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Vecchi fasti

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Parte prima - I volontari Parte prima - 1859

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Vecchi fasti


I.


La Giovine Italia. — Mazzini. — Gaspare Rosales. — Bolza. — Gaetano Antonio Battaglia. — Achille Battaglia, suo figlio. — Enrico Osnago. — Luigi Rosales.


In un volume di lettere inedite di Giuseppe Mazzini, dirette al marchese Gaspare Ordogno de Rosales, fra il 1833 e il 1836, e pubblicate nel 1898, come vedremo più avanti, dal figlio di lui Luigi, a pagina xx leggiamo:

GIOVANE ITALIA

Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Unità.

La Congrega Centrale della «Giovane Italia».

Ricordevole di tutti i sacrifici, incontrati dai devoti alla causa, per condurre a termine il progetto di spedizione nella Savoia; volendo, almeno, che rimanga un documento del sagrifizio maggiore pecuniario, onde nella inerzia colpevole di una classe, alla quale l’abbondanza di mezzi dovrebbe persuadere un debito maggiore verso la patria, vedano gli italiani chi seppe levarsi nel sagrifizio, e perchè la patria sorta a migliori condizioni, possa ricompensare degnamente il pensiero che dettava l’offerta.

Dichiara

che il fratello Gaspare Rosales d’Ordogno, esule della Lombardia, ha ben meritato della Giovane Italia. Che ai sacrifici d’ogni sorta incontrati con entusiasmo nella penisola, come al di fuori, per la Santa Causa, egli ha aggiunto all’epoca dell’Impresa Savoiarda, quella di una somma di sessanta e una migliaia di franchi (61.000 franchi) versata nelle mani della Congrega Centrale per compera d’armi, munizioni ed altre spese. Che questa dichiarazione verrà fatta di pubblica ragione in Italia quando le circostanze lo richiederanno.

Dato a Ginevra nell’Albergo della Navigazione a Pâquis.

Addì 19 febbraio 1834.

Per la Giovane Italia:

Giuseppe Mazzini — Giovanni Ruffini — Agostino Ruffini, Segretario.

La eloquenza di tale documento basta da sola a rilevare e descrivere tutta la vita di quell’insigne patriota che fu il padre di Luigi Rosales.

Noi lo conoscemmo durante la campagna del 1859, quando egli, [p. 90 modifica]trascinato dall’entusiasmo del lottatore antico, portato dall’immenso amore che lo legava al suo Luigi, seguiva passo passo, tappa per tappa, i movimenti e le marce del nostro reggimento, quasi volesse con noi dividere le fatiche del campo e i pericoli della battaglia.

Abbiamo sempre davanti agli occhi, viva, parlante, la bella e nobile figura di Gaspare Rosales, il quale, ogni volta che noi, dopo una marcia,
 
Giuseppe Mazzini
si faceva il pied-a-terr, spuntava da lontano, pedestre, coperto il viso abbronzato da un cappello a cencio a larghe tese, bianco di polvere, o inzuppato dalla pioggia; e lo vedevamo venire verso di noi sorridente, piene le mani di ogni grazia di Dio, a darci il ben arrivati, come se fosse il nostro buon genio tutelare, la nostra provvidenza in campo.

Il marchese Gaspare Rosales era una di quelle creature forti e soavi ad un tempo, elette per carattere e bontà, che bisognava amare e rispettare non appena conosciute.

[p. 91 modifica]Intorno a questa grande figura di patriota, che per una naturale modestia volle rimanere nell’ombra, rifuggente da tutti quegli onori, che per lo più sono sogno, ambizione, delirio, di molti fra i patriotti moderni — combattenti della sesta giornata — ci permetta il lettore, prima che ci accingiamo a parlare del figlio, che noi sbozziamo un fuggevole cenno di storia.

Gaspare Ordogno di Rosales, morto nel 1887, dorme ora il sonno eterno nel suo tumulo di Bernate, sotto il cielo ridente di quella bella parte
Gaspare de Rosales
di Lombardia, che, insieme a tutto il resto d’Italia, egli contribuì a redimere.

Italiano, anzi milanese per nascita, egli discendeva da un’antica e nobilissima famiglia originaria di Spagna. Fu uno dei più attivi cooperatori di Giuseppe Mazzini, nei tempi in cui non v’era anima italiana che non fosse rivoluzionaria; nei tempi in cui si giudicavano le vicende politiche a traverso un prisma ben diverso da quello che le nostre menti e i nostri cuori dovessero giudicarle dopo il 1859.

È noto che il fondatore della Giovine Italia, dopo la arrischiata impresa Savojarda, ridotto a vivere randagio e rintanato qua e là per il [p. 92 modifica]mondo, fosse costretto a corrispondere con cifrari, e assumere e fare assumere dagli affigliati, diversi nomi di guerra. Il marchese Rosales aveva perciò assunto in quel tempo il pseudonimo di Conte Ricci; e a ben pochi era noto che, sotto quel finto nome di rivoluzionario si nascondesse, nientemeno che un Grande di Spagna, un discendente della stirpe reale di Ramiro III di Castiglia.

Arrestato il Rosales a Milano nel 1831, sotto la imputazione di appartenere alla Giovine Italia, egli fu tratto nelle carceri di Porta Nuova e vi rimase chiuso per ben diciotto mesi; ma una miracolosa deficienza di prove, gli fece rivedere il sole il dì 28 ottobre 1832. Eppure le prove non mancavano! E guai se il conte Bolza per impadronirsene, non avesse dovuto fare, come suol dirsi, i conti col cocchiere del Rosales stesso: un servitore affezionato, un fido compagno di cospirazione. Questi, di nome Bottinelli, precedendo il Bolza che già trottava verso la villa di Monguzzo, gli fece da battistrada; divorò la via, e arrivato pochi minuti prima di lui, ebbe il tempo di distruggere tutto il segreto carteggio che il Rosales teneva colla Congrega centrale.

