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di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l’avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas? Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l’ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l’ultimo, delirante appello nel vuoto — Dio, dio, perchè mi hai abbandonato? — e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile consumatum est questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L’espiezione del redentore è tutta in quel silenzio.

Gli altri guardarono all’abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi:

— A te ora, poichè i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un’epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?.

— Io lo odio.

— Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell’amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l’anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede.

Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l’abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna,