Paralipomeni della Batracomiomachia/Canto Ottavo

Canto Ottavo

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Canto Settimo


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CANTO OTTAVO.



1


La ragion perchè i morti ebber sotterra
     L’albergo lor non m’è del tutto nota.
     Dei corpi intendo ben, perch’alla terra
     Riede la spoglia esanime ed immota;
     Ma lo spirto immortal ch’indi si sferra
     Non so ben perchè al fondo anche percota.
     Pur s’altre autorità non fosser pronte,
     Ciò la leggenda attesteria del conte.

2


Attonito a mirar lunga fiata
     La novità dell’infernal soggiorno
     Stette il buon Leccafondi, e dell’andata
     La cagione obbliava ed il ritorno:
     Ma Dedalo il riscosse, e rigirata
     Ch’ebbero in parte la montagna intorno,
     La bocca ritrovâr là dove a torme
     De’ topi estinti concorrean le forme.

     

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3


Ivi dinanzi all’inamabil soglia
     Di partir si convenne a’ due viventi,
     Per non poter, benchè n’avesse voglia.
     Dedalo penetrar fra’ topi spenti,
     Non sol vivendo, ma nè men se spoglia
     Anima andasse fra le morte genti:
     Che non cape pur mezza in quella porta
     La figura dell’uom viva nè morta.

4


Maggiori inferni e dalla sua statura
     Ben visitati avea l’uom forte e saggio,
     E vedutili, fuor nella misura,
     Conformi esser tra lor, di quel viaggio
     Predetta aveva al topo ogni avventura,
     Ch’or gli ridisse, e fecegli coraggio,
     E messol dentro al sempiterno orrore,
     Ad aspettarlo si fermò di fuore.

5


Io vidi in Roma su le liete scene
     Che il nome appresso il volgo han di Fiano,
     In una grotta ove sonar catene
     S’ode e un lamento pauroso e strano,
     Discender Cassandrin dalle serene
     Aure per forza con un lume in mano,
     Che con tremule note in senso audace
     Parlando, spegne per tremar la face.

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6


Poco altrimenti all’infernal discesa
     Posesi di Topaia il cavaliere,
     Salvo che non avea lucerna accesa,
     Ch’ai topi per veder non è mestiere;
     Nè minacciando gía, che in quella impresa
     Vedeva il minacciar nulla valere;
     E pur volendo, credo che a gran pena
     Bastata a questo gli saria la lena.

7


Tacito discendeva in compagnia
     Di molte larve i sotterranei fondi.
     Senza precipitar quivi la via
     Mena ai più ciechi abissi e più profondi.
     Can Cerbero latrar non vi s’udia,
     Sferze fischiar nè rettili iracondi.
     Non si vedevan barche e non paludi,
     Nè spiriti aspettar sull’erba ignudi.

8


Senza custode alcuno era l’entrata
     Ed aperta la via perpetuamente,
     Chè da persone vive esser tentata
     La non può mai che malagevolmente,
     E per l’uso de’ morti apparecchiata
     Fu dal principio suo naturalmente,
     Onde non è ragion farvisi altrui
     Ostacolo al calar ne’ regni bui.

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9


E dell’uscir di là nessun desio
     Provano i morti, se ben hanno il come;
     Che spiccato che fu de’ topi l’io
     Non si rappicca alle corporee some,
     E ritornando dall’eterno oblio
     Sanno ben che rizzar farian le chiome;
     E fuggiti da ognuno e maladetti
     Sarian per giunta da’ parenti stretti.

10


Premii nè pene non trovò nel regno
     De’ morti il conte, ovver di ciò non danno
     Le sue storie antichissime alcun segno.
     E maraviglia in questo a me non fanno;
     Che i morti aver quel ch’alla vita è degno,
     Piacere eterno ovvero eterno affanno,
     Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,
     Non che il prisco Israele, il dotto Omero.

11


Sapete che se in lui fu lungamente
     Creduta ritrovar questa dottrina,
     Avvenne ciò perchè l’umana mente
     Quei dogmi ond’ella si nutrì bambina
     Veri non crede sol, ma d’ogni gente
     Natii, quantunque antica o pellegrina.
     Dianzi in Omero errar di ciò la fama
     Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.

