Pamela/Atto I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Personaggi | Atto II | ► |
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Pamela a sedere a un picciolo tavolino, cucendo qualche cosa di bianco.
Madama Jevre1 filando della bavella sul mulinello.
Jevre. Pamela, che avete2 voi, che piangete?
Pamela. Piango sempre, quando mi ricordo della3 povera mia padrona.
Jevre. Vi lodo, ma sono tre mesi che è morta.
Pamela. Non me ne scorderò mai. Sono una povera giovane, figlia d’un padre povero, che colle proprie braccia coltiva le terre che gli somministrano il pane. Ella mi ha fatto passare dallo stato misero allo stato comodo; dalla coltura d’un orticello all’onor di essere sua cameriera. Mi ha fatto istruire, mi ha seco allevata, mi amava, mi voleva sempre vicina; e volete ch’io me ne scordi? Sarei troppo ingrata, e troppo immeritevole di quella sorte che il cielo mi ha benignamente concessa.
Jevre. È vero; la padrona vi voleva assai bene, ma voi, per dirla, meritate di essere amata. Siete una giovane savia, virtuosa e prudente. Siete adorabile.
Pamela. Madama Jevre, voi mi mortificate.
Jevre. Ve lo dico di cuore. Sono ormai vent’anni che ho l’onore di essere al servizio di questa casa, e di quante cameriere sono qui capitate, non ho veduta la più discreta di voi.
Pamela. Effetto della vostra bontà, madama, che sa compatire i miei difetti.
Jevre. Voi fra le altre prerogative avete quella d’uno spirito così pronto, che tutto apprende con facilità.
Pamela. Tutto quel poco ch’io so, me l’ha insegnato la mia padrona.
Jevre. E poi, Pamela mia, siete assai bella.
Pamela. Voi mi fate arrossire.
Jevre. Io v’amo come mia4 figlia.
Pamela. Ed io vi rispetto come una madre.
Jevre. Sono consolatissima che voi, non ostante la di lei morte, restiate in casa con noi.
Pamela. Povera padrona! Con che amore mi ha ella raccomandata a Milord suo figlio! Pareva che negli ultimi respiri di vita non sapesse parlar che di me. Quando me ne rammento, non posso trattenere le lagrime.
Jevre. Il vostro buon padrone vi ama, non meno della defunta sua genitrice.
Pamela. Il cielo lo benedica, e gli dia sempre salute.
Jevre. Quando prenderà moglie, voi sarete la sua cameriera.
Pamela. Ah! (sospira)
Jevre. Sospirate? Perchè?
Pamela. Il cielo dia al mio padrone tutto quello ch’egli desidera.
Jevre. Parlate di lui con una gran tenerezza.
Pamela. Come volete ch’io parli di uno che mi assicura della mia fortuna?
Jevre. Quand’egli vi nomina, lo fa sempre col labbro ridente.
Pamela. Ha il più bel cuore del mondo.
Jevre. E sapete ch’egli ha tutta la serietà, che si conviene a questa nostra nazione.
Pamela. Bella prerogativa è il parlar poco e bene.
Jevre. Pamela, trattenetevi, che ora torno. (si alza)
Pamela. Non mi lasciate lungamente senza di voi.
Jevre. Vedete, il fuso è pieno. Ne prendo un altro, e subito qui ritorno.
Pamela. Non vorrei che mi trovasse sola il padrone.
Jevre. Egli è un cavaliere onesto.
Pamela. Egli è uomo.
Jevre. Via, via, non vi date a pensar male. Ora torno.
Pamela. S’egli venisse, avvisatemi.
Jevre. Sì, lo farò. (M’entra un pensiero nel capo. Pamela parla troppo del suo padrone. Me ne saprò assicurare). (da sè, parte)
SCENA II.
Pamela sola.
Ora che non vi è madama Jevre, posso piangere liberamente. Ma queste lagrime ch’io spargo, sono tutte per la mia defunta padrona? Io mi vorrei lusingare di sì, ma il cuore tristarello mi suggerisce di no. Il mio padrone parla spesso di me; mi nomina col labbro ridente. Quando m’incontra con l’occhio, non lo ritira sì presto; m’ha dette delle parole ripiene di somma bontà. E che vogl’io lusingarmi perciò? Egli mi fa tutto questo per le amorose parole della sua cara madre. Sì, egli lo fa per questa sola ragione; che se altro a far ciò lo movesse, dovrei subito allontanarmi da questa casa, salvarmi fra le braccia degli onorati miei genitori, e sagrificare la mia fortuna alla mia onoratezza5. Ma giacchè ora son sola, voglio terminare di scrivere la lettera, che mandar destino a mio padre. Voglio farlo esser a parte, unitamente alla mia cara madre, delle mie contentezze: assicurarli che la fortuna non m’abbandona; che resto in casa, non ostante la morte della padrona; e che il mio caro padrone mi tratta con tanto amore, quanto faceva la di lui madre. Tutto ciò è già scritto; non ho d’aggiungere, se non che mando loro alcune ghinee, lasciatemi dalla mia padrona per sovvenire ai loro bisogni, (cava di lasca un foglio piegato e dal cassettino del tavolino il calamaio, e si pone a scrivere) Quanto vedrei volentieri i miei amorosissimi genitori! Almen mio padre venisse a vedermi. È un mese ch’ei mi lusinga di farlo, e ancora non lo vedo. Finalmente la distanza non è che di venti miglia.
SCENA III.
Milord Bonfil e detta.
Bonfil. (Cara Pamela! Scrive). (da sè, in distanza)
Pamela. Sì, sì, spero verrà. (scrivendo)
Bonfil. Pamela.
Pamela. (Si alza) Signore? (s’inchina)
Bonfil. A chi scrivi?
Pamela. Scrivo al mio genitore.
Bonfil. Lascia vedere.
Pamela. Signore... Io non so scrivere.
Bonfil. So che scrivi bene.
Pamela. Permettetemi... (vorrebbe ritirar la lettera)
Bonfil. No; voglio vedere.
Pamela. Voi siete il padrone. (gli dà la lettera)
Bonfil. (Legge piano.)
Pamela. (Oimè! Sentirà ch’io scrivo di lui. Anossisco in pensarlo). (da sè)
Bonfil. (Guarda Pamela leggendo, e ride.) Pamela. (Ride o di me6, o della lettera). (da sè)
Bonfil. (Fa come sopra.)
Pamela. (Finalmente non dico che la verità). (da sè)
Bonfil. Tieni. (rende a Pamela la lettera)
Pamela. Compatitemi.
Bonfil. Tu scrivi perfettamente.
Pamela. Fo tutto quello ch’io so.
Bonfil. Io sono il tuo caro padrone.
Pamela. Oh signore, vi dimando perdono, se ho scritto di voi con poco rispetto.
Bonfil. Il tuo caro padrone ti perdona e ti loda.
Pamela. Siete la stessa bontà.
Bonfil. E tu sei la stessa bellezza.
Pamela. Signore, con vostra buona licenza, (s’inchina per partire)
Bonfil. Dove vai?
Pamela. Madama Jevre mi aspetta.
