alla Cancelleria nel momento della tragedia, e in qualunque caso sono certo ch’egli fosse ignaro dell’organizzato eccidio. — Per me la prova maggiore fu il suo suicidio in carcere.
Del resto ti ripeto le poche parole ch’io scrissi nel sopra citato mio libercolo:
«Chi fu l’uccisore del Rossi? di chi fu il mandatario?
«Chi volesse ricercarlo nel voluminoso processo farebbe opera vana. Il Processo avrebbe potuto dirlo. Non si volle che lo dicesse. Si tremava forse innanzi alle possibili rivelazioni. ..».
Sono e sarò sempre a tua disposizione, onorando e mio carissimo amico, e credimi
tuo dev.mo |
All'Onorevole ROMA |
Documento N. XV.
N. 39894.
S. P. Q. R.
N. 6252 — 24 novembre 1848.
Dal Ministero dell’Interno, 23 novembre 1848.
Dalla unita copia di rescritto conoscerà V. E. come un nuovo corpo di Milizia sarà organizzato, e farà parte della Guardia Civica.
Il Tenente Colonnello che sarà eletto da quella Milizia consegnerà a V. E. i ruoli, e prenderà quei concerti che saranno necessarii perchè abbia pieno effetto la concessione.
Coglie lo scrivente questo incontro per confermarsi con sincera stima ed osservanza.
- Dell’E. V.
Dev.mo servitore |
A S. E. Sig. Tenente Getterale |
Documento N. XVI.
S. P. Q. R.
N. 6252 — 24 novembre 1848.
Minuta di lettera del Comando Civico alla Deputazione de’ Civici reduci dalla campagna del Veneto.
- Signori,
- Signori,
Il Ministro dell’Interno, con suo foglio del 23 corrente N. 39894, mi rimette copia autentica del rescritto da Lui fatto alla loro istanza del 22 dello stesso mese.
Perciò accludo in questa mia r intero rescritto, affinchè serva loro di norma, e ciò con invito, per mia parte, a voler sollecitare la nomina del Comandante del corpo di cui si accorda, dal ricordato Ministro, la formazione.
Mi credano con piena stima
Il Generale Delle Signorie Loro
Documento N. XVII.
Copia N. 39897.
S. P. Q. R.
N. 6252 — 24 novembre 1848.
Roma, 22 novembre 1848.
- Eccellenza
- Eccellenza
I Civici Reduci dalla Campagna del Veneto domandano alla E. V. perchè voglia facoltizzarli a formarsi in Corpo, concedendo loro a tale scopo un Quartiere.
Che ecc.
22 novembre 1848.
Veduta la presente istanza: Udita la Deputazione che l’ha presentata, e che ha sviluppato ciò che era nei desideri dei petenti. — Fattone rapporto a sua Santità:
Si concede che i Civici reduci in Roma dalla campagna Lombardo-Veneto, e che non si sono aggregati alla Legione comandata dal Tenente Colonnello Galletti spedita nelle Romagne di guarnigione, si formino in un Corpo Civico distinto, dipendente però dal Comandante Generale della Guardia civica di cui faran parte. — Si accorda loro di scegliersi un locale ad uso di Quartiere, e di eleggere i proprii Ufficiali, e sotto-Ufficiali secondo le leggi regolatrici d’istituzione della Guardia Civica, e le pratiche indi adottate in Roma, elegendo innanzi tutto il loro comandante col grado di Tenente colonnello, affinchè col suo mezzo possa il Comandante Generale della Guardia Civica ricevere i Ruoli, e tutte le altre comunicazioni necessarie. — Questo Corpo in caso di mobilizzazione della Guardia apparterrà alla Guardia Mobilizzata.
Il Ministro |
Documento N. XVIII.
N. 6450 — 6 dicembre 1848.
S. P. Q. R.
Al Ministro dell’Interno.