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12


Nè mai selvaggio alcun di premio o pene
     Destinate agli spenti ebbe sentore,
     Nè già dopo il morir delle terrene
     Membra l’alme credè viver di fuore,
     Ma palpitare ancor le fredde vene,
     E in somma non morir colui che more,
     Perch’un rozzo del tutto e quasi infante
     La morte a concepir non è bastante.

13


Però questa caduca e corporale
     Vita, non altra, e il breve uman viaggio,
     In modi e luoghi incogniti immortale
     Dopo il fato durar crede il selvaggio,
     E lo stato i sepolti anco aver tale
     Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
     Tali i bisogni, e non in parte alcuna
     Gli esercizi mutati o la fortuna.

14


Ond’ei sotterra con l’esangue spoglia
     Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
     Chiude le donne e i servi acciò non toglia
     Il sepolcro al defunto i suoi contenti,
     Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
     Arte ch’egli adoprasse appartenenti,
     Massime se il destin gli avea prescritto
     Che con la man si procacciasse il vitto.

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15


E questo è quello universal consenso
     Che in testimon della futura vita
     Con eloquenza e con sapere immenso
     Da dottori gravissimi si cita,
     D’ogni popol più rozzo e più milenso,
     D’ogni mente infingarda e inerudita:
     Il non poter nell’orba fantasia
     La morte immaginar che cosa sia.

16


Son laggiù nel profondo immense file
     Di seggi ove non può lima o scarpello;
     Seggono i morti in ciaschedun sedile
     Con le mani appoggiate a un bastoncello,
     Confusi insiem l’ignobile e il gentile
     Come di mano in man gli ebbe l’avello
     Poi ch’una fila è piena, immantinente
     Da più novi occupata è la seguente.

17


Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
     Se visto avete mai qualche pittura
     Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
     O statua antica in qualche sepoltura
     Gotica, come dice il volgo indotto,
     Di quelle che a mirar fanno paura,
     Con le facce allungate e sonnolenti
     E l’altre membra pendule e cadenti,

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18


Pensate che tal forma han per l’appunto
     L’anime colaggiù nell’altro mondo;
     E tali le trovò poi che fu giunto
     Il topo nostro eroe nel più profondo.
     Tremato sempre avea fino a quel punto
     Per la discesa, il ver non vi nascondo;
     Ma come vide quel funereo coro
     Per poco non restò morto con loro.

19


Forse con tal, non già con tanto orrore,
     Visto avete in sua carne ed in suoi panni
     Federigo secondo imperatore
     In Palermo giacer da secent’anni
     Senza naso nè labbra, e di colore
     Quale il tempo può far con lunghi danni,
     Ma col brando alla cinta e incoronato,
     E con l’imago della terra allato.

20


Poscia che dal terror con gran fatica
     A poco a poco ritornato il conte
     Oso fu di mirar la schiera antica
     Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
     Cercando se fra lor persona amica
     Riconoscesse alle fattezze conte,
     Gran tempo andò con le pupille errando
     Di cotanti nessun raffigurando.

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21


Sì mutato d’ognuno era il sembiante,
     E sì tra lor conformi apparian tutti,
     Che a gran pena gli venne in sul davante
     Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,
     Rubatocchi e poche altre anime sante
     Di cari amici suoi testè distrutti:
     A cui principalmente il sermon volto,
     Narrò perchè a cercarli avesse tolto.

22


Ma gli convenne incominciar dal primo
     Assalto che dai granchi ebbero i suoi,
     Novo agli scesi anzi quel tempo all’imo
     Essendo quel che occorso era da poi.
     Ben ciascun giorno dal terrestre limo
     Discendon topi al mondo degli eroi,
     Ma non fan motto, chè alla gente morta
     Questa vita di qua niente importa.

23


Narrato ch’ebbe alla distesa il tutto,
     La tregua, il novo prence e lo statuto,
     Il brutto inganno de' nemici, e il brutto
     Galoppar dell’esercito barbuto,
     Addimandò se la vergogna e il lutto
     Ove il popol de’ topi era caduto
     Sgombro sarebbe per la man de’ molti
     Collegati da lui testè raccolti.