Bonfil. Io sono il padrone.
Pamela. Vi obbedisco.
Bonfil. Tieni. (le presenta un anello)
Pamela. Cos’è questo, signore?
Bonfil. Non lo conosci? Quest’anello era di mia madre.
Pamela. E vero. Che volete ch’io ne faccia?
Bonfil. Lo terrai per memoria di lei.
Pamela. Oh, le mie mani non portano di quelle gioje.
Bonfil. Mia madre a te l’ha lasciato.
Pamela. Non mi pare, signore, non mi pare.
Bonfil. Pare a me. Lo dico. Non si replica. Prendi l’anello.
Pamela. E poi...
Bonfil. Prendi l’anello. (alterato)
Pamela. Obbedisco. (lo prende, e lo tiene stretto in mano)
Bonfil. Ponilo al dito.
Pamela. Non andrà bene.
Bonfil. Rendimi quell’anello. Pamela. Eccolo. (glielo rende)
Bonfil. Lascia vedere la mano.
Pamela. No, signore.
Bonfil. La mano, dico, la mano. (alterato)
Pamela. Oimè!
Bonfil. Non mi far adirare.
Pamela. Tremo tutta. (si guarda d’intorno, e gli dà la mano)
Bonfil. Ecco, ti sta benissimo. (le mette l’anello in dito)
Pamela. (Parte, coprendosi il volto col grembiale.)
Bonfil. Bello è il rossore, ma è incomodo qualche volta. Jevre. (chiama)
SCENA IV.
Madama Jevre e detto.
Jevre. Eccomi.
Bonfil. Avete veduta Pamela?
Jevre. Che le avete fatto, che piange?
Bonfil. Un male assai grande. Le ho donato un anello.
Jevre. Dunque piangerà d’allegrezza.
Bonfil. No; piange per verecondia.
Jevre. Questa sorta di lagrime in oggi si usa poco.
Bonfil. Jevre, io amo Pamela.
Jevre. Me ne sono accorta.
Bonfil. Vi pare che Pamela lo sappia?
Jevre. Non so che dire; ho qualche sospetto7.
Bonfil. Come parla di me?
Jevre. Con un rispetto che par tenerezza.
Bonfil. Cara Pamela! (ridente)
Jevre. Ma è tant’onesta, che non si saprà niente di più.
Bonfil. Parlatele.
Jevre. Come?
Bonfil. Fatele sapere ch’io le voglio bene.
Jevre. La governatrice vien rimunerata col titolo di mezzana?
Bonfil. Non posso vivere senza Pamela.
Jevre. La volete sposare?
Bonfil. No.
Jevre. Ma dunque cosa volete da lei?
Bonfil. Che mi ami, come io l’amo.
Jevre. E come l’amate?
Bonfil. Orsù, trovate Pamela. Ditele che l’amo, che voglio essere amato. Fra un’ora al più v’attendo colla risposta. (parte)
Jevre. Fra un’ora al più? Sì, queste sono cose da farsi così su due piedi! Ma che farò? Parlerò a Pamela? Le parlerò in favor di Milord, o per animarla ad esser savia e dabbene? Se disgusto il padrone, io perdo la mia fortuna; se lo secondo, faccio un opera poco onesta. Ci penserò; troverò forse la via di mezzo, e salverò, potendo, l’onore dell’una, senza irritare la passione dell’altro8. (parte)
SCENA V.
Pamela sola.
Oh caro anello!9 Oh quanto mi saresti più caro, se dato non mi ti avesse il padrone! Ma se a me dato non l’avesse il padrone, non mi sarebbe sì caro. Egli acquista prezzo più dalla mano che me lo porse, che dal valor della gioja. Ma se chi me l’ha dato è padrone, ed io sono una povera serva, a che prò lo riceverò?10 Amo che me l’abbia dato il padrone, ma non vorrei ch’egli fosse padrone. Oh fosse egli un servo come io sono, o foss’io una dama, com’egli è cavaliere! Che mai mi converrebbe meglio desiderare? In lui la viltà, o in me la grandezza? Se lui desidero vile, commetto un’ingiustizia al suo merito; se bramo in me la grandezza, cado nel peccato dell’ambizione. Ma non lo bramerei per la vanità del grado. So io il perchè, lo so io... Ma sciocca che sono! Mi perdo a coltivare immagini più stravaganti11 dei sogni. Penso a cose che mi farebbero estremamente arrossire, se si sapessero i miei pensieri. Sento gente. Sarà madama Jevre.
SCENA VI.
Bonfil dalla porta comune, e detta.
Pamela. (Oimè! Ecco il padrone). (da sè)
Bonfil. (Sono impaziente). (da sè) Pamela, avete veduto madama Jevre?
Pamela. Da che vi lasciai, non l’ho veduta.
Bonfil. Doveva parlarvi.
Pamela. Sono pochi momenti che da voi, signore, mi licenziai.
Bonfil. Dite, che siete da me fuggita. Mi scordai di dirvi una cosa importante.
Pamela. Signore, permettetemi che io chiami madama Jevre.
Bonfil. Non c’è bisogno di lei.
Pamela. Ah signore! Che volete che dica il mondo?
Bonfil. Non può il padrone trattare colla cameriera di casa?
Pamela. In casa vostra non istò bene.
Bonfil. Perchè?
Pamela. Perchè non avete dama, a cui io abbia a servire.
Bonfil. Senti, Pamela, miledi Daure12 mia sorella vorrebbe che tu andassi al suo servizio. V’andresti di buona voglia?
Pamela. Signore, voi potete disporre di me.
Bonfil. Voglio sapere la tua volontà.
Pamela. Si contenterà ella della poca mia abilità? Miledi è delicata, ed io sono avvezza a servire una padrona indulgente.
Bonfil. Per quel ch’io sento, non ci anderesti contenta.
Pamela. (Convien risolvere). (da sè) Sì signore, vi anderò contentissima.
Bonfil. Ed io non voglio che tu ti allontani dalla mia casa.
Pamela. Ma per qual causa?
Bonfil. Mia madre ti ha lasciata in custodia mia.
Pamela. Se vado con una vostra sorella, non perdo l’avvantaggio della vostra protezione.
Bonfil. Mia sorella è una pazza.
Pamela. Perchè dunque, perdonatemi, me l’avete proposta?
Bonfil. Per sentir ciò che mi rispondevi.
Pamela. Potevate esser sicuro che avrei detto di sì.
Bonfil. Ed io mi lusingava che mi dicessi di no.
Pamela. Per qual ragione, signore?
Bonfil. Perchè sai ch’io ti amo.
Pamela. Se questo è vero, signore, andrò più presto a servire vostra sorella.
Bonfil. Crudele, avresti cuore13 di abbandonarmi?
Pamela. Voi parlate in una maniera che mi fa arrossire e tremare.
Bonfil. Pamela, dammi la tua bella mano.
Pamela. Non l’avrete più certamente.
Bonfil. Ardirai contradirmi?
Pamela. Ardirò tutto, pel mio decoro14.
Bonfil. Son tuo padrone.
