[St. 43-46] |
libro ii. canto xx |
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Chè ben l’avria trattato, vi prometto,
Come dovea trattarlo, il can fellone,
Ma non piacque al demonio maledetto,
Che lo avea tolto in sua protezïone;
Al manco male il facea stare in letto
Cinque o sei mesi rotto dal bastone;
Ma Lucifer che lo ha preso a guardare,
Al conte Orlando dètte altro che fare.
Però che cavalcando il paladino,
Come fortuna o sua ventura il mena,
Arivò un giorno al Fonte di Merlino,
Che è posto in mezo del bosco di Ardena.
Del Fonte vi ho già detto il suo destino,
Sì che a ridirlo non torrò più pena,
Se non che quel Merlin, qual fu lo autore,1
Lo fece al tutto per cacciar l’amore.
Essendo gionti qua quella giornata,
Come io vi dico, Orlando e la donzella,
Essa, che più del conte era affannata,
Smontò il suo palafren giù della sella;
E poi, bevendo quell’acqua fatata,
Sua mente in altra voglia rinovella,
E, dove prima ardea tutta de amore,
Ora ad amar non può dricciare il core.
Or se amenta lo orgoglio e la durezza,
Qual gli ha Ranaldo sì gran tempo usata,
Nè gli par tanta più quella bellezza
Che soprana da lei fu già stimata;
Et ove il suo valore e gentilezza
Lodar suoleva essendo inamorata,
Ora al presente il sir de Montealbano
Fellone estima sopra a ogni villano.