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24


Non è l’estinto un animal risivo,
     Anzi negata gli è per legge eterna
     La virtù per la quale è dato al vivo
     Che una sciocchezza insolita discerna,
     Sfogar con un sonoro e convulsivo
     Atto un prurito della parte interna.
     Però, del conte la dimanda udita,
     Non risero i passati all’altra vita.

25


Ma primamente a lor su per la notte
     Perpetua si diffuse un suon giocondo,
     Che di secolo in secolo alle grotte
     Più remote pervenne insino al fondo.
     I destini tremâr non forse rotte
     Fosser le leggi imposte all’altro mondo,
     E non potente l’accigliato eliso,
     Udito il conte, a ritenere il riso.

26


Il conte, ancor che la paura avesse
     De’ suoi pensieri il principal governo,
     Visto poco mancar che non ridesse
     Di sè l’antico tempo ed il moderno,
     E tutto per tener le non concesse
     Risa sudando travagliar l’inferno,
     Arrossito saria, se col rossore
     Mostrasse il topo il vergognar di fuore.

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27


E confuso e di cor tutto smarrito,
     Con voce il più che si poteva umile,
     E in atto ancor dimesso e sbigottito,
     Mutando al dimandar figura e stile,
     Interrogò gli spirti a qual partito
     Appigliar si dovesse un cor gentile
     Per far dell’ignominia ov’era involta
     La sua stirpe de’ topi andar disciolta.

28


Come un liuto rugginoso e duro
     Che sia molti anni già muto rimaso,
     Risponde con un suon fioco ed oscuro
     A chi lo tenta o lo percota a caso,
     Tal con un profferir torbo ed impuro
     Che fean mezzo le labbra e mezzo il naso,
     Rompendo del tacer l’abito antico
     Risposer l’ombre a quel del mondo aprico.

29


E gli ordinâr che riveduto il sole
     Di penetrar fra’ suoi trovasse via,
     Chè poi ch’entrar della terrestre mole
     Potea nel cupo, anche colà potria;
     Ivi in pensieri, in opre ed in parole
     Seguisse quel che mostro gli saria
     Per lavar di sua gente il disonore
     Dal general di nome Assaggiatore.

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30


Era questi un guerrier canuto e prode,
     Che per senno e virtù pregiato e culto
     D’un vano perigliar la vana lode
     Fuggia, vivendo a più potere occulto,
     Trattar le ciance come cose sode
     A genti di cervel non bene adulto
     Lasciando, e sotto non superbo tetto
     Schifando del servaggio il grave aspetto.

31


Infermo egli a giacer s’era trovato
     Quando il granchio alle spalle ebbero i suoi,
     Ed a congiure sceniche invitato
     Chiusi sempre gli orecchi avea di poi,
     Onde cattivo cittadin chiamato
     Era talor dai fuggitivi eroi,
     Ed ei tranquillo in sua virtù, la poco
     Saggia natura altrui prendeva in gioco.

32


Tale oracolo avuto, alle superne
     Contrade i passi ritorceva il conte,
     Scritto portando delle valli inferne
     Lo spavento negli atti e nella fronte.
     Qual di Trofonio già nelle caverne
     Agli arcani di Stige e d’Acheronte
     Ammesso il volgo, in sull’aperta riva
     Pallido e trasformato indi reddiva.

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33


Presso alla soglia dell’avaro speco
     Dedalo ritrovò che l’attendeva,
     E poi ch’alquanto ragionando seco
     Di quel che dentro là veduto aveva,
     Riposato si fu sotto quel cieco
     Vel di nebbia che mai non si solleva,
     Rassettatesi l’ali in sulla schiena
     Con lui di novo abbandonò l’arena.

34


Riviver parve al semivivo, escito
     Che fu del buio a riveder le stelle.
     Era notte e splendean per l’infinito
     Oceán le volubili facelle;
     Leggermente quel mar che non ha lito
     Sferzavan l’auree fuggitive e snelle,
     E s’andava a quel suono accompagnando
     Il rombo che color facean volando.

35


Rapido sì che non cedeva al vento,
     Ver Topaia drizzâr subito il volo,
     Portando l’occhio per seguire intento
     I due lumi ch’ha sempre il nostro polo.
     D’isole sparso il liquido elemento
     Scoprian passando, e sull’oscuro suolo
     Volare allocchi e più d’un pipistrello
     Che al topo s’accostò come fratello.

