Orlando innamorato/Libro secondo/Canto decimoterzo

Libro secondo

Canto decimoterzo

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1   Il voler de ciascun molto è diverso:
     Chi piace esser soldato, e cui pastore,
     Chi dietro a robba, a lo acquistar è perso,
     Chi ha diletto di caccia e chi d’amore,
     Chi navica per mare e da traverso,
     E quale è prete e quale è pescatore;
     Questo in palazo vende ogni sua zanza,
     Quello è zoioso, e canta e suona e danza.

2   A voi piace de odir l’alta prodezza
     De’ cavalieri antiqui ed onorati,
     E ’l piacer vostro vien da gentilezza,
     Però che a quel valor ve assimigliati.
     Chi virtute non ha, quella non prezza;
     Ma voi, che qua de intorno me ascoltati,
     Seti de onore e de virtù la gloria,
     Però vi piace odir la bella istoria.

3   Ed io seguir la voglio ove io lasciai,
     Anci tornare a dietro, per chiarire
     De le due dame, quale io vi contai;
     L’una era al lago, l’altra ebbe a venire.
     Or per voi stessi non sapresti mai
     Chi fosser queste, non lo odendo dire;
     Ma io vi narrerò la cosa piana:
     Quella dal drago morto era Morgana,

4   E l’altra è Fiordelisa, quella bella
     Che fu da Brandimarte tanto amata.
     Di questa vi dirò poi la novella,
     Ma torno prima a quella della fata;
     La qual, perché era de natura fella,
     Sopra del lago a quella acqua incantata,
     Ove nel fondo fu Aridano occiso,
     Aveva poi pigliato uno altro aviso.

5   Perché con succi de erbe e de radice
     Còlte ne’ monti a lume della luna,
     E pietre svolte de strana pendice,
     Cantando versi per la notte bruna,
     Cangiato avea la falsa incantatrice
     Quel giovanetto in sua mala fortuna,
     Io dico Zilïante, e fatto drago,
     Per porlo in guardia al ponte sopra al lago.

6   Ed avea tramutata sua figura,
     Acciò che quella orribile apparenzia
     Sopra del ponte altrui ponga paura;
     Ma, fusse o per l’error de sua scienzia,
     O per strenger lo incanto oltra misura,
     Ebbe il garzone estrema penitenzia,
     Perché, come tal forma a ponto prese,
     Gettò un gran crido, e morto se distese.

7   Onde la fata, che tanto lo amava,
     Seco di doglia credette morire;
     Però piatosamente lacrimava,
     Come ne l’altro canto io vi ebbi a dire,
     E con la barca al fondo lo portava,
     Per farlo sotto il lago sepelire.
     Or più di lei la istoria non divisa,
     Ma torna a ricontar de Fiordelisa.

8   La qual, sì come Orlando ebbe veduto,
     Gli disse: - Idio del cel per sua pietate
     Qua te ha mandato per donarmi aiuto,
     Sì come avea speranza in veritate.
     Or bisognarà ben, baron compiuto,
     Che a un tratto mostri tutta tua bontate;
     Ma, perché sappi che far ti conviene,
     Io narrarò la cosa: intendi bene.

9   Dapoi ch’io mi parti’ da quello assedio,
     Che ancora ad Albracà dimora intorno,
     Con superchia fatica e maggior tedio
     Cercato ho Brandimarte notte e giorno,
     Né a ritrovarlo è mai stato rimedio;
     Ed io faceva ad Albracà ritorno,
     Per saper se più là sia ricovrato,
     Ma nel vïaggio ho poi costui trovato.

10 Costui che meco vedi per sargente,
     Io l’ho trovato a mezo del camino,
     Ed è venuto a dir per accidente
     Che portò Brandimarte piccolino,
     Qual fu figlio de un re magno e potente;
     Ma, come piacque a suo forte destino,
     Costui lo tolse a l’Isola Lontana,
     E diello al conte de Rocca Silvana.

11 Da poi che l’ebbe a quel conte venduto,
     Lui pur rimase in casa per servire;
     Ma poscia il fanciulletto fu cresciuto,
     Venne in gran forza e di soperchio ardire,
     E per tutto d’intorno era temuto.
     Per questo il conte avanti al suo morire,
     Non avendo né moglie né altro erede,
     Figlio se il fece e quel castel gli diede.

12 Brandimarte da poi per suo valore
     Cercato ha il mondo per monte e per piano,
     E nella terra per governatore
     Lasciò costui che vedi e castellano.
     Ora un altro baron pien di furore,
     Qual sempre fu crudele ed inumano,
     Scoperto a Brandimarte è per nimico:
     Rupardo ha nome il cavallier ch’io dico.

13 Costui con più sergenti e soi vassalli
     Lo assedio ha intorno de Rocca Silvana.
     E de assalirla par che mai non calli,
     Per ruïnarla tutta in terra piana.
     E’ crida: "Brandimarte per soi falli
     Adesso è preso al lago de Morgana.
     Io son per questo a prendervi venuto;
     Da lui non aspettati alcuno aiuto."