Pamela. Sì, padrone, ma non di rendermi sventurata.15
Bonfil. Meno repliche; dammi la mano.
Pamela. Madama Jevre? (chiama forte)
Bonfil. Chetati.
Pamela. M’accheterò, se partite.
Bonfil. Impertinente! (s’avvia verso la porta comune)
Pamela. Lode al cielo, egli parte.
Bonfil. (Chiude la porta, e torna da Pamela.)
Pamela. (Cielo, aiutami). (da sè)
Bonfil. Chi son io, disgraziata? Un demonio che ti spaventa?
Pamela. Siete peggio assai di un demonio, se m’insidiate l’onore.
Bonfil. Via, Pamela, dammi la mano.
Pamela. No certamente.
Bonfil. La prenderò tuo malgrado.
Pamela. Solleverò i domestici colle mie strida.
Bonfil. Tieni, Pamela, eccoti cinquanta ghinee. Fanne quello che vuoi.
Pamela. La mia onestà vale più che tutto l’oro del mondo.
Bonfil. Prendile, dico.
Pamela. Non fia mai vero.
Bonfil. Prendile, fraschetta, prendile; che, giuro al cielo, mi sentirai bestemmiare.
Pamela. Le prenderò con un patto, che mi lasciate dire alcune16 parole senza interrompermi.
Bonfil. Sì, parla.
Pamela. Mi lascierete voi dire?
Bonfil. Te lo prometto.
Pamela. Giuratelo.
Bonfil. Da cavaliere.
Pamela. Vi credo; prendo le cinquanta ghinee, e sentite ciò che sono costretta a dirvi.
Bonfil. (Dica ciò che sa dire. Ella è nelle mie mani). (da sè)
Pamela. Signore, io sono una povera serva, voi17 siete il mio padrone. Voi18 cavaliere, io nata sono una misera donna; ma due cose eguali abbiam noi, e sono queste la ragione e l’onore. Voi non mi darete ad intendere d’aver alcuna autorità sopra l’onor mio; poichè la ragione m’insegna esser questo un tesoro indipendente da chi che sia. Il sangue nobile è un accidente della fortuna; le azioni nobili caratterizzano il grande. Che volete, signore, che dica il mondo di voi, se vi abbassate cotanto con una serva? Sostenete voi in questa guisa il decoro della nobiltà? Meritate voi quel rispetto che esige la vostra nascita? Parlereste voi forse col linguaggio degli uomini scapestrati?19 Direste coi discoli: l’uomo non disonora se stesso, disonorando una povera donna? Tutte le male azioni disonorano un cavaliere, e non può darsi azion più nera, più indegna, oltre quella d’insidiare l’onore di una fanciulla. Che cosa le potete voi dare in compenso del suo decoro? Denaro? Ah vilissimo prezzo, per un inestimabil tesoro! Che massime indegne di voi! Che minacce indegne di me! Tenete il vostro denaro20, denaro infame, denaro indegno, che vi lusingava esser da me anteposto all’onore. (pone la borsa sul tavolino) Signore, il mio discorso eccede la brevità21, ma non eccede la mia ragione. Tutto è poco quel che io dico e quel che dir posso, in confronto della delicatezza dell’onor mio; che però preparatevi a vedermi morire, prima che io ceda ad una minima ombra di disonore. Ma oh Dio! Farmi che le mie parole facciano qualche impressione sul vostro bellissimo cuore. Finalmente siete un cavaliere ben nato, gentile ed onesto: e malgrado l’accecamento della vostra passione, avete poi a comprendere ch’io penso più giustamente di voi; e forse forse voi arrossirete di aver sì malamente pensato di me, e godrete ch’io abbia favellato sì francamente con voi. Milord, ho detto. Vi ringrazio che mi abbiate sì esattamente mantenuta la vostra parola. Ciò mi fa sperare che abbiate, in virtù forse delle mie ragioni, cambiato di sentimento. Lo voglia il cielo, ed io lo prego di cuore. Queste massime delle quali ho parlato, questi sentimenti coi quali mi reggo e vivo, sono frutti principalmente della dolcissima disciplina della vostra genitrice defunta; ed è forse opera della bell’anima, che mi ascolta, il rimorso del vostro cuore, il riscuotimento della vostra virtù, la difesa della mia preziosa onestà. (si avvia verso la porta della sua camera)
Bonfil. (Resta sospeso senza parlare.)
Pamela. (Cielo; aiutami. Se posso uscire, felice me). (apre ed esce)
Bonfil. (Resta ancora sospeso, poi si pone a passeggiare senza dir nulla; indi siede pensieroso.)
SCENA VII.
Jevre e detto.
Jevre. Signore.
Bonfil. Andate via. (alterato)
Jevre. È qui, signore...
Bonfil. Levatemivi dagli occhi. (come sopra)
Jevre. Vado. (La luna è torbida). (da sè, va per partire)
Bonfil. Ehi. (chiama)
Jevre. Signore. (da lontano)
Bonfil. Venite qui.
Jevre. Eccomi.
Bonfil. Dov’è andata Pamela?
Jevre. Parmi che sinora sia stata qui.
Bonfil. Sì, inutilmente.
Jevre. E che cosa vi ho da far io?
Bonfil. Cercatela; voglio sapere dov’è.
Jevre. La cercherò, ma è qui Miledi vostra sorella.
Bonfil. Vada al diavolo.
Jevre. Non la volete ricevere?
Bonfil. No.
Jevre. Ma cosa le ho da dire?
Bonfil. Che vada al diavolo.
Jevre. Sì sì, già ella e il diavolo22 credo che si conoscano.
Bonfil. Ah Jevre, Jevre, trovatemi la mia Pamela.
Jevre. Pamela è troppo onesta per voi.
Bonfil. Ah! che Pamela è la più bella creatura di questo mondo.
Jevre. Lasciatela stare, povera ragazza, lasciatela stare.
Bonfil. Trovatemi la mia Pamela, la voglio.
Jevre. Vi dico ch’è onesta, che morirà piuttosto...
Bonfil. Io non le voglio far verun male.
Jevre. Ma! la volete sposare?
Bonfil. Che tu sia maledetta. La voglio vedere.
Jevre. (In atto di partire, senza parlare.)
Bonfil. Dove vai? Dove vai?
Jevre. Da poco in qua siete diventato un diavolo ancora voi.
Bonfil. Ah Jevre, fatemi venire Pamela.
Jevre. In verità, che mi fate pietà.
Bonfil. Sì, sono in uno stato da far pietà.
Jevre. Io vi consiglierei a fare una cosa buona.
Bonfil. Sì, cara mia, ditemi, a che mi consigliereste?
Jevre. a far che Pamela andasse a star con vostra sorella.
Bonfil. Diavolo, portati questa indegna! Vattene, o che ti uccido.
Jevre. (Corda, corda). (da sè, fugge via)
Bonfil. Maledetta! Maledetta! Vent’anni di servizio l’hanno resa temeraria a tal segno. (smania alquanto, poi s’acquieta) Ma Jevre non dice male. Quest’amore non è per me. Sposarla? Non mi conviene. Oltraggiarla? Non è giustizia. Che farò dunque? Che mai farò? (siede pensoso, e si appoggia al tavolino)
SCENA VIII.
