Oro incenso e mirra/Cristo alla festa di Purim

Cristo alla festa di Purim

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La notte di Natale Testa o lettera?


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CRISTO ALLA FESTA DI PURIM


Pioveva.

Nella piccola trattoria, vuota a quell’ora, i quattro giovani seduti all’ultimo tavolo in fondo, con dinanzi un fiasco di Chianti ancora intatto, parevano pensosi; uno di essi, biondo, dalla faccia pallida, che colla schiena al muro guardava per la vetriata dell’uscio sotto il portico, esclamò:

— Eccolo!

Infatti entrò un’alta figura di prete, curvo delle spalle, che traendosi tosto il cappello per scrollarne l’acqua mostrò una fronte di una dolcezza straordinaria malgrado i capelli neri, ispidi e duri, che la incorniciavano; ma così giovane non poteva essere che uno studente di teologia.

— Dunque? — domandò sedendosi famigliarmente.

— Ci siamo stati, l’attore è grande — rispose Tarlatti, il biondo, con voce sottile, passandosi spesso la mano sul capo quasi automaticamente.

— Zacconi è forse più che il migliore attore d’Italia — disse Osnaghi, il poeta: — peccato che tu non possa andare a sentirlo.

— Che importa l’attore in un’opera simile? — interruppe l’abate. [p. 206 modifica]

— Importa come la misura nel verso. Sul teatro il personaggio, essendo vivo, deve esprimere nella lealtà il pensiero, che lo ha creato, molto più che il poeta, costretto a scrivere solamente le parole, presuppone tutto il lesto nell’attore. Tu sopprimeresti altrimenti il teatro.

— Si seppellirebbe un morto, evitando così la riapparizione di scheletri scenici come il Cristo di Bovio! Non è teatro questo, non è dramma, non è scena, non è figura — seguitò concitatamente Mattioli, che gli era vicino, più piccolo, bruno, dalla fisonomia vivacissima. — Tutto vi è egualmente falso, lo scenario e gli attori, il pubblico che ascolta, e colui che ha scritto. Il dramma riassunto in una sola scena, dalla quale il vero personaggio resterebbe fuori, era certamente una grande idea: Cristo non può essere rappresentato che così, facendolo solamente sentire: tutte le figure devono muoversi intorno alla sua ombra esprimendo nei propri atteggiamenti il variare dei suoi moti. La scena poteva essere superba, Gerusalemme, nel momento della sua fine ideale, identica a quella di Roma; a Gerusalemme cadeva la monarchia divina, a Roma era caduta poco prima l’unica repubblica cittadina, perchè la creazione era più grande oramai del creatore, e il diritto del mondo più largo della legge romana. A Gerusalemme come a Roma la stessa corruttela di costumi, il medesimo sfacelo d’istituzioni, una eguale anarchia d’idee. Forse mai più magnifica scena fu apprestata dalla storia al genio di un poeta. Mentre Roma soccombeva non allo sforzo di resistere alla invasione ideale del mondo nella sua coscienza, ma alla propria impossibilità individuale di contenerla; in Gerusalemme, più antica e più forte malgrado la schiavitù politica, il potente spirito semitico rimaneva ancora chiuso en[p. 207 modifica]tro la coccia della legge mosaica. L’Ebraismo vivente tuttora, sopravvissuto alle tragedie di una migrazione millenaria attraverso tutti i popoli, infrangibile come un atomo in ognuna delle sue più piccole stazioni era ancora in Gerusalemme una idea più compatta che non il gius quiritario a Roma. Ed eccola prima scena del dramma di Cristo che, detronizzando Iehova coll’adottarlo per padre, sostituiva al dualismo del popolo eletto coi popoli gentili, assurda ed atroce primogenitura, l’universalità dell’uomo pari all’unità divina.

L’abate si lasciò sfuggire un gesto.