14 Onde costui, che temea de aver morte,
     Quando non fosse a quel Rupardo reso
     (E d’altra parte ancor gl’incresce forte
     Che ’l suo segnor da lui mai fusse offeso),
     Con molti incanti fie’ gettar le sorte,
     Ed ha con quelle ultimamente inteso
     Che vero è ciò che dice quel fellone,
     E Brandimarte è nel lago in pregione.

15 Ora ti prego, conte, se mai grazia
     Aver debbe da te nulla donzella,
     Che ciò che si può far, per te si fazia,
     Tanto che egli esca di questa acqua fella.
     Così ti renda ogni tua voglia sazia
     Quanto desidri, Angelica la bella;
     Così d’amor s’adempia ogni tua brama,
     Vivendo al mondo in glorïosa fama. -

16 Il conte narrò a lei con brevitate
     Di Brandimarte ciò che ne sapea,
     E tutte aponto le cose passate,
     E come al lago ritornar volea
     Per Zilïante trar de aversitate,
     Qual l’altra fiata giù lasciato avea,
     E poi, per cambio di quel bel garzone,
     Trar Brandimarte fuor de la pregione.

17 De ciò la dama assai se contentava,
     E smontò il palafreno alla rivera;
     Standosi ingenocchione il cel guardava,
     Divotamente a Dio facea preghiera
     Che la ventura che il conte pigliava
     Se ritrâsse in bon fine e tutta intiera;
     E già alla porta Orlando era arivato:
     Ben la sapea, ché prima anco vi è stato.

18 Nascosa era la porta dentro a un sasso,
     Di fuor tutta coperta a verde spine;
     Discese Orlando giù, callando al basso,
     Sin che fu gionto della scala al fine;
     Poi caminò da un miglio passo passo
     Sopra del suol de pietre marmorine,
     E gionse nella piazza del tesoro,
     Ove è il re fabricato a zoie ed oro.

19 Quivi trovò la sedia che Ranaldo
     Avea portata già sino alla uscita;
     Ora a contarvi più non mi riscaldo
     Di questa cosa, ché l’avete odita.
     Il conte uscì della piazza di saldo
     E gionse nel giardino alla finita,
     Ove abita Morgana e fa suo stallo,
     Ed è partito al mezo de un cristallo.

20 Apresso a quel cristallo è la fontana
     (Quel loco un’altra fiata ho ricontato);
     A questa fonte ancor stava Morgana,
     E Zilïante avea resucitato,
     E tratto fuor di quella forma strana.
     Più non è drago, ed omo è ritornato;
     Ma pur per tema ancora il giovanetto
     Parea smarito alquanto nello aspetto.

21 La fata pettinava il damigello,
     E spesso lo baciava con dolcezza;
     Non fu mai depintura di pennello
     Qual dimostrasse in sé tanta vaghezza.
     Troppo era Zilïante accorto e bello,
     Ed esso è in volto pien di gentilezza,
     Ligiadro nel vestire e dilicato,
     E nel parlar cortese e costumato.

22 Però prendea la fata alto solaccio
     Mirando come un specchio nel bel viso,
     E così avendo il giovanetto in braccio
     Gli sembra dimorar nel paradiso.
     Standosi lieta e non temendo impaccio,
     Orlando gli arivò sopra improviso,
     E come quello che l’avea provata,
     Non perse il tempo, come a l’altra fiata;

23 Ma nella gionta diè de mano al crino,
     Che sventillava biondo nella fronte.
     Alor la falsa con viso volpino,
     Con dolci guardi e con parole pronte
     Dimanda perdonanza al paladino
     Se mai dispetto gli avea fatto on onte,
     E per ogni fatica in suo ristoro
     Promette alte ricchezze e gran tesoro.

24 Pur che gli lascia il giovanetto amante,
     Promette ogni altra cosa alla sua voglia;
     Ma il conte sol dimanda Zilïante
     E stima tutto il resto una vil foglia.
     Or chi direbbe le parole tante,
     Il lamentare e i pianti pien di doglia,
     Che faceva Morgana in questa volta?
     Ma nulla giova: il conte non l’ascolta.

25 Ed ha già preso Zilïante a mano,
     E fora del giardin con esso viene,
     Né della fata teme incanto istrano,
     Poi che nel zuffo ben presa la tiene.
     Lei pur se dole e se lamenta invano,
     E non trova soccorso alle sue pene;
     Ora lusinga, or prega ed or minazza,
     Ma il conte tace e vien dritto alla piazza.