Miledi Daure e detto.
Miledi. Milord, perchè non mi volete ricevere?
Bonfil. Se sapete che non vi voglio ricevere, perchè siete venuta?
Miledi. Parmi che una sorella possa prendersi questa libertà.
Bonfil. Bene, sedete, se vi aggrada.
Miledi. Ho da parlarvi.
Bonfil. Lasciatemi pensare, mi parlerete poi.
Miledi. (Siede) (Mio fratello ha il cuore oppresso. Assolutamente Pamela lo ha innamorato.23 Se mai sognar mi potessi, che costei avesse a recar disonore alla casa, la vorrei strozzare colle mie mani. Convien rimediarci assolutamente). (da sè) Milord.
Bonfil. Non ho volontà di parlare.
Miledi. (Voglio24 prenderlo colle buone). (da sè)
SCENA IX.
Monsieur Villiome e detti.
Villiome. (Entra senza parlare, s’accosta al tavolino; presenta due lettere a Milord. Egli le legge, e le sottoscrive; Villiome le riprende, e vuol partire.)
Miledi. Segretario. (a Villiome)
Villiome. Miledi25.
Miledi. Che cosa26 sono quei fogli?
Villiome. Perdonate27, i segretari non parlano. (parte)
Miledi. (Sarà meglio che io me ne vada. A pranzo gli parlerò), (da sè) Milord, addio. (si alza)
Bonfil. Che volevate voi dirmi?
Miledi. È giunto in Londra il Cavalier mio nipote.
Bonfil. Sì? me ne rallegro.
Miledi. Fra poco verrà a visitarvi.
Bonfil. Lo vedrò volentieri.
Miledi. Il giro d’Europa l’ha reso disinvolto e brillante.
Bonfil. Ammirerò i suoi profitti.
Miledi. (parmi alquanto rasserenato. Voglio28 arrischiarmi a parlar di Pamela). (da sè) Ditemi, fratello amatissimo, vi siete ancora determinato a concedermi per cameriera Pamela? Che dite? Avete delle difficoltà? Pamela è una buona fanciulla; nostra madre29 l’amava, ed io ne terrò conto egualmente. Voi non ne avete bisogno. Una giovine come lei non istà bene in casa con un padrone che non ha moglie. Piuttosto quando sarete ammogliato, se vi premerà, ve la darò volentieri. Che ne dite, Milord? Siete contento? Pamela verrà a star meco30?
Bonfil. Sì. Pamela verrà a stare con voi.
Miledi. Posso dunque andarla a sollecitare, perchè si disponga a venir meco?
Bonfil. Sì, andate.
Miledi. (Vado subito, prima ch’egli si penta). (da sè, e parte)
Bonfil. Questo sforzo è necessario alla nobiltà del mio sangue. Ah! che mi sento morire. Cara Pamela, e sarà vero che non ti veda più meco? (pensa un poco, e poi chiama) Ehi.
SCENA X.
Isacco e detto.
Isacco. (Entra e s’inchina, senza parlare.)
Bonfil. Il maggiordomo.
Isacco. (Con una riverenza parte.)
Bonfil. Non v’è altro rimedio. Per istaccarmi costei dal cuore, me n’anderò.
SCENA XI.
Monsieur Longman e detto.
Longman. Signore?
Bonfil. Voglio andare alla contea31 di Lincoln.
Longman. Farò provvedere.
Bonfil. Voi verrete meco.
Longman. Come comandate.
Bonfil. Verranno Gionata e Isacco.
Longman. Sì signore.
Bonfil. Dite a madama Jevre, che venga ella pure.
Longman. Verrà anche Pamela?
Bonfil. No.
Longman. Poverina! Resterà qui sola?
Bonfil. Ah buon vecchio, vi ho capito. Pamela non vi dispiace.
Longman. (Ah, se non avessi questi capelli canuti!) (da sè)
Bonfil. Pamela se n’andrà.
Longman. Dove?
Bonfil. Con Miledi mia sorella.
Longman. Povera sventurata!
Bonfil. Perchè sventurata?
Longman. Miledi Daure? Ah! Sapete chi è.
Bonfil. Ma che ne dite? Pamela non è gentile?
Longman. È carina, carina.
Bonfil. È una bellezza particolare.
Longman. Ah, se non fossi sì vecchio...32
Bonfil. Andate.
Longman. Signore, non la sagrificate con Miledi.
Bonfil. Andate. (alterato)
Longman. Vado.
Bonfil. Preparate.
Longman. Sì signore. (parte)
SCENA XII.
Milord Bonfil, poi Isacco.
Bonfil. Tutti amano Pamela, ed io non la dovrò amare? Ma il mio grado... Che grado? Sarò nato nobile, perchè la nobiltà mi abbia a rendere sventurato? Pamela val più d’un regno, e se fossi un re33, amerei Pamela più della mia corona. Ma l’amo tanto, ed ho cuor di lasciarla? Mi priverò della cosa più preziosa di questa terra? La cederò a mia sorella? Partirò per non più vederla? (Resta un poco sospeso, e poi dice) No, no; giuro al cielo, no, no. Non sarà mai.
Isacco. Signore.
Bonfil. Cosa vuoi?
Isacco. Vi è milord Artur.
Bonfil. (Sta un pezzo senza rispondere, poi dice) Venga. (Isacco parte) Non sarà mai, non sarà mai.
SCENA XIII.
Milord Artur e detto, poi Isacco.
Artur. Milord.
Bonfil. (Si alza e lo saluta) Sedete.
Artur. Perdonate, se io vengo a recarvi incomodo.
Bonfil. Voi mi onorate.
Artur. Non vorrei aver troncato il corso dei vostri pensieri.
Bonfil. No, amico. In questo punto bramava anzi una distrazione.
Artur. Vi farò un discorso, che probabilmente sarà molto distante dal pensiere che vi occupava.
Bonfil. Vi sentirò volentieri. Beviamo il tè. Ehi. Isacco. Signore?
Bonfil. Porta il tè. (Isacco vuol partire) Ehi, porta il rak34. (Isacco via) Lo beveremo col rak.
Artur. Ottima bevanda per lo stomaco.
Bonfil. Che avete a dirmi?
Artur. I vostri amici, che vi amano, bramerebbono di vedervi assicurata la successione.
Bonfil. Per compiacerli mi converrà prender moglie?
Artur. Sì, Milord. La vostra famiglia è sempre stata lo splendore di Londra, il decoro del Parlamento. Gli anni passano. Non riserbate alla sposa l’età men bella. Chi tardi si marita, non vede sì facilmente l’avanzamento de’ suoi figliuoli.
Bonfil. Finora sono stato nemico del matrimonio.
Artur. Ed ora come pensate?
Bonfil. Sono agitato da più pensieri.
Artur. Due partiti vi sarebbero opportuni per voi. Una figlia di milord Pakum, una nipote di milord Rainmur.
Bonfil. Per qual ragione le giudicate per me?
Artur. Sono ambe ricchissime.
Bonfil. La ricchezza non è il mio nume.