- Eccellenza,
- Eccellenza,
A norma del rescritto di codesto Ministero X. 39897, del 22 decorso Novembre, il sottoscritto Tenente Generale ordinò alla Legione dei Reduci della Campagna del Veneto di riunirsi per procedere alla nomina del Comandante, per mezzo di votazione. L’atto dello scrutinio ebbe luogo legalmente, a fede del processo verbale, che fu compilato nell’apertura e verifica delle schede, sottoscritto dai membri destinati all’uopo dallo scrivente. Dall’apertura e verifica suddette risultava la seguente terna di maggioranza:
Sigg. | De Angelis Pietro — | voti | 104. |
Grandoni Luigi | » | 84. | |
Romiti Odoardo | » | 73. |
Il sottoscritto deve rendere avvertita l’E. V., che il primo figurante in detta Terna, De Angelis Pietro, anche prima dello scrutinio, fece conoscere che non avrebbe accettato in caso che i voti lo chiamassero al Comando. Ciò egli rafferma al presente, secondo potrà rilevarsi dall’annessa rinunzia.
Perciò l’E. V., quando lo creda opportuno, seguendo la consuetudine in casi simili invalsa, potrebbe far nominare al grado di Comandante il secondo della medesima terna sig. Grandoni Luigi, ovvero d’intimare che venga rinnovata la terna.
In attenzione di riscontro in proposito, chi scrive ha l’onore di protestrasi
Dell’E. V.
Documento N. XIX.
N. 6450.
S. P. Q. R.
Oggi Mercoledì 6 dicembre 1848 circa le 12 meridiane riunitisi in una delle sale del Com. Gen.le Civico il Sig. Ten.te Colonn.lo Tittoni Angelo, appartenente allo Stato Magg.re Gen.le della Guardia Civica ed i Sigg. Magg.re De Angelis Pietro, Tenente Grandoni Luigi, Caporale Costa Gio., e Milite Bartolomeo Prin.pe Ruspoli deputati dalla Legione Romana per l’apertura delle schede per la elezione del Ten.te Colonnello, ordinata con dispaccio di questo Com.do Gen.le del 24 scaduto novembre N. 6252. Conosciutosi in prima esser le schede numero cento quaranta tre e per ciò superare la metà de’ Legionarj fin’ora riuniti, e per ciò ancora legale la votazione.
Aperte quindi le schede è risultata la magiorità de’ voti per il
Sig. | De Angelis | N. 104. |
Grandoni | N. 84. | |
e | Romiti | N. 73. |
Dato dal comando Generale il giorno ed anno suddetto per validità del quale si sono appresso firmati:
(firmati) | A. Tittoni. |
Documento N. XX.
N. 6450.
S. P. Q. R.
Individui che depositano la scheda.
1 dicembre, Ore 12.
1. | Teloni Giuseppe. |
2. | Sbricoli Francesco. |
3. | Oreste Toianelli. |
4. | Balestra Carlo. |
5. | Curti Luigi. |
6. | Tudini Alessandro. |
7. | Mirri (?) |
8. | Brachi |
9. | De Carnillis F. |
10. | Furietti Domenico. |
11. | Secondi Scipione. |
12. | Pietro Corradini. |
13. | Boezi Pietro. |
14. | Filippo Giustiniani. |
15. | Altobelli Alessandro. |
16. | Eleonori Nicola. |
17. | Tito Palmieri. |
18. | Felice Neri. |
19. | Poletti Pasquale. |
20. Maggi Lorenzo.
21. De Andreis Paolo.
22. Marchetti Giovanni.
23. Malatesta Aurelio.
24. Cienciarelli Celestino.
25. Carcani Camillo.
26. Escalar Luigi.
27. Filippo Michelesi.
28. Trivelli Giovanni.
29. Burzagli Giovanni.
30. Testa C.
Chiuso ore 2. A. Tittoni.