— Non interrompere, ho bisogno di dir tutto, subito, per non confondermi. Non discuto che il dramma di Bovio, io sono un artista: tu, Tarlatti, che sei un filosofo scettico: tu, abate, che sei un mistico: tu, Osnaghi, che sei un poeta: tu, Tebaldi, che sei un socialista, discuterete l’idea. Che importa una idea nell’arte, se non vi crea una figura? L’arte è vita. Bovio aveva trovato l’opposizione drammatica, Cristo e Giuda, l’eroe e il traditore, questa necessità di tutte le tragedie, questo segreto di tutte le catastrofi, dalle quali si sprigiona una idea. Ma che cosa diventa Giuda nella scena di Bovio? Un patriota in ritardo, che congiura in piazza fra due legionari romani e una etèra greca, i quali parlano come lui, tutti in un modo, a concetti aforistici, con formule liriche; non personaggi bensì maschere, dalle quali soffiano il pensiero e le parole di Bovio, come purtroppo le prodiga da anni nei libri e nei discorsi; seicentismi di pensieri e di parole in un’asma di stile, entro i vuoti del quale molti operai ed alcuni studenti cercano indarno la profondità. Vi è del sonnambulo e del ventriloquo in quell’uomo. La scena — si rivolse all’abate — giacchè bisogna ripensarla tutta per discuterla, si [p. 208 modifica]svolse sulla piazza di Gerusalemme: dalla porta aperta della sinagoga si vede e si ode lo Sheliach leggere il parascà al paragrafo di Ester, mentre per la piazza passano fallofore di Lesbo, tribadi di Sparta, batilli, una etèra e Giuda con due congiurati. L’etèra l’apostrofa dalla lettiga con uno squarcio di filosofia della storia per spiegargli la impossibilità di una rivolta giudaica contro Roma, un centurione la soccorre d’argomenti rinfacciando agli ebrei di non avere nè un Gracco, nè un Catilina: poi l’etèra pesando con la rapidità femminile le sue filosofie, che secondo lei si dividono il mondo, quella di Epicuro e quella del Rabbi di Nazaret, conclude rivolta al centurione: «se tu a Roma non mi troverai fra le compagne di Tiberio cercami fra le seguaci del Messia». La prima cortigiana ha parlato, e da buona pronipote di Aspasia proibisce ai Farisei di uccidere Cristo, perchè dopo cinquanta e cinquanta olimpiadi il mondo non ha ancora perdonato agli Eliasti e ad Atene la morte di Socrate. Per una etèra, che arringa in piazza dalla lettiga, bisogna accontentarsene: evidentemente i discorsi di piazza non erano allora come adesso, se l’etère vi parlavano come i moderni professori di filosofia del diritto. La prima cortigiana ha declamato il proprio pezzo: aspettiamo la seconda, Maria di Magdala. Ma Giuda rimasto solo sulla piazza disegna a sè medesimo il proprio ritratto in un monologo ritmato come un recitativo, e che comincia con una invocazione all’etèra già lontana. Nella leggenda cristiana Giuda è il traditore, ma siccome il tradimento è fatto ad un Dio, Giuda vi diventa meno di uomo vendendo inesplicabilmente il maestro per trenta denari, duecento cinquanta franchi moderni, ed impiccandosi subito dopo per il rimorso. Il Cristianesimo nello sforzo di fare il Cristo un [p. 209 modifica]Dio ha violato intorno a lui tutti gli elementi umani: ma Giuda perchè tradì? Questa oscura domanda ha sempre pesato sul sentimento cristiano; il traditore nella prima parte della vita di Cristo rimane insignificante, quindi la sua negazione scoppia improvvisa ed assurda per dissiparsi subito dopo entro l’ombra. Nell’arte la figura di Giuda non fu mai disegnata, e Dante stesso, il poeta dei poeti, il più pensatore dei poeti come dice Bovio, vi ha fallito mettendolo in fondo all’inferno in una delle tre bocche di Satana fra Cassio e Bruto. Dante, che applica sul Satana biblico la triplice maschera del cerbero virgiliano, e nella gamma divina delle espiazioni pareggia deicidio e legicidio! Eppure è Dante, il poeta della Tolomea, nella quale i peccatori traspaiono come paglie nel ghiaccio e, mentre piangono per lo spasimo, le lagrime si gelano loro dentro gli occhi! Nullameno Dante ha fallito, Bovio altera le date della leggenda cristiana per condensarne il significato; la famosa frase — qualcuno tradisce — pronunciata all’ultima cena cogli apostoli, la suppone detta prima dell’aneddoto coll’adultera, pel quale ha concepito il proprio dramma. Giuda comincia col pensare il problema di Socrate: ebbe egli ragione di morire per le leggi della sua città anzichè per la propria dottrina? «Sarà più grande di lui questo idealista di Nazaret?» Perchè Giuda applica a Cristo questa parola moderna e nel più moderno significato? Poi definisce gli apostoli: «Pietro che trema, Giovanni che delira, Giacomo che gonfia, Tomaso che dubita», ma Pietro nella tragedia cristiana tremerà e rinnegherà veramente il maestro solo nel cortile di Caifas, Giovanni delirerà vecchio nell’Apocalisse, Tomaso resterà celebre per il proprio dubbio contro Cristo risorto e riapparso [p. 210 modifica]alle donne e agli altri apostoli, Giacomo gonfia o gonfierà... che cosa? Io non lo so.