Artur. Il sangue loro è purissimo.
Bonfil. Ah, questa è una grande prerogativa! Caro amico, giacchè avete la bontà d’interessarvi per me, non vi stancate di parlar meco.
Artur. In questa sorta di affari le parole non si risparmiano.
Bonfil. Ditemi sinceramente: credete voi che un uomo nato nobile, volendo prender moglie, sia in necessità35 di sposar una dama?
Artur. Non dico già che necessariamente ciascun debba farlo; ma tutte le buone regole insegnano, che così deve farsi36.
Bonfil. E queste regole non sono soggette a veruna eccezione?
Artur. Sì, non vi è regola, che non patisca eccezione.
Bonfil. Suggeritemi in qual caso, in qual circostanza, sia permesso all’uomo nobile sposare una che non sia nobile.
Artur. Quando il cavaliere sia nobile, ma di poche fortune, e la donna ignobile sia molto ricca.
Bonfil. Cambiar la nobiltà col denaro? È un mercanteggiare con troppa viltà.
Artur. Quando il cavaliere onorato ha qualche obbligazione verso la men nobile onesta.
Bonfil. Chi prende moglie per obbligo, è soggetto a pentirsi.
Artur. Quando un cavaliere privato può facilitarsi la sua fortuna, sposando la figlia d’un gran ministro.
Bonfil. Non si deve sagrificare la nobiltà ad una incerta fortuna.
Artur. Quando il cavaliere fosse acceso delle bellezze37 d’una giovine onesta
Bonfil. Ah Milord, dunque l’uomo nobile può sposar per affetto una donna che non sia nobile?
Artur. Sì, lo può fare, ed abbiam vari esempi di chi l’ha fatto, ma non sarebbe prudenza il farlo.
Bonfil. Non sarebbe prudenza il farlo? Ditemi: in che consiste la prudenza dell’uomo?
Artur. Nel vivere onestamente: nell’osservare le leggi: nel mantenere il proprio decoro.
Bonfil. Nel vivere onestamente: nell’osservare le leggi: nel mem tenere il proprio decoro. Se un cavaliere sposa una figlia di bassa estrazione, ma di costumi nobili, savi e onorati, offende egli l’onestà?
Artur. No certamente. L’onestà conservasi in tutti i gradi.
Bonfil. Favoritemi; con tal matrimonio manca egli all’osservanza di alcuna legge?
Artur. Sopra ciò si potrebbe discorrere.
Bonfil. Manca alla legge della natura?
Artur. No certamente. La natura è madre comune, ed ama ella indistintamente i suoi figli, e della loro unione indistintamente è contenta.
Bonfil. Manca alle leggi del buon costume?
Artur. No, perchè anzi deve essere libero il matrimonio, e non si può vietarlo fra due persone oneste che si amano.
Bonfil. Manca forse alle leggi del Foro?
Artur. Molto meno. Non v’è legge scritta, che osti ad un tal matrimonio.
Bonfil. Dunque su qual fondamento potrebbe raggirarsi il discorso, per formare obbietto alla libertà di farlo, senza opporsi alla legge?
Artur. Sul fondamento della comune opinione.
Bonfil. Che intendete voi per questa comune opinione?
Artur. Il modo di pensare degli uomini.
Bonfil. Gli uomini per lo più pensano diversamente. Per uniformarsi all’opinione degli uomini, converrebbe variar pensiero con quanti si ha occasione di trattare. Da ciò ne proverrebbe la volubilità, l’incostanza, l’infedeltà, cose peggiori molto all’osservanza della propria opinione.
Artur. Amico, voi dite bene, ma convien fare dei sagrifizi per mantenere il proprio decoro.
Bonfil. Mantenere il proprio decoro? Quest’è il terzo articolo da voi propostomi dell’umana prudenza. Vi supplico. Un cavaliere che sposa una povera onesta, offende egli il proprio decoro?
Artur. Pregiudica alla nobiltà del suo sangue.
Bonfil. Spiegatevi. Come può un matrimonio cambiar il sangue nelle vene del cavaliere?
Artur. Ciò non potrei asserire.
Bonfil. Dunque qual è quel sangue a cui si pregiudica?
Artur. Quello che si tramanda nei figli.
Bonfil. Ah, mi avete mortalmente ferito.
Artur. Milord, parlatemi con vera amicizia, sareste voi veramente nel caso?
Bonfil. Caro amico, i figli che nascessero da un tal matrimonio, non sarebbero nobili?
Artur. Lo sarebbero dal lato del padre.
Bonfil. Ma non è il padre, non è l’uomo quello che forma la nobiltà?
Artur. Amico, vi riscaldate sì fortemente, che mi fate sospettare sia la questione fatta unicamente per voi.
Bonfil. (Si ammutolisce.)
Artur. Deh, apritemi il vostro cuore; svelatemi la verità, e studierò di darvi quei consigli che crederò opportuni, per porre in quiete l’animo vostro.
Bonfil. (Vada Pamela con Miledi). (da sè)
Artur. Molte ragioni si dicono in astratto sopra le massime generali, le quali poi variamente si adattano alle circostanze de’ casi. La nobiltà ha più gradi; al di sotto della nobiltà vi sono parecchi ordini38, i quali forse non sarebbero da disprezzarsi. Mi lusingo che a nozze vili39 non sappian tendere le vostre mire.
Bonfil. (Anderò alla contea di Lincoln). (da sè)
Artur. Se mai qualche beltà lusinghiera tentasse macchiare colla viltà delle impure sue fiamme la purezza del vostro sangue...
Bonfil. Io non amo una beltà lusinghiera. (con isdegno)
Artur. Milord, a rivederci. (si alza)
Bonfil. Aspettate, beviamo il tè. Ehi.
SCENA XIV40.
Isacco e detti.
Isacco. Signore.
Bonfil. Non t’ho io ordinato il tè?
Isacco. Il credenziere non l’ha preparato.
Bonfil. Bestia, il tè, bestia! Il rak, animalaccio, il rak!
Isacco. Ma signore....
Bonfil. Non mi rispondere, che ti rompo il capo. (Isacco parte, e poi torna)
Artur. (Milord è agitato). (da sè)
Bonfil. Sediamo.
Artur. Avete voi veduto il cavaliere Emold?
Bonfil. No, ma forse verrà stamane a vedermi.
Artur. Sono cinque anni che viaggia. Ha fatto tutto il giro dell’Europa.
Bonfil. Il più bello studio che far possa un uomo nobile, è quello di vedere il mondo.
Artur. Sì41, chi non esce dal suo paese, vive pieno di pregiudizi.
Bonfil. Vi sono di quelli che credono non vi sia altro mondo che la loro patria.
Artur. Col viaggiare i superbi diventano docili.
Bonfil. Ma qualche volta i pazzi impazziscono più che mai.
Artur. Certamente; il mondo è un bel libro, ma poco serve a chi non sa leggere. (Isacco, col tè ed il rak e varie chicchere, entra e pone tutto sul tavolino: Bonfil versa il tè, ponendovi lo zucchero e poi il rak, e ne dà una tazza ad Artur; una ne prende per sè, e bevono.)