31. Servitelli Giuseppe.
32. Caporilli Giuseppe.
33. Pietro Tomei.
34. Attilio Palombi.
35. Amici.
36. Trenta.
37. Pietro Stampa.
38. Leone Monger).
39. Pensieri Secondo.
40. Baldini Cesare.
41. Petroni Francesco.
42. Lombardi Gioacchino.
43. Pietro Malusardi.
44. Mancini Lodovico.
45. Costantino Donati.
46. Luigi Lelmi.
47. Filippo Palombi.
48. Francesco Rondoni.
49. Secondi Scipione.
50. De Castris.
51. Boccafogli Luigi.
52. Giacomo Corteselli.
53. Giacinto Bruzzesi.
54. Giuseppe Cara vacci.
55. Giuseppe Numas.
56. Giuseppe Ubaldi.
57. Brunetti Luigi.
58. Salvatore Abbate.
59. Eleonori Enrico.
60. Gambelli Gaetano.
61. Greggi Filippo.
62. Enea Roccari.
63. Pietro Annibali.
64. Giovanni Spadoni.
65. Vincenzo Cavalcanti.
66. Carlo D’Ardisson.
67. Gio. Testa.
68. Gio. Gescomelli.
69. Benai Giuseppe.
70. Filippo Eleni.
71. Marini Gio. Batta.
72. Luigi Di Pietro.
73. Bruzesi. L.
74. Cialmellini.
75. Cartoni.
76. Orengo Luigi.
77. Cecchi Telesforo.
78. Ciercupe (?).
79. Franceschini Vincenzo.
80. De Nacca Augusto.
Votazione del 2, ore 2 pom. A, Tittoni.
81. Aleggiani Giovanni.
82. Pietro Mancini.
83. Natini Domenico.
84. Quarenghi Luigi.
85. Rossignoli Filippo.
86. Giuseppe Bucchetti.
87. Enrico Berettini.
88. Vincenzo Falcioni.
89. Paris Vincenzo.
90. Cristoforo Setacci.
91. Nicola Bernardini.
92. Pietro Peruzzi.
93. Filippo Pennachini.
94. Francesco Ottavi.
95. Diosi Achille.
96. Giovanni De Camillis.
97. Ximenes Dionisio.
98. Giovanni Sartori.
99. L. Zanchi.
100. Giuseppe Arduini.
101. Ferraguti.
102. Severi Paolo.
103. Diosi Augusto.
104. Ximenes G. B.
105. Bandettini F. R.
106. Diosi Carlo.
107. Adriano Neri.
108. Orengo Camillo.
109. Pennacchini Raffaello.
110. Colasanti Raffaele.
111. Papucci Paolo.
112. Rinaldi Pietro.
113. De Sanctis Antonio.
114. Terziani Eugenio.
115. Rufíni Domenico.
116. Settimio Porciani.
117. Giamboni Sante.
118. Filippo Quiroli.
119. Bazzi Giuseppe.
120. Ernesto Rorich.
121. Luigi Valenti.
122. Greggi Filippo.
123. Quarra Cesare.
124. Innocentini Luigi.
125. Cesare Damiani.
126. Paolo D’Ambrogi.
127. Martini Antonio.
128. Leopoldo Calza.
129. Migliacci Augusto.
130. De Sanctis.
131. L. Samoggia.
132. Buti Lodovico.
133. Alfonso Michelesi.
134. Lovatti.
135. Filippo Bachi.
136. Giovanni Cicala.
137. Aliberti Enrico.
138. Ennis Giovanni.
Chiusura della votazione del 3 dicembre 1848. A. Tittoni
139. Eugenio Bartoletti.
140. Luigi Leoni.
Consegnato in persona alle ore 3,30 (A. Tittoni).
146. Giuseppe Stefani.
Documento N. XXI.
N. 41085.
S. P. Q. R.
N. 6503 — 10 dicembre 1858.
Dal Ministero dell’ Interno, 10 dicembre 1848.
In sequela della votazione eseguitasi dai Militi della Legione reduce dalla campagna del Veneto, e che venne al sottoscritto Ministro comunicata con foglio del Comando Generale della Guardia Civica di Roma in data 6 corr. N. 6450, si rimette qui accluso il brevetto di nomina a Tenente Colonnello per il Sig. Luigi Grandoni come Comandante il suddetto Corpo che formato venne in Roma ; quale dopo il rinunciatario Sig. Pietro De Angelis ottenne la pluralità di suffraggi. (sic)
Il Sig. Tenente Generale Galieno viene incaricato della trasmissione della nomina stessa, e di farne eseguire la riconoscenza nei modi di prattica; ed in tale occasione si ripete con piena stima.