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36


Valiche l’acque, valicâr gran tratto
     Di terra ferma ed altro mar di poi,
     E così come prima avevan fatto
     La parte rivarcâr che abitiam noi.
     Già di rincontro a lor nasceva, e ratto
     Si spandeva il mattin sui monti eoi,
     Quando là di Topaia accanto al sasso
     Chinàr Dedalo e il conte i vanni al basso.

37


Quivi non visti, rintegrâr le dome
     Forze con bacco e con silvestri ghiande.
     Poscia Dedalo, avuta io non so come
     Una pelle di granchio in quelle bande,
     L’altro coprì delle nemiche some,
     Tal che parve di poi tra le nefande
     Bestie un granchio più ver che appresso i Franchi
     Non paion delle donne i petti e i fianchi.

38


Alfin del conte alle onorate imprese
     Fausto evento pregando e fortunato,
     L’ospite e duce e consiglier cortese
     Partendosi da lui prese commiato.
     Piangeva il topo, e con le braccia stese
     Cor gli giurava eternamente grato.
     Quei l’abbracciò come poteva, e solo
     Poi verso il nido suo riprese il volo.

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39


L’esule a rientrar nella dolente
     Città non fe dimora, e poi che l’ebbe
     Con gli occhi intorno affettuosamente
     Ricorsa, e con gli orecchi avido bebbe
     Le patrie voci, a quel che alla sua gente
     Udito avea che lume esser potrebbe,
     Senza punto indugiarsi andò diritto,
     Dico al guerrier di cui più sopra è scritto.

40


A conoscer si diede, e qual desire
     Il movesse a venir fece palese.
     Quegli onorollo assai, ma nulla udire
     Volle di trame o di civili imprese.
     Cercollo il conte orando ammorbidire,
     Ma tacque il volo e l’infernal paese,
     Perchè temè da quel guerrier canuto
     Per visionario e sciocco esser tenuto.

41


Più volte l’instancabile oratore
     Or solo ed or con altra compagnia
     Tornato era agli assalti, ed a quel core
     Aperta non s’aveva alcuna via.
     Ultimamente un dì che Assaggiatore
     Con più giovani allato egli assalia,
     Quei ragionò tra lor nella maniera
     Che di qui recitar creduto io m’era.

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42


Perchè, se ben le antiche pergamene,
     Dietro le quali ho fino a qui condotta
     La storia mia, qui mancano, e se bene
     Per tal modo la via m’era interrotta,
     La leggenda che in quella si contiene
     Altrove in qual si fosse lingua dotta
     Sperai compiuta ritrovar: ma vôto
     Ritornommi il pensiero e contro il vóto

43


Questa in lingua sanscrita e tibetana
     Indostanica, pahli e giapponese,
     Arabica, rabbinica, persiana,
     Etiopica, tartara e cinese,
     Siriaca, caldaica, egiziana,
     Mosogotica, sassone e gallese,
     Finnica, serviana e dalmatina,
     Valacca, provenzal, greca e latina,

44


Celata in molte biblioteche e molte
     Di levante si trova e di ponente,
     Che vidi io stesso, o che per me rivolte
     Fur da più d’un amico intelligente.
     Ma di tali scritture ivi sepolte
     Nessuna al caso mio valse niente,
     Chè non v’ha testo alcun della leggenda
     Ove più che nel nostro ella si stenda.

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45


Però con gran dolor son qui costretto
     Troncando abbandonar la istoria mia,
     Tutti mancando in fin, siccome ho detto,
     I testi, qual che la cagion si sia:
     Come viaggiator, cui per difetto
     Di cavalli o di rote all’osteria
     Restar sia forza, o qual nocchiero intento
     Al corso suo, cui venga meno il vento.

46


Voi, leggitori miei, l’involontario
     Mancamento imputar non mi dovete.
     Se mai perfetto in qualche leggendario
     Troverò quel che in parte inteso avete,
     Al narrato dinanzi un corollario
     Aggiungerò, se ancor legger vorrete.
     Paghi del buon desio restate intanto,
     E finiscasi qui l’ottavo canto.


il fine.