Un sorriso apparve sulle labbra di tutti quei giovani.

— Lascia, lascia, tutto questo sarebbe nulla: non è Giuda che parla, ma Bovio, il quale nel l894 crede di poter giudicare ognuno di quei quattro apostoli con una sola parola. E sempre l’uomo, che nella propria Filosofia del Diritto scriveva: «Spartaco ebbe un successore, Cristo», ed ecco pareggiata una guerra servile di Roma a tutto il cristianesimo. Ma Giuda sente una fatalità di tradimento intorno a Cristo: la battuta questa volta è buona, se non che Giuda dovrebbe sentirla in sè stesso per alzarsi a figura drammatica rivale di Cristo, e invece arzigogola sul tradimento, il quale è secondo lui nell’aria, nella folla, nei discepoli, nei fratelli stessi di Cristo se il genio può averne, per finire al solito in una lirica, dubbiosa bestemmia: «Se dietro al tuo patibolo il traditore sono io, la complicità si addensa dal genere umano a tuo Padre».

— Ma lo sai dunque tutto a mente? — chiese Osnaghi.

— Ecco tutto il Giuda di Bovio: che cosa è quest’uomo? Parrebbe un patriota giudeo, poi si perde nel vaniloquio, non ha una passione, una idea, un carattere, un temperamento. Parla come un retore, declama peggio d’un istrione essendo a sè stesso teatro ed attore, e, come questo non bastasse, ecco ancora Maria di Magdala a fargli l’ultima lezione di filosofia. L’etèra della prima scena avrebbe dovuto essere la donna pagana, abbastanza fine per cogliere i primi sottili aromi di un pensiero nuovo anche se religioso; questa della seconda sarebbe già la passione novella, l’amore umano purificato dal contatto divino e sublimatosi nel sacri[p. 211 modifica]ficio di sè medesimo sino a diventare più limpido della innocenza. La figura di Maddadena così bella nella penombra della leggenda cristiana, schizzata con due o tre tocchi, sentite come parla: «Potrai trovare ancora un fatto, un pensiero, che superi — solo — la malizia del mondo? «E Giuda rimbecca: «Sarà un pensiero di genio». Maddalena: «Innanzi al quale il Nazareno è vile: chi sarà l’eroe? «Giuda guarda a terra, e io sono tentato di fare altrettanto, perchè non credo di aver capito più di lui. Quindi disputano su Cristo; Maddalena, con un linguaggio imitato dalle eroine di Dumas figlio, accenna alla propria caduta e al perdono del Rabbi senza potersi decidere come Giuda a prendere Cristo nè per un uomo, nè per un Dio, quantunque sia venuto un giorno a sedersi sul verone della sua, casa, e lì, sognando senza forse, gli sia sfuggito dalle labbra pallide — non mandarmi questo calice, sudo Sangue, non abbandonarmi, perdona loro perchè non sanno quello che si facciano — tutti i gridi supremi, che segneranno il crescendo spasmodico del suo sacrificio. E quasi ciò non fosse abbastanza falso drammaticamente riferisce a Giuda il giudizio su lui di Cristo, così: «Giuda non è la fede di Filippo, di Bartolomeo e degli altri semplici, nè il pensiero del filosofo di Stagira: è la mezza mente che, posta fra due mondi, oscilla fra due fini e rasenta il tradimento». «Se egli si uccide, somiglia a quel tumido Uticense che stimò di non poter sopravvivere a repubblica morta da gran tempo: se mi uccide somiglia a quel Cassio iracondo che tentò rifare una repubblica disfatta sopra un uomo ucciso» Infine questa disputa di accento scolastico e di volgarità moderne finisce all’ultima moda socialistica: questo ti riguarda, Tebaldi. Giuda accusa d’insufficienza la teorica di Cristo e, profetizzando che i prelati [p. 212 modifica]ricchi dell’avvenire non lo riconoscerebbero se gli saltasse il ticchio di risuscitare dopo un millennio, urla contro la promessa di una seconda vita: «Ahi!... qua il solco, qua il seme, qua la spiga, qua il diritto! — Di là c’è frode».

— Tutto questo è goffo, lo so: ma aggiungi ancora la bella parola: «Il venditore di Cristo non sono io: verrà!» — disse Osnaghi guardando Tebaldi, che non aveva ancora parlato.

— La sola bella di tutta la scena, perchè le ultime parole di Maria di Magdala sono di una fraseologia ancora più torbida: «Se il tuo redentore è nel numero, la tua redenzione non è destinata. Va e cerca nel numero il tuo Messia che non sa liberare sè dalla turba. Addio».