Sig. Tenente Generale Comandante la Guardia Civica di Roma.
Questi utimi sette documenti esistono nell’ Archivio Storico, fra le Buste della Guardia Civica, nella Busta 92 intitolata Battaglione Reduci del Veneto, Anno 1848.
Documento N. XXII.
Lettera di Ruggero Colonnello all’Avvocato Ernesto Pasquali.
Torino, il 12-2-70.
Graditissimo Sig. Avvocato: Non vi avrei ingomodato per me, ma conoscendo che Ella se conoscevo di darmi, qualche notizia riguardando, la mia causa me lo avrebbe fatto sapere; perciò non vi parlo di me; ma bensì di un militare, che trovasi qui detenuto. Il quale si chiama Orgogliane Vingenzo; il quale desidera, di esser da lei patrocinato e perciò, mi sono preso la libbertà di vergarli questi pochi richi onde ingomodarsi di favorire: su ciò, col vivo della voce l’informenrò, su tal Uopo.
Sicuro della Sua Bontà, glie ne anticipo i più distinti rin graziamene, e mi creda il di Lei
U.mo Dev.mo Servitore |
Documento N. XXIII.
Lettera della Direzione Generale di Polizia di Roma.
ROMA |
- Ill.mo Signore,
- Ill.mo Signore,
Pende da qualche tempo mandato di arresto a carico di certo Antonio Ranuzzi di Foligno, che si fa chiamare Giovanni Desiderj, come responsabile di gravi delitti innanzi alla Commissione Direttiva dei Processi. Ora si fa credere che detto Inquisito possa trovarsi rifugiato in codesta Città, e si aggiunge che la di Lui moglie siasi non ha guari riunita ed esista col marito, ma sotto altro nome.
Interessando sommamente che il Ranuzzi cada in potere della giustizia, incarico la S. V. Ill.ma di far praticare le più accurate ricerche del medesimo per procedere al fermo, senza omettere rigorosa perquisizione tanto nella persona che nel suo domicilio, apprendendo nei debiti legali modi, armi, scritti, stampe e qualunque altro oggetto che interessar possa le viste della Polizia, e della Giustizia. E perchè riescano più facili le indagini trasmetto la descrizione dei di lui connotati personali. In caso di favorevole risultato disporrà la traduzione, sotto sicura scorta, a queste Carceri di Polizia, dandomene contemporaneo avviso.
In attesa di riscontro sull’esito qualunque delle pratriche diligenze, con distinta stima passo a confermarmi.
Di V. S. Ill.ma
- Li 10 Gennaio, 1850.
Dev.mo Servitore |
- Sig. Governatore di
- GENAZZANO
Documento N. XIV.
CONNOTATI PERSONALI
- Di Antonio Ranuzzi sedicente Giovanni Desiderj.
Sopracchiamato . . .
Nativo . . .
Professione . . .
Stato . . .
Statura Alta
Anni 27
Capelli Neri
Ciglia Nere
Fronte Regolare
Occhi Castagni
Colore Naturale
Naso Giusto
Bocca Regolare
Barba
Viso
Mento Regolare
Corporatura
Marche Visibili
Segni particolari
Vestiario Civile con Cappottina o Mantello di panno fino color marrone cupo — Con orologio e catena d’oro appesa al collo.
Guarda sempre sospetto e si vede ridere di rado.
Documento N. XXV.
Minuta della lettera di risposta del Governatore di Genazzano.