Figuriamoci quale non dovette essere la rabbia del Bolza, allorchè in luogo della preda, che già contava di tenere in mano, dovette, arrivando, godersi l’odore di bruciaticcio di un carteggio che non esisteva più!

La fiamma che salvava la testa del cospiratore inceneriva, è vero, un tesoro di documenti per la storia del Risorgimento italiano; ma pel bravo cocchiere, quella pagina di storia, tanto preziosa per i posteri, certo non valeva un minuto solo di vita del suo adorato padrone — per salvare la quale avrebbe dannato al fuoco sè medesimo.

Indarno il Bolza, tanto atrocemente turlupinato, tentò prendersi sul serio le proprie vendette; indarno con ogni seduzione, colle minaccie, con lo spauracchio della corda e del sapone, volle strappargli dalle labbra una sola parola.... Il Bottinelli tenne duro. Negò.... negò.... negò!

Perocchè quel bravo figlio della gleba era fabbricato, anch’egli, di quella stoffa famosa mercè la quale passarono benedetti nella storia del Risorgimento italiano, i nomi del Pellico, del Maroncelli, del Confalonieri: e, più in qua, i nomi cari alla patria dei Finzi, dei Lazzati, dei Cavalletto, e di tutti quegli altri mille e mille martiri che formano le tappe immortali del Calvario Italiano.

Gaspare Rosales, emigrato nella Svizzera sul finire del 1833, si trovò alla testa dell’Impresa Savojarda, alla quale sacrificò un’intiera sostanza. Fu in quel tempo che assunse il nome di Conte Ricci, e che contumace, fu condannato alla fucilazione. Fuggito in Francia, non volle fuggir solo; ma si tirò dietro una vera legione di fuggiaschi che in gran parte mantenne del suo.

[p. 93 modifica]Senonchè, bandito anche dalla Savoia, eccolo nuovamente riparare nella Svizzera, dove è inscritto più tardi nell’albo di quei cittadini più benemeriti.

Passando di volo alcuni anni, lo troviamo nel luglio 1847, nuovamente arrestato a Milano, insieme al marchese di Soncino e Achille Battaglia; e costretto in loro compagnia a cambiar aria ed essere deportato a Lubiana.... Cura poco igienica davvero!

 
Achille Battaglia.


Apriamo una parentesi, non inutile, a proposito del nome Battaglia; per dire che l’Achille dianzi nominato, era figlio di quel Gaetano Antonio Battaglia capitano della 1ª Compagnia delle Guardie d’onore del Vicerè Eugenio, suo scudiere, cavaliere della Corona Ferrea e della Legion d’Onore, insignito del titolo di Conte del Regno da Napoleone nel 1812.

Egli, come capitano delle Guardie d’Onore ebbe il comando, col grado di colonnello, dell’intero corpo della Vecchia Guardia, durante la campagna di Russia, e perdette miseramente la vita, abbandonato, senza soccorsi, a Smolensko, nel settembre del 1812.

Di quel valoroso rimasero due figli maschi: Achille e Alfonso, avuti dal suo matrimonio con Lucia Frapolli, milanese; la quale passò poi a seconde nozze col generale Fontanelli, ministro della guerra. Matrimonio che venne celebrato per procura, passati appena i dieci mesi di prammatica, essendo stato il generale Fontanelli chiamato nel maggio 1813 a rimpiazzare improvvisamente il generale d’artiglieria D’Anthouard, ferito in guerra.

Lucia Frapolli Fontanelli fu poi madre di numerosa prole; della quale fa parte la vivente Elisabetta, vedova di Max Majnoni.

La famiglia Battaglia, da non confondersi col Battaglia veneziano, possedeva nella vecchia Milano — a S. Giov. Laterano — alcune case, e una villa a Lissone.

Unico discendente di Achille è suo figlio, il tenente colonnello Federico Enrico Battaglia, distinto e bravo ufficiale superiore, ora comandato al Ministero della guerra — Ispettorato di Cavalleria — al quale chiediamo vènia, se, nella nostra qualità di cronisti, ci siamo permessi di ficcare il naso nella storia radiosa di casa sua.


Quì chiudiamo la parentesi, per tornare a Gaspare Rosales il compagno di prigione di Achille Battaglia, e riportare alcune righe che intorno a Rosales ci scrive un vecchio amico suo, il signor Enrico Osnago. Queste:

[p. 94 modifica]“Il buon Rosales, giovane esuberante di vitalità, si lasciò andare in prima gioventù, a qualche scappata della quale ebbe poi a rammaricarsi. Io lo ebbi amico negli ultimi anni della sua vita, e ne conservo simpatica memoria; perchè era buono, sfortunato, e aveva avuto gran parte nella preparazione del risorgimento nazionale. Io lo incitavo anzi a scrivere le sue memorie, che sarebbero riuscite interessantissime. Ma egli non ne fece mai nulla. Molte delle sue rivelazioni io le annotai sui libri che trattano di quell’epoca; e, dopo la mia proxima finis, si potranno consultare all’Ambrosiana.„

Al signor Enrico Osnago, che oggi ha la bellezza di ottanta anni, noi ne auguriamo ancora molti di vita, facendo voti che quelle Memorie, che egli dice di voler testare all’Ambrosiana, si decida a pubblicarle in vita, nell’interesse specialmente della verità, e di una pagina di storia che ha ancora molte lacune.



Ma riprendiamo il filo che ci è scappato di mano, e torniamo al momento in cui Rosales, e i suoi amici Battaglia e Soncino, compagni di carcere, scoppiata la provvidenziale rivoluzione a Vienna, furono liberati.

Tornato in patria, il Rosales sente che il generale Durando trovasi alla testa delle truppe pontificie nelle provincie venete. Chi lo tiene più? Col cuore aperto a un fulgido raggio di speranza, eccolo unirsi a Cialdini, e insieme accorrere alla difesa di Vicenza, ove Durando eroicamente si batte. Caduta Vicenza, Gaspare torna a Milano, trascinantesi nei conati dell’agonia. Egli non perde la fede e, avutone l’incarico, vi organizza la Guardia Nazionale.