Isacco. Signore. (a Bonfil)
Bonfil. Che c’è?
Isacco. Milord Curbrech e il cavaliere Ernold vorrebbero riverirvi.
Bonfil. Passino. (Isacco parte)
Artur. Vedremo che profitto avrà fatto il nostro viaggiatore.
Bonfil. Se non avrà acquistata prudenza, avrà approfittato poco.
SCENA XV.
Milord Curbrech, e Isacco che porta la sedia, poi parte; e detti.
Curbrech. Milord.
Bonfil. Milord.
Artur. Amico.
Bonfil. Favorite, bevete con noi. (a Curbrech)
Curbrech. Il tè non si rifiuta.
Artur. È bevanda salutare..
Bonfil. Volete rak? (a Curbrech)
Curbrech. Sì, rak.
Bonfil. Ora vi servo. Dov’è il Cavaliere? (gli empie la chicchera, e gliela dà)
Curbrech. È restato da Miledi sua zia. Ora viene.
Artur. Com’è riuscito il Cavaliere dopo i suoi viaggi?
Curbrech. Parla troppo.
Bonfil. Male.
Curbrech. È pieno di mondo.
Bonfil. Di mondo buono, o di mondo cattivo?
Curbrech. V’ha dell’uno e dell’altro.
Bonfil. Mescolanza pericolosa.
Artur. Eccolo.
Curbrech. Vedetelo, come ha l’aria francese.
Bonfil. L’aria di Parigi non è sempre buona42 per navigare il canale di Londra.
SCENA XVI.
Il cavaliere Ernold, ed Isacco che accomoda un’altra sedia, e detti.
Ernold. Milord Bonfil, milord Artur, cari amici, miei buoni amici, vostro servitor di buon cuore. (con aria brillante)
Bonfil. Amico, siate il benvenuto. Accomodatevi.
Artur. Mi rallegro vedervi ritornato alla patria.
Ernold. Mi ci vedrete per poco.
Artur. Per qual causa?
Ernold. In Londra non ci posso più stare. Oh bella cosa il viaggiare! Oh dolcissima cosa il variar paese, il variare nazione! Oggi qua, domani là. Vedere i magnifici trattamenti, le splendide corti, l’abbondanza delle merci, la quantità del popolo, la sontuosità delle fabbriche. Che volete che io faccia in Londra?
Artur. Londra non è città, che ceda il luogo sì facilmente ad un’altra.
Ernold. Eh perdonatemi, non sapete nulla. Non avete veduto Parigi, Madrid, Lisbona, Vienna, Roma, Firenze, Milano, Venezia. Credetemi, non sapete nulla.
Bonfil. Un viaggiatore prudente non disprezza mai il suo paese. Cavaliere, volete il tè?
Ernold. Vi ringrazio, ho bevuto la cioccolata. In Ispagna si beve della cioccolata preziosa. Anche in Italia quasi comunemente si usa, ma senza vainiglia, o almeno con pochissima, e sopra ogni altra città, Milano ne porta il vanto. A Venezia si beve il caffè squisito. Caffè d’Alessandria vero, e lo fanno a maraviglia. A Napoli poi conviene cedere la mano per i sorbetti. Hanno de’ sapori squisiti; e quello ch’è rimarcabile per la salute, sono lavorati con la neve, e non col ghiaccio. Ogni città ha la sua prerogativa, Vienna per i gran trattamenti, e Parigi, oh il mio caro Parigi poi, per la galanteria, per l’amore 43! Che bel conversare senza sospetti! Che bell’amarsi senza larve di gelosia! Sempre feste, sempre giardini, sempre allegrie, passatempi, tripudi. Oh che bel mondo! Oh che bel mondo! Oh che piacere, che passa tutti i piaceri del mondo!
Bonfil. Ehi. (chiama)
Isacco. Signore.
Bonfil. Porta un bicchiere d’acqua al Cavaliere.
Ernold. Perchè mi volete far portare dell’acqua?
Bonfil. Temo che il parlar tanto v’abbia disseccata la gola.
Ernold. No, no, risparmiatevi questa briga. Da che son partito da Londra, ho imparato a parlare.
Bonfil. S’impara più facilmente a parlar che a tacere.
Ernold. A parlar bene non s’impara così facilmente.
Bonfil. Ma chi parla troppo, non può parlar sempre bene.
Ernold. Caro Milord, voi non avete viaggiato.
Bonfil. E voi mi fate perdere il desio di viaggiare.
Ernold. Perchè?
Bonfil. Perchè temerei anch’io d’acquistare dei pregiudizi.
Ernold. Pregiudizio rimarcabile è l’ostentazione che alcuni fanno di una serietà rigorosa. L’uomo deve essere sociabile, ameno. Il mondo è fatto per chi sa conoscerlo, per chi sa prevalersi de’ suoi onesti piaceri. Che cosa44 volete fare di questa vostra malinconia? Se vi trovate in conversazione, dite dieci parole in un’ora; se andate a passeggiare, per lo più vi compiacete d’essere soli; se fate all’amore, volete essere intesi senza parlare; se andate al teatro, ove si fanno le opere musicali, vi andate per piangere, e vi alletta solo il canto patetico, che dà solletico all’ipocondria. Le commedie inglesi sono critiche, instruttive, ripiene di bei caratteri e di buoni sali, ma non fanno ridere. In Italia almeno si godono allegre45 e spiritose commedie. Oh se vedeste che bella maschera è l’Arlecchino! E un peccato, che46 in Londra non vogliano i nostri Inglesi soffrir la maschera sul teatro. Se si potesse introdune nelle nostre commedie l’Arlecchino, sarebbe la cosa più piacevole di questo mondo. Costui rappresenta un servo goffo ed astuto nel medesimo tempo. Ha una maschera assai ridicola, veste un abito di più colori, e fa smascellar dalle risa. Credetemi, amici, che se lo vedeste, con tutta la vostra serietà sareste sforzati a ridere. Dice delle cose spiritosissime. Sentite alcuni de’ suoi vezzi che ho ritenuti in memoria. Invece di dir padrone, dirà poltrone. In luogo di dir dottore, dirà dolore. Al cappello, dirà campanello. A una lettera, una lettiera.47 Parla sempre di mangiare, fa l’impertinente con tutte le donne. Bastona terribilmente il padrone....
Artur. (Si alza) Milord, amici, a rivederci. (parte)
Ernold. Andate via?48 Ora me ne sovviene una bellissima, per la quale è impossibile trattenere il riso. Arlecchino una sera in una sola commedia, per ingannare un vecchio che chiamasi Pantalone, si è trasformato in un moro49, in una statua movibile, e in uno scheletro, e alla fine d’ogni sua furberia regalava il buon vecchio di bastonate.