Quell’Ant. Ranuzzi di Fuligno che fa anche chiamarsi Giovanni Desideij del quale la l’osseq. Disp. di V. S. Ill.ma ed Ecc.ma Prot. Riser: sez 1 del 10 corr. per quanto a me consta non trovasi rifugiato in questa terra e neppure nei Paesi di questa giurisdizione, mentre mi sarebbe stato facile di scoprirlo — Dimora qui bensì la di Lui moglie con una piccola figlia, e convive colla cognata Rosa moglie di Filippo Mogliè detenuto in queste Carceri per vari delitti, il di cui incarto trovasi già presso la Commissione direttiva del processi — Ho poi motivo di credere, che il Ranuzzi siasi altrove rifugiato, avvegnachè entro il mese di Luglio, dopo l’entrata delle truppe Francesi in Roma, si presentò da me un’uomo con foglio di via regolare rilasciato dal Governo di Narni sotto il nome di Antonio Ranucci, chiedendomi il visto per Spoleto, visto che non tardai di fargli, perchè la Carta ripeto era regolare e diretta per qui — Seppi che Costui partisse nel med. giorno insieme al Sud. Filippo Mogliè, di cui si disse cognato, e dopo qualche tempo ritornò il solo Mogliè, che fu poi da me fatto carcerare. Dai connotati descritti nel foglio rimessomi rilevo che quell’Ant. Ranucci è il ricercato Ranuzzi, avendone presente la sua fisonomia. Seppi che in Spoleto aveva Egli un parente, e potrebbe darsi che fosse rifugiato in quella provincia.
Niuna Circolare mi fu mai diramata sul conto del ricercato Ranuzzi e neppure un sentore mai ebbi che il medesimo fosse reo di delitti commessi nell’Interregno, altrimenti mi sarei fatto un pregio di darlo in potere della Giustizia.
Debbo poi osservare che quando si fece la perquisizione in Casa Mogliè, niun oggetto di furtiva provenienza gli fu rinvenuto, quantunque vi convivesse fin d’allora la moglie del Ranuzzi.
Se mi sarà dato di conoscere in seguito la dimora del sud. Inquisito, mi farò un dovere di rendernela immediatamente avvertita, ed in questa intelligenza ho l’onore ecc.
Documento N. XXVI.
Relazione del Chiarissimo cav. Deodato Lioy intorno agli ultimi anni del dott. Pietro Sterbini.
Pietro Sterbini venne in Napoli nel 1861 e prese parte alla collaborazione del giornale della sera II Nomade con articoli firmati. Per combattere il giornale moderato del mattino La Patria si unì al prof. Lioy e fondarono il Roma di cui ecco il programma.
Il titolo del giornale e le quattro parole che lo compongono racchiudono i principii del nostro programma a cui resteremo costantemente fedeli. Roma è il punto obbiettivo a cui miriamo; e quando vi saremo giunti, Roma sarà la stella polare che guiderá le nostre polemiche, come guiderà gli affetti e le azioni di tutti gli Italiani. Roma è destinata dal Cielo a dimostrare alle future generazioni come Monarchia e Democrazia, Religione e Liberta possano conciliarsi in modo da divenire un tutto omogeneo e indivisibile. Questo duplice connubio fra quattro Enti, che il despotismo e la superstizione avevano inimicati fra loro per tanti secoli, sarà suggellato sopra i due colli romani, Campidoglio e Vaticano.
Il nostro secolo domanda ad alte grida questa unione, da cui dipendono i due beni supremi della umanità, Pace e Giustizia.
Le monarchie del dispotismo percorsero un lunghissimo periodo di prova. I loro errori, i loro delitti hanno rese necessarie le sanguinose rivoluzioni, hanno reso impossibile il ritorno della autorità assoluta. Sia per cagione di alcune condizioni inerenti allo stato presente della società, sia per una repulsione quasi universale nata dalla storia delle moderne repubbliche, la creazione di un nuovo governo repubblicano in Europa incontra mille ostacoli e mille pericoli, nè può essere mai disgiunta dal timore di guerra civile e di anarchia.