Capitolata Milano il 6 agosto, Gaspare, dal Piemonte vola nella terra Toscana. Giunto a Fosdinovo, assume il comando di un battaglione di volontari. Perocchè la febbre della resistenza infiammando gli animi, aumentava in quei giorni nel sangue dei patriotti, in proporzione della sventura che, fatale, batteva alle loro porte!

Caduto anche il Governo provvisorio della Toscana; andato a monte, per l’intervento dei francesi, il tentativo di entrare a Roma per Civitavecchia; il Rosales, perduta ogni speranza, si rifugiò per l’ultima volta a Andeer nella Svizzera, ed ivi rimase senza interruzione fino all’alba di libertà del 1859.

I sacrifici fatti per la causa italiana, i soccorsi prodigati ai compagni di fede, lo sprezzo dei pericoli, una modestia e un disinteressamento dei quali, purtroppo, non rimane più che la memoria, facevano di Gaspare Rosales un patriotta grande sotto qualunque aspetto lo si voglia considerare. Tutto alla patria egli diede; alla patria nulla mai chiese. Alieno da [p. 95 modifica]qualsiasi forma di ricompense o di onori, avrebbe creduto, ricevendone, di coprire di un velo la fama radiosa del proprio nome.

L’intima amicizia che lo aveva per tanto tempo legato a Giuseppe Mazzini, durò intera fino al 1850; nel quale anno egli lo tenne nascosto per parecchio tempo nel proprio villino di Rosenek presso Losanna; e di là, con grave pericolo della testa, lo aveva accompagnato fino ad Ostenda, traversando con falso passaporto la Francia, la Germania ed il Belgio. Imbarcatolo felicemente ad Ostenda, in rotta per l’Inghilterra, non abbandonò di vista la nave finchè non seppe l’amico suo al sicuro. È inutile aggiungere che di tante prove di amicizia Giuseppe Mazzini serbò sempre dolcissima memoria.

Senonchè il Rosales principiava, fino da allora, a dissentire dai mezzi che il grande agitatore ideava per fare scoppiare la rivoluzione nella Lombardia; e, per quanto era in lui, andava dissuadendolo. Fu per questo, forse, che Giuseppe Mazzini, più tardi, da Lugano, sperando di vincere le dubbiezze dell’amico, gli scriveva:

Lugano, 15 Novembre 1852.

Rosales mio,

“Tu mi sei stato amico. Lo sei ancora? Mi hai dato l’ospitalità; dura essa nel corpo tuo, e nell’anima, verso colui che stimavi e col quale avevi comunione sacra d’affetti?

“L’eco delle fucilazioni delle Romagne, la nuova delle bastonature Lombarde, il ferro di Damocle sulla testa de’ tuoi compaesani imprigionati in Mantova, ti danno la febbre come a me?

“Abbila, comunicala ad altri. — Lascia per dieci giorni tutti i riguardi, tutte le debolezze umane: insisti, prega; ma fa denaro coi tuoi amici — parla in nome del paese, e dell’onore, poi in nome del popolo, che avvertito da me, ti tasserà del decuplo, se ricusano. Fa denaro e presto....

“Dio Santo! che tutti gli imbroglioni debbano trovare denaro pei loro bisogni illeciti, e che il Partito Nazionale non possa trovarne, è troppa vergogna.

“Dio ti benedica, per tutti gli sforzi che farai, e ricorda con un po’ d’affetto il tuo

Giuseppe.„


Ma Rosales non si persuase; e, purtroppo, l’episodio tragico del 6 febbraio a Milano, venne a dargli ragione!

Da quel momento in poi, una certa freddezza era subentrata nei rapporti intimi dei due vecchi atleti; freddezza che andò a mano a mano [p. 96 modifica]
accentuandosi da quel giorno che il marchese Ordogno de Rosales si avvicinava al trono del gran Re Vittorio Emanuele, fondatore della Unità della Patria; da quel giorno che, al suo Re e alla nuova Italia, egli offriva il sangue dell’unico continuatore del proprio nome: il sangue del figlio Luigi.



Luigi Rosales, anch’esso, come l’altro Luigi — l’Esengrini — accorse sotto il vessillo Sabaudo, nel 1859, nel fiorire dei suoi ventidue anni. Vestì la divisa di volontario nei Cavalleggeri Monferrato, tornando a casa capitano e decorato.

Egli era nato a Bellinzona il 6 gennaio 1837, e crebbe negli anni in cui l’Italia, tornata in catene, pareva dormisse neghittosa e rassegnata; e Mazzini e Rosales si affaticavano a tener viva la fiamma di quegli entusiasmi che oggi, per mancanza di ideali, vanno spegnendosi in mezzo a l’alito del cinismo e dell’apatia.

Luigi, dopo aver preso parte, come semplice soldato volontario, a tutti i fatti d’arme nei quali si trovò impegnato il suo reggimento durante la campagna di guerra, fu promosso anch’egli sottotenente l’11 dicembre 1859, e destinato ai Cavalleggeri di Milano — più tardi trasformati in Lancieri. Si trovò nel 1860 a combattere contro le truppe del generale Lamoriciere
 
nella campagna della bassa Italia; e fu a Sinigallia che si guadagnò la Medaglia d’argento al valore militare: per quel coraggio e sangue freddo ch’egli aveva ereditato dal padre, e che lo rese un soldato pieno di fede, di slancio, di zelo e di abnegazione.

Il 24 marzo 1861 è promosso luogotenente nei Cavalleggeri di Lucca, e nello stesso anno è trasferito nel suo antico reggimento Cavalleggeri di Milano.

Anch’egli, come l’Esengrini, ebbe ripetute occasioni di gingillarsi a dare la caccia ai briganti.

