Orlando innamorato/Libro secondo/Canto ventesimo

Libro secondo

Canto ventesimo

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1   Quella stagion che in cel più raserena,
     E veste di verdura gli arborscelli,
     Ed ha l’aria e la terra d’amor piena
     E de bei fiori e de canti de occelli,
     Gli amorosi versi anco mi mena,
     E vôl che a voi de intorno io rinovelli
     L’alta prodezza e lo inclito valore
     Qual mostrò un tempo Orlando per amore.

2   Di lui lasciai sì come Norandino
     Lo prese per compagno al torniamento;
     Ben vi andò volentieri il paladino,
     Ché di passare avea molto talento.
     Ora s’aconciò il tempo al lor camino
     Intra Levante e Greco, ottimo vento,
     Qual via gli portò in Cipri alla spiegata,
     Ove gran gente in prima era assembrata.

3   Però che e Greci insieme con Pagani
     Alla gran festa se erano adunati,
     E degli circonstanti e de’ lontani;
     Baroni e cavallieri erano armati,
     Ma pur fra tutti quanti e più soprani
     E de maggiore estima e più onorati
     Eran Basaldo e Costanzo e Morbeco:
     Li duo fôr turchi e quel di mezo greco.

4   Costanzo fu filiol di Vatarone,
     Che alor de’ Greci lo imperio tenìa,
     E quei duo turchi avean due regïone,
     Di che erano amiragli, in Natolia.
     Ora Costanzo avea seco Grifone
     Ed Aquilante pien di vigoria;
     Ben me stimo io che abbiati già sentito
     Come Aquilante fu seco nutrito,

5   Quando la Fata Nera il damigello
     Mandò primeramente in quella corte,
     Poi che ’l levò di branche al fiero occello,
     Ché condotto l’avrebbe in trista sorte.
     Di questa cosa più non vi favello,
     Ché so che avete queste istorie scorte;
     Grifone in Spagna ed in Grecia Aquilante
     Furno nutriti, e più non dico avante.

6   Se non che, essendo poscia spregionati,
     Come io contai, da le Isole Lontane,
     Ed avendo più giorni caminati
     Per diversi paesi e gente istrane,
     Nel porto di Blancherna erano intrati,
     Ove con festa e con carezze umane
     Fôr recevuti da lo imperatore
     E da Costanzo, e fatto molto onore.

7   E volendo esso andare a quel torniero,
     Ebbe la lor venuta molto grata,
     Cognoscendo ciascun bon cavalliero
     Per farli un grande onore a quella fiata;
     Avengaché Grifone è in gran pensiero,
     Perché Origilla, sua dama, infirmata
     Era di febre tanto acuta e forte,
     Che quasi è stata al ponte de la morte.

8   Ma pure, essendo migliorata alquanto,
     Partì da lei, benché gli fusse grave,
     Né se puotè spiccar già senza pianto,
     Ed intrò con Costanzo alla sua nave.
     Indi passarno ove il fiume di Xanto
     Ha foce in mare, e con vento soave
     Gionsero in Cipri, come io vi ho contato,
     Ciascun bene a destriero e ben armato.

9   Molti altri ancora che io non vi racconto,
     Baroni e cavallieri e damigelle,
     Eran venuti, e tutti bene in ponto
     De arme e destrieri e de robbe novelle.
     Quando fu Norandino in Cipri gionto,
     Le cose de ciascun parvon men belle,
     Perché è sì ben guarnito e adorno tanto,
     Che sopra gli altri ogni om gli dava vanto.

10 Nel porto a Famagosta poser scale,
     E via ne andâr di lungo a Nicosia,
     Quale è fra terra la cità reale,
     E Tibïano il seggio vi tenìa.
     Quivi con festa e pompa trïonfale,
     Con duci e conti e molta baronia
     Intrò il re di Damasco tutto armato,
     Con trombe avanti e bene accompagnato.

11 Un monte acceso portava nel scuto
     E similmente nel cimero in testa;
     E ciascun che con esso era venuto
     Avea pur tale insegna e sopravesta.
     Così fu degnamente recevuto
     Con molto onor da tutti e con gran festa;
     Ma sopra gli altri lo onorò Lucina,
     Ché più che sé lo amava la tapina.

12 E già, passando il tempo, è gionto il giorno
     Che ’l tornier dovea farsi in su la nona,
     Ed ogni cavaliero andava intorno
     Facendo mostra della sua persona,
     L’un più che l’altro a meraviglia adorno.
     De trombe e de tamburi il cel risuona;
     Per ben vedere avante ogniom si caccia:
     Preso è ogni loco intorno della piaccia.