Curbrech. (Si alza) Amico, permettetemi. Non posso più. (parte)
Ernold. Ecco quel che50 importa il non aver viaggiato, (a Bonfil)
Bonfil. Cavaliere, se ciò vi fa ridere, non so che pensare di voi. Non mi darete ad intendere, che in Italia gli uomini dotti, gli uomini di spirito ridano di simili scioccherie. Il riso è proprio dell’uomo, ma tutti gli uomini non ridono per la stessa cagione. V’è il ridicolo nobile, che ha origine dal vezzo delle parole, dai sali arguti, dalle facezie spiritose e brillanti. Vi è il riso vile, che nasce dalla scurrilità, dalla scioccheria. Permettetemi ch’io vi parli con quella libertà, con cui può parlarvi un congiunto51, un amico. Voi avete viaggiato prima del tempo. Era necessario che ai vostri viaggi faceste precedere i migliori studi. L’istoria, la cronologia, il disegno, le matematiche, la buona filosofia, sono le scienze più necessarie ad un viaggiatore. Cavaliere, se voi le aveste studiate prima di uscir di Londra, non avreste fermato il vostro spirito nei trattamenti di Vienna, nella galanteria di Parigi, nell’Arlecchmo d’Italia. (parte)
Ernold. Milord non sa che si dica; parla così, perchè non ha viaggiato, (parte)
SCENA XVII.
Pamela sola.
Tutti i momenti ch’io resto in questa casa, sono oramai colpevoli e ingiuriosi alla mia onestà. Il mio padrone ha rilasciato il freno alla sua passione. Egli mi perseguita, e mi conviene fuggire. Oh Dio! E possibile ch’ei52 non possa mirarmi, senza pensare alla mia rovina? Dovrò partire da questa casa, dove ho principiato a gustare i primi doni della fortuna? Dovrò lasciare madama Jevre, che mi ama come una figlia? Non vedrò più monsieur Longman, quell’amabile vecchio53 che io venero come padre? Mi staccherò dalle serve, dai servitori di questa famiglia, che mi amano come fratelli? Oh Dio! Lascierò un sì gentile padrone, un padrone ripieno di tante belle virtù? Ma no, il mio padrone non è più virtuoso; egli ha cambiato il cuore; è divenuto un uomo brutale, ed io lo devo fuggire. Lo fuggirò con pena, ma pure lo fuggirò. Se Miledi continua a volermi, io starò seco finche potrò. Renderò di tutto avvisato mio padre, e ad ogni evento andrò a vivere con esso lui54 nella nativa mia povertà. Sfortunata Pamela! Povero il mio padrone! (piange)
SCENA XVIII.
Monsieur Longman e detta.
Longman. Pamela.
Pamela. Signore.
Longman. Piangete forse?
Pamela. Ah pur troppo!
Longman. Le vostre lagrime mi piombano sul cuore.
Pamela. Siete pur buono; siete pur amoroso!
Longman. Cara Pamela, siete pur adorabile!
Pamela. Ah monsieur Longman, non ci vedremo più!
Longman. Possibile?
Pamela. Il mio padrone mi manda a servire Miledi sua sorella.
Longman. Con Miledi, cara Pamela, non ci starete.
Pamela. Andrò a star con mio padre.
Longman. In campagna?
Pamela. Sì, in campagna, a lavorare i terreni.
Longman. Con quelle care manine?
Pamela. Bisogna uniformarsi al destino.
Longman. (Mi muove a pietà). (da sè, piange)
Pamela. Che avete che piangete?
Longman. Ah Pamela! Piango per causa vostra.
Pamela. Il cielo benedica il vostro bel cuore. Deh, fatemi questa grazia. Incamminatemi questa lettera al paese de miei genitori.
Longman. Volentieri; fidatevi di me, che anderà sicura. Ma oh Dio! E avete cuore di lasciarci?
Pamela. Credetemi, che mi sento morire.
Longman. Ah fanciulla55 mia!...
Pamela. Che volete voi dirmi?
Longman. Son troppo vecchio.
Pamela. Siete tanto più venerabile.
Longman. Ditemi, cara, prendereste marito?
Pamela. Difficilmente lo prenderei?
Longman. Perchè difficilmente?
Pamela. Perchè il mio genio non s’accorda colla mia condizione.
Longman. Se vi aveste a legare col matrimonio, a chi inclinereste voi?
Pamela. Sento gente. Sarà Madama Jevre.
Longman. Pamela, parleremo di ciò con più comodo.
Pamela. Può essere che non ci resti più tempo di farlo.
Longman. Perchè?
Pamela. Perchè forse avanti sera me n’anderò.
Longman. Non risolvete così a precipizio.
Pamela. Ecco Miledi con madama Jevre.
Longman. Pamela, non partite senza parlare con me.
Pamela. Procurerò di vedervi.
Longman. (Ah se avessi vent’anni di meno!) (da sè) A rivederci, figliuola.
Pamela. Il cielo vi conservi sano.
Longman. Il cielo vi benedica. (parte)
Pamela. Povero vecchio! Mi ama veramente di cuore. Anche il padrone mi ama. Ah che differenza di amare! Monsieur Longman mi ama con innocenza; il padrone mi ama per rovinarmi. Oimè! Quando uscirò da questa casa fatale?
SCENA XIX.
Miledi, madama Jevre e detta.
Miledi. Pamela.
Pamela. Signora.
Miledi. Finalmente Milord mio fratello accorda che tu venga a stare con me. Preparati, che or ora ti condurrò meco colla carrozza.
Pamela. (Oimè!) (da sè) Poco vi vuole a prepararmi.
Miledi. Ci verrai volentieri?
Pamela. Ascriverò a mia fortuna l’onor di servirvi.
Miledi. Assicurati, che ti vorrò bene.
Pamela. Sarà effetto della vostra bontà.
Jevre. (Povera Pamela!) (da sè, piange)
Pamela. Madama, che avete voi, che piangete? (a Jevre)
Jevre. Cara Pamela, non posso vedervi da me partire, senza piangere amaramente.
Pamela. Spero che la mia padrona permetterà, che venghiate qualche volta a vedermi.
Jevre. E voi non verrete da me?
Pamela. No, madama, non ci verrò.
Jevre. Ma perchè, cara, perchè?
Pamela. Perchè non voglio abbandonare la mia padrona.
Miledi. Se tu sarai amorosa meco, io sarò amorosa con te.
Pamela. Vi servirò con tutta la mia attenzione.
Miledi. Via dunque. Pamela, andiamo. Madama Jevre ti manderà poscia i tuoi abiti e la tua biancheria.
Pamela. Son rassegnata a obbedirvi. (Oh Dio!) (piange
Miledi. Che hai? Tu piangi?
Pamela. Madama Jevre, vi ringrazio della bontà che avete avuta per me. Il cielo vi rimeriti tutto il bene che mi avete fatto. Vi domando perdono, se qualche dispiacere vi avessi dato. Vogliatemi bene, e pregate il cielo per me.
Jevre. Oh Dio! Mi si spezza il cuore, non posso più.
Miledi. Pamela, più che stai qui, più ti tormenti. Andiamo, che in casa mia avrai motivo di rallegrarti. È venuto mio nipote, dopo un viaggio di cinque anni. Egli è pieno di brio; egli è affabile con chicchessia; ha condotto seco dei servitori di varie nazioni; e dopo la sua venuta, la mia casa pare trasportata in Parigi.