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Rosales
Rosales

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Il comandante generale del III Dipartimento militare, il generale Cucchiari, lo chiese quale suo aiutante di campo l’11 maggio 1864. Presso di questi rimase fino all’ottobre del 1866; ma passato capitano il 5 gennaio 1868, chiese l’aspettativa per motivi di famiglia. L’8 giugno dello stesso anno si dimette, e torna alla quiete del suo Bernate, con quattro fascette di guerra, e, come abbiamo detto, decorato della medaglia ai valorosi.

Le armi in silenzio, e in seguito a un lutto domestico, lascia il reggimento, dopo avere aggiunto al suo stato di servizio militare l’assedio di Gaeta e due anni di brigantaggio. Tornato al proprio nido, svestita la divisa militare, finito col 1866 l’obbligo di servire come soldato la patria, sentì che un altro dovere lo attendeva, quello di servirla coll’opra del cittadino. Dotato di una mente eletta, bramoso di studio, appassionato bibliofilo, amava circondarsi di persone ch’egli riteneva molto a sè superiori. — Diverso in questo dalle anime piccine e invidiose, le quali preferiscono la compagnia dei mediocri, per poter dominarli, e non esser così obbligati ad arrossire, ad ogni piè sospinto, della propria ignoranza! — Ma sovra tutto teneva preziosa l’amicizia dell’abate Stoppani, gloria lombarda, con lui dedicandosi alle scoperte fossili nei monti che si specchiano dentro il cristallo del suo lago favorito.

Buon amministratore, nulla sfuggiva al suo occhio paterno; e nelle due famiglie, la sua e quella del Comune, era del pari amato e stimato. Per natura gioviale, pronto all’arguzia, osservatore profondo, ugualmente affabile con tutti, egli considerò sempre la vita quale un campo infinito di azioni utili e feconde, non una sterile occasione di semplice godimento.

Nobilissimo di stirpe, non diede importanza allo splendore del nome, se non in quanto lo possa onorare colui che lo porta. Marchese e Grande di Spagna, difficilmente ci si incontra in uomini più di lui popolari — popolari nel vero senso della parola, non ancora sfruttata a scopo settario — e fedele al motto del suo stemma, Virtus omnia vincit, egli non mirò, in ogni suo atto, che ad esercitare quella aristocrazia che sgorga soltanto da ogni più fulgida virtù apportatrice di bene.

Presago il Luigi, intuitivamente, della vicina sua fine, egli volle compiere un atto di buon patriota, e insieme un sacro dovere di figlio, raccogliendo in un volume le lettere che Giuseppe Mazzini scriveva al padre suo durante le vicende politiche del 1833-1837, e in altre epoche meno lontane.

È un prezioso volume edito dai Fratelli Bocca l’anno 1898, ricco dei ritratti dei due amici e cospiratori, e dedicato alla memoria del padre con queste parole:

“Alla santa memoria di mio padre Gaspare Ordogno di Rosales, che [p. 99 modifica]per l’Italia soffrì carcere ed esilio, quando amarla era delitto; a lui che tutto sacrificò sull’altare della patria, dedico reverente questo volume, perchè i suoi figli imparino da questo quanti sacrifici, dolori e martirii, è costata la libertà di cui oggi godono. Possano essi apprezzarla e sappiano per parte loro difenderla.„

L’epistolario è preceduto da una prefazione chiara, modesta, affettuosa, dalla quale togliamo questo brano:

“Forse la pubblicazione di queste lettere intime non desterà grande interesse nella presente società, che quasi inconscia dei sacrifici d’ogni specie fatti allora, gode dei frutti della libertà a sì caro prezzo conquistata„.

Dolorosa, gelida verità!

Pubblicando quelle lettere, scopo del Rosales è quello di mostrare il capo della Giovine Italia nella sua vita intima di proscritto; far risaltare di quale tenacia di volontà egli andasse fornito, e come in quella natura politicamente ascetica, da molti ritenuta quasi priva di sentimento, albergasse un cuore nobilissimo, atto a profondamente sentire, nel quale il senso dell’amicizia era così potente e radicato da convertirsi in culto.

“Io volli — — scrive il Rosales — — far conoscere il fondatore della Giovine Italia, dopo la infelice impresa Savoiarda, ricercato da tutte le polizie, ridotto a vivere celato fra quattro mura, sotto finti nomi, costretto a corrispondere con sigle e cifrari.... ardente del più vivo patriottismo, roso da una febbre di operare, intento a ideare moti e rivoluzioni, trovando tutti impari ai desideri suoi, privo di mezzi, anelante sempre a libertà.

“Può egli aver errato nella pratica, nei metodi, nella opportunità dei tempi. Può, per quella fede che hanno gli apostoli di un’idea, con troppa fidanza aver sacrificato sull’altare della patria, e trascinato al martirio, chi con cieca fiducia credette al verbo suo. Però la grande figura di Giuseppe Mazzini resterà sempre venerata nell’animo degli italiani; sarà sempre, ardirei dire, prima fra le più spiccate individualità dei precursori del Risorgimento italiano„.

Il secondo intento di Luigi Rosales, nel pubblicare tali lettere, lo si disse, fu il vivissimo desiderio di onorare la memoria dell’adorato padre suo; di colui che ebbe tanta parte nelle vicende della patria e che oggi, dall’ingrata patria obliato, dorme accanto a lui l’eterno sonno nel glorioso tumulo di Bernate.

Luigi Rosales si spense nell’amena solitudine de’ suoi colli irradiati dal più bel sorriso della natura, fra le tranquille pareti della sua dimora prediletta, nella pace soave di quegli affetti famigliari, di che avevano saputo circondarne la vita, le dolci cure della intellettuale sua sposa, l’amore e il rispetto de’ propri figliuoli.