13 Ma da l’un capo uno alto tribunale
     Per le dame e regine era ordinato,
     Ove Lucina in abito reale
     E l’altre vi sedean da ciascun lato.
     Mostravan poco il viso naturale,
     Le più l’avean depinto e colorato:
     Turpino il dice, io nol so per espresso,
     Benché sian molte che ciò fanno adesso.

14 Angelica là sopra era tra loro,
     Qual se mostrava un sole infra le stelle;
     Con una vesta bianca, adorna d’oro,
     Senza alcun dubbio è il fior de l’altre belle.
     Re Tibïano e il suo gran concistoro
     Da l’altro lato incontra alle donzelle
     Se stava al tribunal, che era adornato
     Di seta e drappi d’oro in ogni lato.

15 Or cominciano a entrare e cavallieri:
     Ben vi so dir che ciascuno è forbito,
     Con ricche sopraveste e con cimieri;
     Ogniom se mostra nel sembiante ardito,
     Di qua de là spronando e gran destrieri,
     Perché il torniero in due schiere è partito:
     Costanzo de una parte è capitano,
     De l’altra Norandino il Sorïano.

16 Gnacare e corni e tamburini e trombe
     Suonorno a un tratto intorno della piaccia;
     Trema la terra e par che il cel rimbombe,
     E che lo abisso e il mondo se disfaccia.
     Tutte, le dame, a guisa de colombe,
     Per l’alto crido se smarirno in faccia;
     Ma i cavallier con furia e con tempesta
     A tutta briglia urtâr testa per testa.

17 Né si vedean l’un l’altro e campïoni,
     Benché ciascuno avesse a l’urto accolto;
     Ma il fremir delle nare de’ ronzoni
     Avea sì grande il fumo a l’aria involto,
     E sì la polve alciata in que’ sabbioni,
     Che avea il vedere a tutti avanti tolto,
     Né se guardava l’ordine o la schiera,
     Ciascun menando a chi più presso gli era.

18 Ma poi che il fatto fu atutato un poco
     E cominciò l’un l’altro a discernire,
     Apparve in quella piazza il crudo gioco,
     E colpi dispietati, il gran ferire;
     Avanti, a mezo, a dietro, in ogni loco,
     Si vedea gente de gli arcioni uscire;
     Per tutto è gran travaglia e grave affanno,
     Ma chi è di sotto è quel che porta il danno.

19 Orlando per vedere il fatto aperto
     Non volse ne la folta troppo intrare;
     Ma quel Morbeco turco, che era esperto
     In tal mestiero e ben lo sapea fare,
     Se trasse avante in su un destrier coperto,
     E sopra gli altri si facea mirare;
     Qualunche giongie o de urto, o de la spada,
     Sempre è mestier che al tutto a terra vada.

20 E già da sei de quei di Norandino
     Avea posti roverso in su il sabbione,
     Né ancor s’arresta, ma per quel confino
     Più furia mena e più destruzïone;
     Onde turbato quel re saracino
     A tutta briglia sprona il suo ronzone,
     E sopra di Morbeco andar si lassa,
     E di quello urto a terra lo fraccassa.

21 Dapoi Basaldo, che più presso gli era,
     Percosse ad ambe mano in su la testa;
     Né lo diffese piastra ni lamiera,
     Ché a terra lo mandò con gran tempesta.
     Tutta a roina pone quella schiera,
     A lui davante alcun più non s’arresta.
     Oh quanto è lieta Lucina la dama
     Vedendo far sì bene a chi tanto ama!

22 Costanzo il greco, che vede sua gente
     Sì mal condutta da quel Sorïano,
     Turbato for di modo nella mente,
     Gli sprona adosso con la spada in mano.
     L’uno e l’altro di loro era valente,
     Onde alcun tratto non andava in vano;
     Al fin menò Costanzo un colpo fiero
     E ruppe il monte e il foco del cimiero.

23 Sino alla croppa lo fece piegare
     Al colpo smisurato che io vi conto,
     Ni stette già per questo a indugïare,
     Ma mena l’altro e in fronte l’ebbe gionto;
     Ed era Norandin per trabuccare,
     Se non che Orlando allor se mosse a ponto,
     E tanto fece, che il trasse de impaccio
     Sin che il rivenne, e lo sostenne in braccio.

24 Onde Costanzo per questo adirato
     Adosso al conte gran colpi menava;
     Ma lui, come in arcion fosse murato,
     Di cotal cosa poco se curava.
     Ma sendo Norandino in sé tornato,
     Che a sostenirlo più non lo impacciava,
     Verso Costanzo se rivolse il conte,
     E lui percosse in mezo della fronte.