Le monarchie e le repubbliche portano con loro alcuni principii, che in apparenza promettono una vita vigorosa e durevole. La monarchia oppone alle umane ambizioni un’argine insuperabile, la repubblica si appoggia al diritto della volontà popolare che costituisce l’essenza della democrazia, ma la monarchia abbandonata a se stessa tende sempre a divenire dispotica e la repubblica lascia sempre un campo aperto alla lotta di uomini superbi che vogliono salire al potere. Questi due mali irreparabili guidano necessariamente alle rivoluzioni feroci e sanguinose. L’esperienza del passato costringe gli uomini a cercare una conciliazione fra i due principii, monarchico e democratico, e si pensò al governo costituzionale, il quale rinunziando alla stolta pretesa del diritto divino fu costretto dall’accresciuta civiltà di cercare la sua forza nella volontà nazionale, cioè nel principio democratico.
Accade lo stesso nel dominio religioso. Il mondo è persuaso che lo Stato non può acquistare quel sentimento morale, che è la base di ogni felicità, senza religione; sicchè dove essa manca si deve supporre ogni male. Ma la religione divenne strumento di tirannide, quando i preti di tutte le sette per rendere gli uomini schiavi alle passioni di una casta, avara ed ambiziosa, proibirono ad essi l’uso della libertà, carattere distintivo della umana ragione.
Nacque allora una lotta fra questi due principii, che dovevano invece collegarsi strettamente fra loro. La storia di tutti i tempi e di tutti i popoli ci rivela i mali immensi prodotti da questa lotta.
La filosofia predicò il connubio di questi due principii, e in questo si trovò in perfetto accordo con la morale di Cristo, perchè là dove non v’è libertà, non vi può essere fratellanza, base della religione cristiana. Il secolo attuale aspira a suggellare questo connubio fra la libertà e la religione.
Due problemi vitali si presentano adunque all’umanità: essa è chiamata a mettere di accordo la monarchia con la democrazia, la libertà con la religione.
Questi due problemi sono già sciolti nella mente della immensa maggioranza dei popoli civili, il loro diritto è riconosciuto; ma se presso alcune nazioni i fatti diedero ad essi un principio di soluzione, questa però non è ancora completa. Tutto contribuisce a farci credere che una completa vittoria della moderna civiltà sull’antica barbarie debba verificarsi in Roma, divenuta la capitale della nazione italiana.
Per due volte il mondo intero si inchinò davanti ai due Soli usciti da Roma, dal Campidoglio il primo, dal Vaticano il secondo. È vicina la simultanea comparsa di quei due soli sui due colli romani; l’istinto popolare ha già annunziato questo gran fatto, e noi chiedendo Roma ad alte grida siamo l’eco di quell’istinto.
Resta soltanto a formulare i patti e le condizioni di quest’accordo, resta a tracciare la via per arrivarvi senza scosse pericolose, senza lasciare il popolo nell’ignoranza dei suoi diritti e dei suoi doveri. Noi cercheremo di additare i mezzi per giungere sollecitamente e con calma a questo nobile scopo, ed invochiamo l’aiuto ed i lumi di tutti i generosi patrioti italiani.
Non può trovarsi sulla terra una città che riunisca in sè tanti elementi di grandezza e di senno come Roma. Sono memorie, è vero, ma l’umanità si nutrisce di memorie e l’intelligenza deve a quelle il suo progressivo sviluppo.
Chi si oppone al risorgimento di Roma, chi contrasta agli Italiani il diritto di riunirsi in Campidoglio, è colpevole di lesa umanità, è degno dell’odio e del disprezzo universale.
Roma sola può essere la città, a cui rivolga i suoi sguardi il mondo intero, perchè soltanto in lei possono decidersi le sorti future di tutta l’umanità.
Tutto il valore del pensiero che si racchiude nelle due parole, Roma o morte, non fu conosciuto ancora abbastanza.
Noi cercheremo di svolgere quel concetto, innanzi a cui devono tacere le discordie dei partiti e le misere sciagurate passioni dei nostri governanti. Le chiamammo misere e sciagurate perchè vediamo che nell’animo loro non è ancora penetrata la convinzione della forza popolare, di cui possono disporre, e della forza morale che si racchiude nella magica parola, Roma.