Non il canto della battaglia — — esclamava il professor Mola davanti al [p. 100 modifica]feretro dell’amico — accompagnava la salma; non gl’inni della vittoria; ma il mesto rintocco della piccola torre del villaggio, un lungo corteo di amici e di parenti, una devota schiera di pii.... la maestà della morte che passa sul suo trono — la bara — e una fossa spalancata per inghiottire la vita!

Là, davanti al feretro del soldato e del cittadino, degnamente parlarono: il conte Bernardo Arnaboldi, il sig. Giuseppe Franchi, sindaco di un Comune vicino; il bravo capitano Manusardi, e l’egregio Cesare Mola, da noi più su menzionato. Cesare Mola, un’anima antica per verginità di patriottismo, provato amico di Gaspare Rosales e precettore dei nipoti di lui; ai quali, ricordando sempre i severi precetti dell’avo, ripeteva ciò che questi, un giorno, in occasione di un loro anniversario, teneramente scriveva:

“Tu porti il nome di tuo padre, e mio; ricordati che questo nome deve essere senza macchia!„



Compiuto, bene o male, un dovere di vecchio camerata, soddisfatta così l’ardente sete del cuore, confido che lo spirito generoso dei giovani ufficiali di cavalleria, e di chi avrà avuto fin qui la pazienza di leggerci, vorrà perdonare la pochezza del lavoro, per tenere conto del sentimento fraterno che ci ha spinto a dettarlo.

Vorrà tener conto dell’affetto che noi portiamo a quest’arma — di cui abbiamo l’onore di vestire ancora la divisa — e che non muta, nè muterà coll’andare degli anni, ma vive e vivrà sempre nell’anima nostra, come la dolce memoria, e il nome di colei che, per la prima volta, avrà saputo svegliare i battiti del nostro cuore.



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II.


Benedetto Cairoli. — Piero Correr. — Nicostrato Castellini. — Giulio Adamoli — Antonio Frigerio. — Giuseppe Missori — Giacomo Battaglia. — Giuseppe Robecchi. — Carlo Samhucco. — Federico Rossi.


Facciamo seguire, alla raccolta fotografica dei volontari Lombardi, e Veneti, delle guerre dalla indipendenza, l’effigie di alcuni illustri patriotti, i quali portarono il tributo della loro
 
Pietro Correr.
opera e del loro sangue alla unità della patria. Sono questi i ritratti di Benedetto Cairoli, di Nicostrato Castellini, di Giuseppe Missori, di Giacomo Battaglia, di Giuseppe Robecchi. E riproduciamo, insieme agli altri, anche il ritratto del conte Piero Correr, veneziano, per riparare, in qualche modo, a quell’ingrato oblìo nel quale fu lasciato fino ad oggi il suo nome.

Discendente questi da una antica e illustre famiglia patrizia, era figlio dell’ultimo podestà di Venezia — il conte Giovanni — il quale non aveva nascosto, prima della rivoluzione, le sue debolezze per la Corte Austriaca. Scoppiata la rivoluzione del marzo del 1848, essendo ben noti i sentimenti liberali e patriottici del giovane Piero, questi fu subito scelto quale ordinatore, e comandante della IV Legione di Milizia mobile — dei fasti della quale parlano ancora i forti di Brondolo e di Malghera.

Caduta Venezia nell’agosto del 1849, Piero Correr, esule in Piemonte, avendo dato alla patria quasi tutto l’avito patrimonio, accettò, per vivere, un modesto impiego nell’amministrazione ferroviaria della nuova Italia.

Sorta l’alba del 1859, egli si recò a Milano quale Capo del Comitato Veneto, creato per assistere i suoi concittadini, e vagliare i titoli di coloro che avevano bene meritato dalla patria, sì nella difesa di Venezia del 1848-49, come nella campagna di guerra del 1859; e a Milano egli fu uno [p. 102 modifica]dei cooperatori più attivi della leggendaria spedizione garibaldina, ch’ebbe per risultato la pagina gloriosa di Marsala.

Il conte Piero Correr morì parecchi anni sono — crediamo a Bologna — ispettore ferroviario. Nessun laudatore, nessuna necrologia — che noi sappiamo — in tanto sciupìo di gonfiature apologetiche, ne ricordarono degnamente la storia! — Ed ecco perchè noi, che avemmo la sorte di conoscerlo da vicino in quei memorabili giorni, che abbiamo avuto l’onore di vederlo alla prova; noi, suoi vecchi amici e ammiratori, profittiamo di questo
Benedetto Cairoli.
capitolo — nel quale figurano quei valorosi suoi concittadini, venuti al mondo dopo di lui — per ricordarne almeno il nome, e mandare alla sua memoria un melanconico ma doveroso pensiero.

Non c’indugiamo sul nome di Benedetto Cairoli. Parlano troppo eloquentemente di lui le pagine più radiose della storia del risorgimento d’Italia, perchè noi ci permettiamo di portare il nostro povero grano di incenso dentro la cripta di Groppello, dove — lontani dalle miserie dell’oggi — dormono tranquilli i suoi resti venerati.

Ci fermiamo, invece, un momento, sul nome di Nicostrato Castellini. Il nome di quel temerario che incontrò allegramente la morte nel combattimento di Vezza il 4 luglio 1866. Egli era Capo di Stato Maggiore della Divisione Medici fino dai 1859. La sua fine gloriosa ci dispensa dal dire quale sia stata la sua azione durante la prima campagna, e in tutte le imprese garibaldine che si succedettero dal 1859 in poi.

Il Castellini, nel 1866, comandava il 2° Battaglione Bersaglieri; e aveva sotto i suoi ordini, come capitani: lo sventurato Antonio Frigerio — del quale parliamo più avanti — l’Antonio Oliva, che fu deputato, e Giulio Adamoli, oggi senatore, incaricato recentemente dal Governo italiano di sorvegliare non so quali interessi nel lontano Egitto. [p. 103 modifica]L’Adamoli, che qui pure riproduciamo in uniforme del bel tempo antico, porta sul petto una Medaglia d’argento al valor militare, guadagnata lo stesso giorno, e nello stesso combattimento che costò la morte al Castellini.