Pamela. Spero che il Cavaliere vostro nipote non avrà a domesticarsi con me.
Miledi. Orsù andiamo, non perdiamo inutilmente il tempo.
Jevre. Non volete restare a pranzo con vostro fratello?
Miledi. No, mi preme condune a casa Pamela.
Pamela. Signora, che dirà il mio padrone, se parto così villanamente senza baciargli la mano?
Miledi. Vieni meco, passeremo dal suo appartamento.
Jevre. Eccolo, ch’egli viene alla volta nostra.
Pamela. (Oh Dio! Tremo tutta, il sangue mi si gela nelle vene56). (da sè)
SCENA XX.
Milord Bonfil e dette.
Bonfil. Miledi, che fate voi in queste camere?
Miledi. Son venuta a sollecitare Pamela.
Bonfil. Che volete far voi di Pamela?
Miledi. Condurla meco.
Bonfil. Dove?
Miledi. Non me l’avete voi concessa per cameriera?
Bonfil. Pamela non ha da uscire di casa mia.
Miledi. Come! Mi mancate voi di parola?
Bonfil. Io non mi prendo soggezione di mia sorella.
Miledi. Una sorella, ch’è moglie d’un cavaliere, deve essere rispettata come una dama.
Bonfil. Prendete la cosa come vi piace. Pamela non deve uscire di qui.
Miledi. Pamela deve venire con me.
Bonfil. Va nella tua camera. (a Pamela)
Pamela. Signore...
Bonfil. Va nella tua camera, ti dico, che giuro al cielo vi ti farò condurre per forza.
Miledi. Eh Milord, se non avrete rispetto....
Bonfil. Se non avrete prudenza, ve ne farò pentire. (a Miledi) Va in camera, che tu sia maledetta. (a Pamela, con isdegno)
Pamela. Madama Jevre, aiutatemi.
Jevre. Signore, per carità.
Bonfil. Andate con lei.
Jevre. Con Pamela?
Bonfil. Sì, con lei nella sua camera. Animo, con chi parlo?
Jevre. Pamela, andiamo; non lo facciamo adirar d’avvantaggio57.
Pamela. Se venite voi, non ricuso d’andarvi. (a Jevre)
Jevre. Signore, facciamo il vostro volere. (a Bonfil)
Pamela. Obbedisco a’ vostri comandi, (s’inchina, ed entra con Jevre)
Bonfil. (Ah Pamela, sei pur vezzosa!) (da sè)
Miledi. Fratello, ricordatevi dell’onore della vostra famiglia.
Bonfil. (S'accosta alla camera dov’è andata Pamela).
Miledi. Che? Andate voi nella camera con Pamela? Mi farete vedere su gli occhi miei le vostre debolezze? Giuro al cielo!
Bonfil. (Serra per di fuori colla chiave la camera ov’è Pamela, e si ripone la chiave in tasca).
Miledi. Assicurate la vostra bella, perchè non vi venga involata? Milord, pensate a voi stesso, non vi ponete a rischio di precipitare così vilmente.
Bonfil. (Senza abbadare alla sorella, parte.)
Miledi. Così mi lascia? Così mi tratta? Fa di me sì bel conto! Non son chi sono, se non mi vendico. Sa molto bene Milord che nati siamo entrambi di un medesimo sangue. Lo sdegno che in lui predomina, non è inferior nel mio seno; e s’egli mi tratta con un indegno disprezzo, mi scorderò ch’egli mi sia fratello, e lo tratterò da nemico. Pamela o ha da venire con me, o ha da lasciare la vita. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Nelle edd. anteriori all’ed. Pasquali (I, 1761) questo nome si trova stampato Jeure.
- ↑ Ed. Bettinelli: fate.
- ↑ Bett.: la.
- ↑ Bett.: una.
- ↑ Bett.: preziosa onestà.
- ↑ Così l’ed. Zatta. Bettinelli: Ride? O di me ecc. Paperini: Ride! o di me ecc. Pasquali: Ride. O di me ecc.
- ↑ Bett.: ho i miei dubbi.
- ↑ Bett.: e salverò, potendo, la capra e i cavoli.
- ↑ Bett. aggiunge: Oh caro!
- ↑ Bett. e Paper, ecc.: lo ricevo?
- ↑ Bett. e Pap.: disperate.
- ↑ Nei Mèmoires, II, c. 9 , l’autore scrive Dauvre.
- ↑ Bett.: avresti cuore, crudele.
- ↑ Bett.: per tutelare la mia onestà.
- ↑ Segue in Bett.; «Bonf. Sei una sciocca. Pam. Sono una fanciulla onorata. Bonf. Meno repliche ecc.»
- ↑ Bett. e Pap.: alcune brevi.
- ↑ Bett.: e voi.
- ↑ Bett.: Voi siete.
- ↑ Bett.: de’ scapestrati?
- ↑ Nell’ed. Bettin. segue qui subito la didascalia: (pone la borsa ecc.).
- ↑ Bett.: la promessavi brevità.
- ↑ Bett.: già il diavolo e lei.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: Conosco il suo carattere. Egli è vero Inglese, quando si fissa, non v’è rimedio.
- ↑ Bett.: Conviene.
- ↑ Bett. e Pap.: madama.
- ↑ Bett.: Cosa.
- ↑ Bett.: Perdonatemi, madama.
- ↑ Bett.: Vuò.
- ↑ Bett. e Pap.: è una buona ragazza; mia madre.
- ↑ Bett.: a stare con me?
- ↑ Bett.: baronia.
- ↑ Bett. e Pap. hanno solo un punto esclamativo.
- ↑ Bett. e Pap.: se fossi re.
- ↑ Bett.: l’arac; Pap. e Pasq. in questa sola scena: il rach.
- ↑ Bett. e Pap.: abbia necessità.
- ↑ Bett.: che così si faccia.
- ↑ Zatta: dalla bellezza.
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: Il buon Cittadino vi si accosta assai bene. Il mercante onorato non è partito da disprezzarsi.
- ↑ Bett.: che a gradi più inferiori di questi.
- ↑ Il numero delle scene di qui in poi è errato nelle edd. Bett. e Pap.
- ↑ Bett.: Certo.
- ↑ Bett.: non è buona.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: è il giardino di Europa e la reggia del mondo.
- ↑ Bettin. e Paper.: Che diavolo.
- ↑ Bett.: delle allegre.
- ↑ Bett.: Peccato che.
- ↑ Queste piacevolezze si ritrovano nelle commedie dell’ab. Chiari, che si rappresentavano nel teatro di S. Samuele.
- ↑ ancano queste due parole nell’ed. Bett.
- ↑ Alludesi alla commedia dell’arie intitolata le Trasformazioni d’Arlecchino, o ad altra che furoreggiava allora a Venezia.
- ↑ Bett.: Ecco cosa.
- ↑ Bett. e Pap: un congiunto di sangue.
- ↑ Bett.: Possibile ch’ei.
- ↑ Bett. e Pap.: vecchierello.
- ↑ Bett.: seco lui.
- ↑ Bett. e Pap.: ragazza.
- ↑ Bett.: in seno.
- ↑ Bett.: irritare di più.