- 22 agosto 1862.
Non si potrebbe meglio esprimere l’ideale di Pietro Sterbini: la terza Italia è chiamata a tradurlo in atto. Abbiamo in Roma i due Soli profetizzati da Dante: come concentrare i loro raggi? Mediante la libertà.
Pietro Sterbini era stato educato con idee del secolo XVIII, dell’antica bontà dell’uomo e credeva tutto possibile con un poco di buona volontà. La serie degli articoli pubblicati nel Roma sono ispirati da questo ottimismo. Egli gridava ai governi «Siate larghi e tutto andrà bene!».
L’ultimo suo articolo porta la data del 28 settembre 1863 due giorni prima della sua morte ed ha il titolo Un delirio feroce. Egli stigmatizzava il proclama sanguinario contro il clero di Polonia del Colonnello Moller ed esorta Napoleone III a non indugiare nei raggiri diplomatici, ma a riconoscere nei Polacchi il diritto di belligeranti e poi ad accorrere a liberare quel popolo martire, come lo chiamava Michelet.
La vita di Pietro Sterbini in Napoli fu semplicissima: la passava in famiglia e negli ufficii del giornale Roma.
Una organica malattia delle vie urinarie lo minava da 30 anni, cagionandogli febbri intermittenti, quando un’incuria renale lo tolse ai vivi il 30 settembre 1863. Ricevè i conforti religiosi. Le esequie furono celebrate nella chiesa del Gesù, ove il padre Gabriello da Viareggio tessè l’elogio funebre a base della conferenza da lui pronunziata nell’Università di Napoli il 6 marzo 1862 innanzi a numerosi studenti dal titolo Filosofia e Religione. Fece notare la perfetta conformità della sua vita alle sue credenze.
Napoli gli aveva dato un segno di alta stima e di affetto, eleggendolo consigliere comunale.
Parlando dell’assassinio di Pellegrino Rossi, egli lo attribuiva al partito clericale e non accennò ad un’auto-difesa.
Note
- ↑ Dal Processo di lesa maestà con omicidio del Conte Pellegrino Rossi, ministro di Stato, fog. 1700-1701.
- ↑ Processo, Carte Grandoni fogl. 1837-185
- ↑ Dal deposto di due testimoni si ha che veramente non esistesse allora il quartiere di S. Claudio, fog. 3830 3848.
- ↑ Il Neri disse pure che l’Inquisito Grandoni entrò nella porta di S. Carlino, ma non lo vide sul campanile essendo rimasto alla testa della compagnia, fogl. 2012 1290 t.
Altro coinquisito, già dimesso, Francesco Del Colle vide in strada alle Quattro fontane l’ufficiale che intese dire essere Grandoni, il quale avrea condotto un distaccamento e faceva pompa della sua sciabola; nè può assicurare se stesse sempre in quel sito, o si recasse altrove perchè egli partì da quel luogo, fog. 2335 t.
Dal deposto di Francesco Paoloni, oste alle Quattro fontane, apparisce che prima alcuni civici e tiragliori si posero presso le fontane a tirare archibugiate contro il palazzo Pontificio ed a tal effetto andarono in parte sul campanile di S. Carlino; ina poi giunse un distaccamento di civici dalla piazza Barberini che impose di cessare il fuoco, dir, infatti, dopo qualche altra fucilata, cessò del tutto anche da quel campanile, fog. 950 t. a 952 a 958 t. a 955.Ed un deponente, che, da una fenestra della sua abitazione presso S. Carlino, stava osservando quel tumulto, non vide entrare Grandoni nel convento, fog. 8159 t.
Dal certificato poi criminale non appariscono pregiudizi del medesimo. fog. 8244.
Sono state commesse alla Direzione Generale di Polizia, ed alla forza politica le indagini opportune ad esaurire le istruzioni date dalla ponenza: fog. 8948 8945 8981, ma si sono avuti riscontri contraditorj fra loro, e che nulla includono sulla responsabilità che può il Grandoni aver contratta per l’accennato omicidio, fog. 4092.