Il Bollettino Ufficiale delle ricompense speciali accordate da S. M. con Decreto 6 Decembre 1866, porta: — “2° Battaglione Bersaglieri. Adamoli Giulio, capitano: Medaglia d’argento al valor militare, per essere rimasto continuamente al fuoco, animando i soldati. Per l’abilità spiegata nel tentativo di occupazione di Vezza; e per essersi fermato ultimo a
Giulio Adamoli. cav. Nicostrato Castellini.
raccogliere i feriti, caricandoseli perfino sulle spalle, benchè colpito da una palla morta,„

Per quel fatto d’arme ebbero, altresì, la Croce dell’Ordine Militare di Savoja, l’Oliva; la Medaglia d’argento, il sottotenente Emilio Mantegazza, e la Menzione onorevole il capitano Giuseppe Micali, la cui azione valorosa, stando allo stesso Bollettino, avrebbe meritato qualche cosa di più.

Tornando al Castellini, ecco quello che il Bollettino diceva:

“2° Battaglione Bersaglieri. Castellini cavaliere Nicostrato, maggiore comandante. Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoja, per [p. 104 modifica]mirabile coraggio dimostrato al combattimento, ove rimase ucciso alla testa dei più animosi. — Vezza, 14 luglio 1866. Ed eccoci alla storia pietosa del capitano Antonio Frigerio.

È cosa nota come, dopo la campagna di guerra del 1859, alcuni giovani milanesi, ufficiali di cavalleria nell’esercito austriaco, scioltisi dal giuramento che li legava allo straniero, fecero ritorno in patria e chiesero di essere ammessi, col loro grado, nell’esercito italiano. Erano questi, se
Antonio Frigerio.
la memoria non ci tradisce, l’Antonio Frigerio, il Forcella, i due fratelli Marchesi de’ Taddei — uno de’ quali nel 1866 guadagnò, come vedremo, la Medaglia d’oro a Villafranca — e qualche altro.

È noto, anche, come quel ritorno serotino, mettesse allora sossopra gli ufficiali di cavalleria de’ reggimenti nei quali, i venuti dell’ultima ora erano stati destinati; danneggiando, per di più, nell’anzianità chi, per la patria, aveva dianzi arrischiata la pelle, contro quell’esercito del quale gli altri facevano parte.

Motivo per cui, i danneggiati, con un momentaneo atto di crudeltà, in parte giustificato, ricevettero i nuovi intrusi come tanti cani rabbiosi.

Antonio Frigerio, già ufficiale negli Ulani, dovette subire la sorte di tutti gli altri suoi compagni, in modo forse più violento. Messo, appena arrivato, come suol dirsi in contumacia, fatto segno giornalmente allo sprezzo ostentatamente espresso; fu trascinato, non a uno solo, ma a tre duelli!

Come poteva egli restare in Chiesa a dispetto dei Santi? Offeso, angosciato, ferito più nell’anima che nel corpo, assetato di provare all’Italia, il fondo dei suoi sentimenti, si dimise, e andò a cercare, nelle ospitali file garibaldine, amico rifugio e lavacro di sangue. Ed ebbe l’uno e l’altro!

Entrato nell’esercito dei volontari nel 1860, ufficiale colto, venne presto nominato Capo di Stato Maggiore della Brigata Eber.

Sette anni dopo, il Bollettino Ufficiale delle ricompense pubblicava:

— “Frigerio Antonio, capitano nel 2° Battaglione Bersaglieri. [p. 105 modifica]Medaglia d’argento al valor militare. Si distinse per coraggio nel combattimento, e cadde attaccando alla baionetta. — Vezza 14 luglio 1866.„

E chi sa quanti di quegli ufficiali che, sette anni prima, l’avevano crudelmente accolto, saputa la fine di quel bravo, non ne abbiano sentita una stretta di rimorso al cuore, e non abbiano esclamato, come noi esclamiamo:

— Povero Frigerio!


E a Vezza, ebbe campo di nuovamente segnalarsi, un altro fra i più brillanti e valorosi ufficiali di Garibaldi,
 
Giuseppe Missori.
il colonnello delle sue Guide, Giuseppe Missori.

Missori, uno dei cittadini che onorano Milano, di famiglia originaria dalle Russie — dove il suo nome di battesimo si traduceva in Ossa — finite le campagne di guerra, ripose nel cassetto la Medaglia d’oro al valore, guadagnata a Bezzecca; la collocò accanto alla Croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoja, guadagnata a Vezza, e, refrattario a qualunque seduzione, alieno da ogni vanità mondana — ben diverso in ciò da molti suoi compagni d’armi, che furono ricompensati con ogni ben di Dio — si ritrasse tranquillo e sereno a vita privata.

Repubblicano convinto, fiero de’ suoi principi — rispettabili, perchè lealmente e nobilmente professati — modesto, quasi sprezzante della sua gloria, oggi noi lo incontriamo per le vie di Milano come un pacifico cittadino che passa; ma chi lo conosce da vicino, ma chi sa la storia della sua vita di soldato, non può a meno di levarsi il cappello davanti a lui, invidiosi e ammirati della sua gloria, e, più ancora, del suo carattere adamantino.

Mettiamo accanto al ritratto del colonnello Missori — ancora verde e sano — quello di due altri benemeriti che non sono più: Giacomo Battaglia, Giuseppe Robecchi.

Del primo abbiamo a lungo parlato in altro nostro lavoro1, e ne [p. 106 modifica]
Giacomo Battaglia.
parliamo più avanti, accoppiandone il nome a quello del suo illustre compagno nella morte, al nobile Carlo De Cristoforis, caduto col Battaglia a San Fermo.

Qui, del Battaglia ci limitiamo a riprodurne l’effigie, tolta da un suo busto in marmo; l’unica che ci venne fatto di trovare, esumandola dalla raccolta di ritratti de’ volontari milanesi, conservata religiosamente nel nostro Museo del Risorgimento.

Giuseppe Robecchi! — Anco lui è uno di quei milanesi, i quali, e come cittadini e come soldati, consacrarono mente e braccio al bene e alla libertà della patria. Anco lui è uno di quei milanesi, i quali, fino dal primo giorno della riscossa nazionale, e durante la sua preparazione, diedero, alla grande causa, corpo ed anima.

Così, troviamo il Robecchi a Milano sulle barricate, accanto a Luciano Manara nel 1848. Lo vediamo poi far parte dei carabinieri milanesi del Simonetta, i quali, incorporati nell’esercito
 
Giuseppe Robecchi.
Sardo, si battono a Rivoli, a Sommacampagna, a Custoza, a Villafranca.

Riprese le ostilità nel 1849, ecco ancora Robecchi coll’armi in pugno alla difesa del Vascello a Roma. Assiste ivi alla morte di Luciano Manara e riesce a condurne a Milano le care e venerate spoglie.

Nel 1859, andò capitano nei Cacciatori delle Alpi, nelle quali file è segnalato come uno dei valorosi.

Legislatore, statista, amministratore nei consigli della sua città, prudente e saggio. Il 26 novembre 1884 è nominato senatore del Regno. Morì il 22 febbraio 1898.

Più, e meglio, di qualunque nostra [p. 107 modifica]parola di elogio, parlano di Giuseppe Robecchi, que’ cimeli che, con pensiero affettuoso e patriottico, donò la sua vedova al Museo del Risorgimento. Insegne di valore militare, segni di merito civile e politico, che formano la fulgida storia della vita di lui.


La triste sorte del capitano Antonio Frigerio, venuto in Italia dall’Esercito Austriaco solamente dopo il 1859 — per ragione dei contrari — ci porta col pensiero al nome di alcuni altri, i quali, pure al servizio dello straniero, al primo grido della madre patria, nel 1848, repentemente scossi e commossi, svestita l’assisa straniera, accorsero nelle città insorte — in Lombardia e a Venezia — portando
 
Carlo Sambucco.
alla patria il contributo del loro buon sangue italiano.

Furon parecchi; alcuni già noti nella storia militare e nei fasti di guerra, ma moltissimi rimasti ignoti, od obliati. Fra questi ci limitiamo a esumare i nomi del veneto Carlo Sambucco, e del bresciano Federico Rossi, impiccati in effigie dall’Austria; al primo de’ quali ci lega parentela di sangue, all’altro di affinità.

Carlo Sambucco, nato a Trento il 16 aprile 1812, era figlio di quell’Antonio Sambucco, capitano del primo Reggimento Fanteria Leggiera dell’armata Napoleonica, ferito a Capo di Ponte nel 1809, decorato della Legion d’Onore, e uno dei pochi superstiti della disastrosa campagna delle Russie.

Carlo, suo figlio, portato per eredità di sangue, al mestiere delle armi, si arruolò ancora giovanetto, il 20 ottobre 1827, come Cadetto nel Reggimento Barone Mayer, Fanteria N. 45. — Il 2 ottobre 1829 ebbe un avanzamento; e, nel 1831, veniva promosso Alfiere, mediante — così la Matricola — un deposito di 27 fiorini, e 22 soldi.... per tassa vestiario. Nel 1835 è promosso sottotenente, e tre anni dopo, prende parte a una campagna nel Montenegro. Nel 1842, passato Primo-tenente, viene destinato a comandante provinciale di Leva, nel Polesine.

Più tardi, di guarnigione a Vicenza, sposa il 29 luglio 1845, una figlia di caldi patriotti, Antonia Carolina de’ Bocchi, famiglia patrizia del Friuli, che lo fa padre di numerosa prole, oggi vivente a Torino. [p. 108 modifica]Carlo Sambucco aveva da poco raggiunto il grado di Capitano-tenente, quando, scoppiata a Venezia la rivoluzione, abbandonava improvvisamente il reggimento austriaco, e accorreva ad offrire e braccio e sangue a quel Governo Provvisorio che aveva in quei giorni proclamata, nella città, Regina dei mari, la repubblica.

Accolto in quelle schiere come capitano, venne subito addetto alla persona del comandante il forte del Lido.


La sacra fiamma di libertà, divampante in tutta Italia, scaldava in quei giorni, non solamente il sangue ai giovani, ma anche quello dei vecchi. Così che, mentre il figlio Carlo impugnava l’armi in difesa della libertà a Venezia, il vecchio e prode suo genitore, l’Antonio Sambucco, il quale aveva un comando nel nido delle antiche glorie napoleoniche, — nella Casa degli Invalidi a Padova — esponeva da quelle finestre il labaro dei Tre Colori, salutato dall’entusiasmo di tutto il popolo, ivi accorso acclamando.

Fu un atto ribelle pagato caro!

Al loro ritorno, gli austriaci — e si capisce — infuriati già dalla diserzione del figlio, mandarono il settantenne Antonio, per parecchi mesi in fortezza; gli sospesero la pensione, e non fu reintegrato nel grado e nella pensione, e nuovamente ammesso nella Casa degli Invalidi a Padova, che un mese dopo la caduta di Venezia, il settembre 1849.

Ma suo figlio Carlo, intanto, il 14 marzo di quello stesso anno, era stato promosso a maggiore nella Coorte dei Veliti, per merito di guerra.

Caduta Venezia nell’agosto del 1849, questi cercò rifugio nella ospitale Torino; dove, accolto fraternamente, ebbe un modesto impiego in quella amministrazione ferroviaria, raggiungendo poi il grado d’Ispettore, e dove rimase, amato e rispettato, fino all’ultimo giorno della sua vita. Morì a 75 anni, il 20 marzo 1887, cioè trentacinque anni dopo che, a Praga, veniva condannato per diserzione e alto tradimento, e che il suo nome era stato appeso alla forca!