25 Qualunche ha un cotal colpo, non vôl più,
     Ché bene è paccio chi il secondo aspetta.
     Ora Costanzo al primo andò pur giù,
     Di lui rimase la sua sella netta.
     Diceva ad esso il conte: - Or va là tu,
     Che menavi a ferirme tanta fretta,
     Quando io stavo occupato ad altra posta;
     Or vien adesso e con meco te accosta. -

26 Lui già non se accostò, ma cadde a terra,
     Come io vi dico, col capo davante;
     Ma ’l conte adosso a un altro se disserra,
     Sì che lo fece al cel voltar le piante.
     Grifone in altra parte facea guerra
     Da l’un de’ lati, e da l’altro Aquilante;
     Né se avedean de tal destruzïone,
     Né de Costanzo che ha tratto de arzone.

27 Ma il crido della gente che era intorno
     Voltar fece Grifone in primamente,
     E combattendo là fece ritorno,
     Benché sapesse del fatto nïente;
     E quando lui fu gionto, ebbe gran scorno,
     Poi che abattuto è il capo di sua gente,
     Onde adirato il suo destrier sperona;
     A Norandino adosso se abandona.

28 Da l’altra parte ancor gionse Aquilante,
     E quando il suo Costanzo vidde a terra,
     Turbato fieramente nel sembiante
     Con ambi e sproni il suo destriero afferra,
     E riscontrosse col conte de Anglante;
     E qui se cominciò la orrenda guerra,
     Benché lui non cognosce il paladino,
     Perché la insegna avea di Norandino.

29 Né lui fu cognosciuto anco da Orlando,
     Ché di Costanzo la insegna portava.
     Ora, segnori, a voi non ve domando
     Se ciascun de essi ben se adoperava,
     Cotal ruina e tal colpi menando
     Che l’aria per de intorno sibillava,
     Come la cosa andasse a tutto oltraggio,
     Né se vi scorge ponto di vantaggio.

30 Vero è, perché Aquilante era turbato,
     Mostrò maggior prodezza allo affrontare;
     Ma poi che l’uno e l’altro è riscaldato,
     Ben vi so dir che assai vi fu che fare,
     Di qua di là menando ad ogni lato,
     Che par che il mondo debba ruïnare,
     Con dritti e con roversi aspri e robesti;
     E pur gli ultimi colpi alfin fur questi.

31 Gionse Aquilante a Orlando nella fronte,
     Sopra la croppa lo mandò roverso;
     Ma ben rispose a quella posta il conte,
     E lui ferì de un colpo sì diverso,
     Che sua baldanza e quelle forze pronte
     E l’animo e l’ardir tutto ebbe perso;
     Di qua di là piegando ad ogni mano,
     Le gambe aperse per cadere al piano.

32 E certamente ben serìa caduto,
     Ché più non se reggea che un fanciullino,
     Se non che Grifon gionse a darli aiuto,
     Il quale avea lasciato Norandino.
     Lasciato l’avea quasi per perduto,
     Ché ormai non potea più quel saracino;
     Ma per donare aiuto al suo germano
     Lasciò Grifone andar quel sorïano.

33 E de giongere al conte se procura
     Spronando a tutta briglia il suo ronzone.
     Or qui si fece la battaglia dura
     Più ch’altra mai de Orlando e de Grifone,
     Qual durò sempre insino a notte oscura,
     Né se potea partir la questïone,
     Sin che gli araldi con trombe d’intorno
     Bandirno il campo insino a l’altro giorno.

34 Ciascun tornò la sera a sua masone,
     E de’ fatti del giorno si favella.
     Ora a Costanzo parlava Grifone
     Dicendo: - Io so contarti una novella,
     Che là su tra le dame, a quel verone,
     Veder mi parve Angelica la bella;
     E se ella è quella, io te dico di certo
     Che Orlando è quel che quasi te ha deserto.

35 Ed anco io l’ho compreso a quel ferire,
     Che cresce nella fine a maggior lena,
     E però ti consiglio a dipartire,
     Prima che ne abbi più tormento e pena;
     Omo non è che possa sostenire
     A la battaglia e colpi che lui mena;
     Onde lasciar la impresa ce bisogna,
     Non ne volendo il danno e la vergogna. -

36 Diceva a lui Costanzo: - Or datti il core,
     S’io faccio che colui ne vada via,
     Poi de acquistare a nostra parte onore
     E in campo mantenir l’insegna mia? -
     Grifon rispose a lui, che per suo amore
     Quel che potesse far, tutto faria;
     E che egli aveva fermamente ardire
     Contra ad ogni altro il campo mantenire.