— Pazienza se fosse qui finita! — sogghignò Tarlatti — ma invece siamo ancora al prologo del dramma scritto solo per il motto finale nella scena dell’adultera: Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Naturalmente tutti restano colle pietre in mano tranne il centurione, che getta il proprio bastone di vite per raggiungere Cristo dietro le quinte.

— Oh! — interruppe Osnaghi — perchè non ripeti la formula frugoniana del centurione?» «Restitusci a Roma questo mio bastone di vite, e dille che una parola è nata più equa del diritto del pretore». Quale capitano di fanteria declamerebbe oggi così?

— E siccome Giuda piange, Maddalena per consolarlo gli dice anch’essa il proprio giudizio: «Innanzi a te Egli è già un mito, e tu innanzi a Lui sei già la posterità incredula che simula adorazione»

— La lezione è terminata! — conchiuse Osnaghi stringendosi nelle spalle. [p. 213 modifica]

— Se l’arcivescovo di Napoli avesse saputo tacere, questo Cristo alla festa di Purim non lo si sarebbe rappresentato come non lo si era letto.

— Oh — ribattè l’abate — tutto ciò che tocca Cristo diventa importante. La chiesa ha creduto di opporsi a questa opera di Bovio certo non per quello che vale, ma per quello che significa.

— Forse hai ragione — disse Tarlatti.

— Riassumiamo prima — si ostinò daccapo Mattioli. — Che cosa c’è in questo Cristo di Bovio? Cristo no, Giuda nemmeno, ma tre donne, una ètera di Grecia, la cortigiana di Magdala, l’adultera di Gerusalemme: una triade femminile, dentro la quale avrebbe dovuto mostrarci l’idea di Cristo. La prima non è già più una ètèra per il semplice fatto di sentire anche da lungi la sua presenza, la seconda diventa una pitonessa per avergli parlato, la terza si salva dalla lapidazione per aver ottenuto senza nemmeno chiederla una sua risposta. Null’altro. Cristo che chiama Aristotile il filosofo di Stagira è dà del tumido Uticènse a Catone, dell’iracondo a Cassio, della mezza mente a Giuda, mandandolo a pensare la verità messianica nel deserto perchè la larghezza dello spazio gli suggerisca quello che la lunghezza dei secoli dovrà rivelare: e che passa sulla terra unicamente per risolvervi un caso di adulterio come un pretore... tale Cristo è davvero la più sconoscente ingiuria proferita contro di lui in questo secolo, che dopo avergli conteso la divinità gli ha negato perfino l’esistenza. Mai più vacua corpulenza di pensiero si sgonfiò in più informi sembianze di arte, e più inetta soggettività di autore, si atteggiò drammaticamente per falsare figure ed ambiente, idea e linguaggio...

— Perchè perdi in questo momento tu stesso la misura? [p. 214 modifica]

— Perchè il dramma c’era.

— T’inganni. Nel medioevo la chiesa rappresentò la Passione nei Misteri, ma quando sorse il teatro nessuno dei grandi poeti pensò di trarre dalla Passione una tragedia, e bada che nè Lopez, nè Calderon sono grandi poeti.

— Tu opponi un fatto ad un’idea: è troppo poco.

— Forse!— intervenne Osnaghi — ma io ti opporrò idea a idea. Tu credi al dramma di Cristo, io no: tu vedi d’ambiente e la scena, Gerusalemme divisa fra partiti politici e sacerdotali, la doppia tirannia di Erode e del Sanhedrin, poi Roma più in alto. Cristo appare dal popolo, secondo te; i discepoli gli si stringono intorno, le donne s’innamorano della sua parola, i partiti si acquetano per ascoltarla. Scene di miracoli e scene domestiche abbondano gli apostoli formano una prima Tavola Rotonda, alla quale Cristo annunzia il tradimento, perchè come tutti i veramente grandi egli ha presentito la catastrofe e indovinato il rivale. La bravura dei discepoli messa a dura prova nel processo soccombe, la prima fede del popolo si dissipa; Pilato, l’indulgente magistrato romano, spicca originalmente fra le sinistre figure dei pontefici, e l’ultimo atto si compie sul Golgota colle donne sotto alla croce. Ebbene, mio caro, il dramma non c’è. Se di Cristo fai un uomo, urti nel fantasma divino, che di lui è in tutte le coscienze, e in questo dissidio l’anima del pubblico si frange. Se tu lo mostri Dio, tutto il suo valore umano non è più che un simbolo vuoto. Il dramma non può oltrepassare i limiti della individualità, noi dobbiamo cozzare nel fato, in Dio, non esserlo.

— Eschilo ha scritto il Prometeo.