La sua egregia consorte, forte carattere di donna, si spense, pure a Torino, l’anno 1903, nella grave età di 84 anni.



[p. 109 modifica]Federico Rossi, nato a Iseo l’8 aprile 1824, entrato come allievo nell’Istituto di Educazione militare, esistente allora a Milano, venne assegnato come soldato ex propriis, senza obbligo di ferma, al 44° Reggimento Fanteria di Linea, Arciduca Alberto, il 1° novembre 1839, cioè a quindici anni.

L’8 dicembre 1847, veniva nominato sottotenente di 1ª Classe; e, benchè anco a lui, come al Sambucco, si presentasse brillante la carriera nell’esercito austriaco, pure, allo scoppiare della rivoluzione, il suo
Federico Rossi.
buon sangue bresciano gli diede un patriottico tuffo; e il 23 marzo 1848, gittata la divisa straniera, accorse a Milano; dove quel Governo Provvisorio Lombardo, l’8 maggio dello stesso anno, lo nominava capitano del 1° Regg. di Linea.

Tre mesi dopo, venendo incorporato quel reggimento nell’Esercito Sardo, egli vi fu ammesso con anzianità di luogotenente. Collocato successivamente in aspettativa per scioglimento di quel Corpo, venne richiamato in servizio attivo, il 26 aprile 1852, nel 18° Reggimento Fanteria.

Il 12 agosto 1854, è nominato capitano, e assegnato al 12°.

L’anno 1854, il Rossi, prende parte alla spedizione di Crimea; e [p. 110 modifica]venuto il 1859, si batte valorosamente a S. Martino il 24 giugno, guadagnandosi la Medaglia d’argento al valor militare.

Nel 1861, 15 luglio, è promosso maggiore nel 16° Reggimento; poi, colonnello comandante il 46° nel 26 ottobre 1868.

Il 20 settembre 1870, la data memoranda della breccia di Porta Pia cambiata in un giorno di festa nazionale, il Rossi si segnalò all’attacco del convento di S. Pancrazio sotto il fuoco nemico, e guadagnò una Menzione Onorevole. Il Municipio di Roma conferì anco a lui la Medaglia commemorativa della sua liberazione.

Federico Rossi si segnalò anche nella bassa Italia, ad Ancona; e per l’attività e la intelligenza spiegate in ogni operazione, venne ivi decorato della Croce dei SS. Maurizio e Lazzaro.

Sul petto di quel bravo soldato brillavano dunque: due Medaglie al valore — una di argento e una di bronzo; la Medaglia di Crimea, quella commemorativa francese, quella della Unità d’Italia, e quelle delle guerre per la Indipendenza, con la bellezza di sei fascette — corrispondenti ad altrettante campagne di guerra — e cioè: 1848-59-60-61-66-70!

Alle onorificenze militari, egli aggiunse poi due Commende: la Mauriziana e quella della Corona d’Italia.

Maggiore generale nella Riserva, fu promosso a Tenente generale il 2 aprile 1895.

A Milano, il 6 luglio 1861, mentre egli era maggiore, contrasse matrimonio colla gentile signorina Giuditta Pirola, dalla quale ebbe numerosa discendenza: così che gli ultimi anni della vita di lui, furono rallegrati da una ridente corona.... dei figli propri, e dei figli dei propri figli. Morì il 28 giugno del 1895, due mesi dopo promosso a Tenente generale.


Saltando ora indietro circa un mezzo secolo — cioè al 17 febbraio 1852 — l’Austria aveva pubblicato un paterno Editto, col quale tendeva a richiamare gli ufficiali disertori del 1848. Editto che rimase lettera morta tanto per il Sambucco che per il Rossi.

Motivo per cui, essi, e con essi tutti coloro che avevano disertato le bandiere nel 1848, e che si trovavano emigrati in Piemonte, vennero colpiti da una condanna in contumacia, sanzionata a Praga il 13 agosto 1853 da quel grande stromento di giustizia ch’era il Feld-Maresciallo conte Radetzky.

Era una sentenza di morte per diserzione e per alto tradimento, che, come sappiamo, per molti colpiti — specialmente per certi pezzi grossi — divenne poi una specie di parodia politica.

Come curiosità storica, diamo qui, tradotto, un documento, che dobbiamo alla cortesia del D. Guido Rossi, figlio di Federico; conservando al documento la sua originale struttura. Eccolo:

[p. 111 modifica]Auditorato del Reggimento Fanti Arciduca Alberto N.° 44.

ESTRATTO DAL PROTOCOLLO PUNIZIONI DI GIUDIZIO

dei sottonominati individui stati condannati dal consiglio di guerra

N.° Nome e grado dell’arrestato Giorno dell’entrata Qualità del delitto Data della condanna Qualità della inflitta pena Se quella venne applicata, diminuita od intieramente condonata
11 Roberto Patrese
Capitano di Iª classe

L’editto di richiamo venne regolarmente pubblicato nelli 17 febbrajo 1852.

Delitto d’alto tradimento aggravato dalla Iª diserzione.

Budweis li 29 Gennajo 1853.

Kr. R.
Tutti quattro dimessi dal grado d’ufficiali che vestivano, ed appeso il loro nome alla forca.

Approvato da S. E. il Sig. Feldmaresciallo Conte Radetzky, Monza 20 Luglio 1853, ed eseguita in Praga il 25 Agosto 1853 previa pubblicazione
12 Eugenio Plantrù
Capitano di IIª Classe
13 Giovanni Felolo
Primotenente
14 Federico Rossi
Sottotenente

Innsbruck, 11 Febbrajo 1856.

Per la fedeltà della copia dell'Estratto

L. S. sottoscritto LANGER

NB. Traduz. fatta da Zanatta.

Note

  1. Penna e spada. Editore Hoepli.