37 Il Greco, che era di malizia pieno
     (Come son tutti de arte e di natura),
     Quando la luce al giorno venne meno,
     Uscì de casa per la notte scura,
     E via soletto sopra a un palafreno
     Ove era Orlando di trovar procura,
     E trovato che l’ebbe, queto queto
     Lo trasse in parte e a lui parlò secreto;

38 E dimostrògli che il re Tibïano
     Secretamente facea gente armare,
     Perché era gionto un messaggio di Gano,
     Il qual cercava Orlando far pigliare;
     Però, se egli era desso, a mano a mano
     Vedesse quel paese disgombrare;
     E perciò a ritrovarlo era venuto,
     Per palesarli questo e dargli aiuto;

39 E ch’egli aveva una sua fusta armata
     Nascosta ad una spiaggia indi vicina,
     Qual via lo portarebbe alla spiegata
     In Franza a qualche terra di marina.
     Fu questa cosa sì ben colorata
     Dal Greco, che sapea cotal dottrina,
     Che il conte a ponto ogni cosa li crede,
     Ringraziandolo assai con pura fede.

40 E, fatta presto Angelica svegliare,
     Con essa alla marina se ne gìa,
     Ove Costanzo il volse accompagnare,
     E là il condusse ove la fusta avia.
     Facendosi il parone a dimandare,
     Gli impose che il baron portasse via
     Ove più gli piacesse al suo talento;
     E lor ne andarno avendo in poppa il vento.

41 Quel che si fusse poi di Norandino
     Né di Costanzo, non saprebbi io dire,
     Perché di lor non parla più Turpino;
     Ma ben del conte vi saprò seguire,
     Il qual sopra alla fusta al suo camino,
     Fu per fortuna a risco di morire,
     E stette sette giorni a l’aria bruna,
     Che mai non vidde il sole, e men la luna.

42 E questo sopportò con pazïenza,
     Poscia che altra diffesa non può fare;
     Ma poi che ebbe di terra cognoscenza,
     Ed avendo in fastidio tutto il mare,
     Posar se fece al lito de Provenza,
     Ché de esser fuora mille anni gli pare,
     Per trovarsi a Parigi a mano a mano,
     E dar di sua amistate al conte Gano.

43 Ché ben l’avria trattato, vi prometto,
     Come dovea trattarlo il can fellone,
     Ma non piacque al demonio maledetto,
     Che lo avea tolto in sua protezïone;
     Al manco male il facea stare in letto
     Cinque o sei mesi rotto dal bastone;
     Ma Lucifer che lo ha preso a guardare,
     Al conte Orlando dette altro che fare.

44 Però che cavalcando il paladino,
     Come fortuna o sua ventura il mena,
     Arivò un giorno al Fonte di Merlino,
     Che è posto in mezo del bosco di Ardena.
     Del Fonte vi ho già detto il suo destino,
     Sì che a ridirlo non torrò più pena,
     Se non che quel Merlin, qual fu lo autore,
     Lo fece al tutto per cacciar l’amore.

45 Essendo gionti qua quella giornata,
     Come io vi dico, Orlando e la donzella,
     Essa, che più del conte era affannata,
     Smontò il suo palafren giù della sella;
     E poi, bevendo quell’acqua fatata,
     Sua mente in altra voglia rinovella,
     E, dove prima ardea tutta de amore,
     Ora ad amar non può dricciare il core.

46 Or se amenta lo orgoglio e la durezza,
     Qual gli ha Ranaldo sì gran tempo usata,
     Né gli par tanta più quella bellezza
     Che soprana da lei fu già stimata;
     Ed ove il suo valore e gentilezza
     Lodar suoleva essendo inamorata,
     Ora al presente il sir de Montealbano
     Fellone estima sopra a ogni villano.

47 Ma, parendo già tempo de partire,
     Però che era passato alquanto il caldo,
     Volendo aponto della selva uscire,
     Viddero un cavalliero ardito e baldo.
     Or tutto il fatto me vi convien dire:
     Quel cavalliero armato era Ranaldo,
     Qual, come io dissi, dietro a Rodamonte
     Era venuto presso a questa fonte.

48 Ma non vi gionse, perché il fiume in prima
     Che raccende lo amore, avea trovato.
     Ora io non vi saprei contare in rima
     Come se tenne alora aventurato,
     Quando vidde la dama, perché estima
     Sì come egli ama lei, de essere amato.
     Visto ha per prova ed inteso per fama
     Ciò che per esso ha già fatto la dama.