— Tragedia umana, mio caro, perchè Prometeo [p. 215 modifica]e Giove non superano le proporzioni di due eroi, e l’Olimpo non è più alto del Caucaso. Cristo nell’arte non può apparire che solo, figura umana, dalla quale traspare lo spirito divino, nè uomo, nè donna alla fisonomia, di una bellezza vera e non reale, come lo rappresentarono i grandi pittori antichi. Guarda i loro crocifissi: il corpo non spenzola come dovrebbe dalla croce, lo spasimo della sua faccia è ineffabile, ma non vi si sente alcuna fitta corporea, il suo dolore è divino e ha atteggiato di sè stesso la bellezza del volto. Oggi credono di fare del realismo dipingendo un uomo crocifisso: la verità è nell’altro, il Crocifisso.

— La poesia è fede — esclamò l’abate: — tu sei vicino ad accoglierla.

— No — interruppe Tarlatti, — la più grande poesia è nel dubbio: ecco perchè ho amato la figura di Cristo. Tu no, abate, non puoi rileggerle perchè hai la seconda vista dei mistici; ma voi altri pigliate ancora una volta le sue parabole, allineate le sue risposte. Vi è in tutte una mestizia irresistibile, una ironia sottile, che Renan solo ha saputo cogliere. Il dubbio trema nell’anima del Messia: attraverso i racconti ingenuamente impossibili degli evangelisti si comprende che il suo dubbio tocca gli altri, giacchè nemmeno i suoi miracoli più stupefacenti, come quello di Lazzaro, bastano a persuadere coloro stessi che vi assistono. All’altezza, cui è salito, la vista gli vacilla: il mondo troppo grande anche pel suo occhio di veggente sarà sempre più antico (e più vasto di qualunque opera, e la sua redenzione trionfandovi non avrà redento che pochi. Allora, il redentore preso nella vertigine della propria illusione prova nel freddo della caduta i primi brividi del nulla. Ecco il dramma di Cristo, l’impossibilità di credersi Dio e di farlo credere prima [p. 216 modifica]di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l’avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas? Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l’ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l’ultimo, delirante appello nel vuoto — Dio, dio, perchè mi hai abbandonato? — e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile consumatum est questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L’espiezione del redentore è tutta in quel silenzio.

Gli altri guardarono all’abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi:

— A te ora, poichè i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un’epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?.

— Io lo odio.

— Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell’amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l’anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede.

Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l’abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, [p. 217 modifica]dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia.

— Non ho il vostro ingegno – cominciò — ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell’arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual’era la sua idea? Io non la so.

— Il mondo l’ha accettata. — proruppe l’abate.

— Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l’idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n’erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n’erano piene. Un’altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n’erano piene. L’uguaglianza del genere umano.

— Sì.

— Ma non osò proclamarla.

— Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali.

— Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo.

— Perchè dunque hai detto di odiarlo?

Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell’abate si rischiarava; ambe[p. 218 modifica]due sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni.

— Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l’ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l’uomo, certamente per l’uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l’umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? — In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell’altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione.

— Nell’infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d’ingiustizia l’elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l’uomo sof[p. 219 modifica]fre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l’uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l’equazione facendo a meno dei suoi dati?

— La società sola riduce l’uomo infelice.

— Ancora l’uomo contro l’uomo! Perchè? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L’umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell’avvenire? Il primo pensiero dell’uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio.

— Troppi lo hanno già chiesto indarno.

— E tutti chiederanno sempre.

— Perchè il dubbio è la nostra unica verità — intervenne Tarlatti.

— No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l’altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i per[p. 220 modifica]chè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll’infinito, dell’uomo con Dio: e poichè nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell’arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell’odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L’umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell’umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L’indimenticabile dell’uno non vale dunque l’immutabile dell’altra? Per coloro, che credono, il presente è l’eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l’effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell’umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede — se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? — Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l’immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, [p. 221 modifica]finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono.

— Chi crede più? — chiesero tutti a una voce.

— Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l’universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio.

— E la chiesa, della quale tu vesti l’abito? — intervenne con fine sorriso Tarlatti.

— Signori, è ora di chiudere — disse l’oste appressandosi a1 loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell’ambiente. Il fiasco era ancora intatto.

— Oh! — proruppe Tarlatti — bisogna pagarlo ugualmente, poichè l’oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora.

Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell’indomani all’università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano.

— Dunque, caro abate — disse ancora Tarlatti — la conclusione è: Laus Christo, come l’intestatura dell’ultimo capitolo nell’ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo.

— E a Bovio? — interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta.

— Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo — rispose l’abate coll’imperturbabile fede dei mistici.