49 Non cognosceva il conte, che era armato
     Con quella insegna dal monte di foco;
     Ché sì palese non se avria mostrato,
     Serbando il suo parlare in altro loco.
     Perché, essendo ad Angelica accostato,
     Cortesemente e sorridendo un poco
     Disse: - Madama, io non posso soffrire
     Che io non vi parli, s’io non vo’ morire,

50 Abench’io sappia a qual modo e partito
     Mi sia portato e con tal villania,
     Ch’io non meritarei de essere odito.
     Ma so che seti sì benigna e pia,
     Che, a benché estremamente aggia fallito,
     Perdonarete a quel che per folìa
     Contro de lo amor vostro adoperai,
     Del che contento non credo esser mai.

51 Or non se può distor quel che è già fatto,
     Come sapeti, dolce anima bella,
     Ma pur a voi mi rendo ad ogni patto;
     E ben cognosce l’alma meschinella
     Che io non serebbi degno in alcun atto
     Di essere amato da cotal donzella,
     Ma de esser dal mio lato vostro amante
     Sol vi dimando, e più non cheggio avante. -

52 Orlando stava attento alle parole,
     Le quale odì con poca pazïenza,
     Né più soffrendo disse: - Assai mi dole
     Che a questo modo ne la mia presenza
     Abbi mostrato il tuo pensier sì fole,
     Ché ad altri non avria dato credenza,
     Però che volentier stimar voria
     Che ciò non fosse vero, in fede mia!

53 Io voria amarti e poterti onorare,
     Sì come di ragione ora non posso;
     Tu per sturbarme già passasti il mare,
     E per altra cagion non fusti mosso,
     Benché a me zanze volesti mostrare,
     Stimandomi in amor semplice e grosso.
     Or che animo me porti io vedo aperto,
     Ma sallo Iddio che già teco nol merto. -

54 Quando Ranaldo vidde che costui,
     Qual seco ragionava, è il conte Orlando,
     De uno ed altro pensier stette entra dui,
     O de partirse o de seguir parlando.
     Ma pur rispose al fine: - Io mai non fui
     Se non quel che ora sono, al tuo comando;
     Né credo de aver teco minor pace
     Se ciò che piace a te non mi dispiace.

55 Non creder che più vaga a gli occhi tuoi
     Paia che a gli altri questa bella dama;
     Ed estimar ne la tua mente puoi
     Che ogni om, sì come tu, de amarla brama.
     Quanto sei paccio adunque, se tu vuoi
     Aver battaglia con ciascun che l’ama,
     Perché con tutto ’l mondo farai guerra;
     Chi non la amasse, ben serìa di terra.

56 Ma se tu mostri che sia tua per carta,
     O per ragion che non gli abbia altri a fare,
     Comandar mi potrai poi che io mi parta
     E che io non debba seco ragionare;
     Ma prima soffrirei de avere isparta
     L’anima al foco e il corpo per il mare,
     Che io mi restassi mai de amar costei,
     E se restar volessi io non potrei. -

57 Rispose alora il conte: - E’ non è mia.
     Così fosse ella, come io son de lei!
     Ma non voglio adamarla in compagnia
     E in ciò disfido il mondo, e boni e rei.
     Stata è la tua ben gran discortesia
     Che, avendoti scoperti e pensier mei,
     Fidandomi di te come parente,
     Poi me hai tradito sì villanamente. -

58 Disse Ranaldo: - Questo è pur assai,
     Che sempre vogli altrui villaneggiare;
     Da me non fu tradito alcun giamai,
     E ciascun mente che il vôle affirmare.
     Sì che comincia pur, se voglia ne hai,
     E pigliati a quel capo che ti pare:
     Se ben se’ tra baron tenuto il primo,
     Più d’uno altro uomo non ti temo o stimo. -

59 Orlando per costume e per natura
     Molte parole non sapeva usare,
     Onde, turbato ne la ciera oscura,
     Trasse la spada senza dimorare,
     E sospirando disse: - La sciagura
     Pur ce ha saputi in tal loco menare,
     Che l’un per man de l’altro serà morto;
     Vedalo Iddio e iudichi chi ha il torto! -

60 Come Ranaldo vidde il conte Orlando
     Mostrarsi alla battaglia discoperta,
     Poi che avea tratto Durindana il brando,
     Lui prestamente ancor trasse Fusberta.
     Ne l’altro canto vi verrò contando
     Questa battaglia orribile e diserta,
     Ed altre cose degne e belle assai;
     Dio vi conservi in gioia sempre mai.