26 Quella passarno, e cominciarno a gire
     Su per la scala e tra que’ sassi duri,
     E quando furno a ponto per uscire
     Fuor della porta e de quei lochi oscuri,
     Allora il conte a lei cominciò a dire:
     - Vedi, Morgana, io voglio che mi giuri
     Per lo Demogorgone a compimento
     Mai non mi fare oltraggio o impedimento. -

27 Sopra ogni fata è quel Demogorgone
     (Non so se mai lo odisti racontare),
     E iudica tra loro e fa ragione,
     E quello piace a lui, può di lor fare.
     La notte se cavalca ad un montone,
     Travarca le montagne e passa il mare,
     E strigie e fate e fantasime vane
     Batte con serpi vive ogni dimane.

28 Se le ritrova la dimane al mondo,
     Perché non ponno al giorno comparire,
     Tanto le batte a colpo furibondo,
     Che volentier vorian poter morire.
     Or le incatena giù nel mar profondo,
     Or sopra al vento scalcie le fa gire,
     Or per il foco dietro a sé le mena,
     A cui dà questa, a cui quella altra pena.

29 E però il conte scongiurò la fata
     Per quel Demogorgon che è suo segnore,
     La qual rimase tutta spaventata,
     E fece il giuramento in gran timore.
     Fuggì nel fondo, poi che fu lasciata;
     Orlando e Zilïante uscirno fuore,
     E trovâr Fiordelisa ingenocchione,
     Che ancor pregava con divozïone.

30 Lei, poi che entrambi fuor li vide usciti,
     Molto ringrazïava Iddio divino;
     E caminando insieme, ne fôr giti
     Insino al mar che quindi era vicino.
     Poscia che nella nave fôr saliti,
     Con vento fresco entrarno al lor camino,
     Fendendo intra levante e tramontana
     Sin che son gionti a l’Isola Lontana.

31 Smontarno a Damogir, l’alta citate,
     Quale avea tra due torre un nobil porto.
     Quando le gente nel molo adunate
     Ebbero in nave il giovanetto scorto,
     Alciarno un crido allegro di pietate,
     Perché prima ciascun lo tenea morto:
     Crida ciascuno, e piccolino e grande;
     Ognior di voce in voce più se spande.

32 A Manodante gionse la novella,
     Qual già per tutta la cità risuona.
     Lui corse là vestito di gonnella,
     E non aspetta manto ni corona.
     Non vi rimase vecchia, ni donzella:
     Ogni mestiero ed arte se abandona;
     Giovani, antiqui ed ogni fanciullina,
     Per veder Zilïante ogni om camina.

33 Tanta adunata quivi era la gente,
     Che avea coperto il porto marmorino;
     E Zilïante uscì primeramente,
     Poi Fiordelisa e Orlando paladino;
     Il quarto ne lo uscir fu quel sergente.
     Come fu visto, ogni om crida: - Bardino!
     Bardino! ecco Bardino! - ogni om favella
     - De l’altro figlio il re saprà novella. -

34 Quando la calca fu tratta da banda,
     De gire avante Orlando se argumenta;
     Umanamente al re se racomanda,
     Il suo figliol avante gli appresenta.
     Di Brandimarte poi presto dimanda;
     Ma il re di dar risposta non se attenta,
     Parendo a tal servigio essere ingrato,
     Poi che il compagno avea sì mal trattato.

35 Pur gli rispose che era salvo e sano:
     Ma per vergogna è nel viso vermiglio.
     Così tornando, con Orlando a mano,
     Venne per caso a rivoltare il ciglio,
     E veggendo Bardin disse: - Ahi villano!
     Or che facesti, ladro, del mio figlio?
     Pigliàti presto presto il traditore,
     Qual già mi tolse il mio figliol maggiore. -

36 A quella voce fu il sargente preso,
     E lui dimanda sol de essere odito,
     Onde di novo avanti al re fu reso,
     E contò a ponto come era fuggito
     Per mare in barca; ed in terra disceso,
     Il figlio entro una rocca avea nutrito,
     Né si sapendo il nome in quella parte
     De Bramadoro il fece Brandimarte.

37 Nome avea Bramadoro, essendo infante,
     Quel Brandimarte che or era pregione.
     El fu figliolo a questo Manodante;
     E quel Bardino per desperazione
     Ché ’l re il battette dal capo alle piante,
     Fosse per ira, o per sua fallisone,
     Ciò non so dir, ma via fuggì Bardino
     E Bramador portò, quel fanciullino.

38 Da poi che l’ebbe a quel conte venduto,
     Dico a Rocca Silvana, come ho detto,
     E’ fu del male alquanto repentuto,
     E là rimase sol per suo rispetto;
     E, sin che ’l giovanetto fu cresciuto,
     Non se partitte mai de quel distretto,
     E Brandimarte a lui sempre ebbe amore,
     Onde il lasciò per suo governatore.

39 E tutto ciò contò Bardino a ponto,
     Narrando a lui la istoria del figliolo:
     Ma quando a dir che egli era al fin fo gionto,
     Il re sentì nel cor superchio dôlo,
     Perché posto l’avea, come vi conto,
     Al fondo de un torrion, su tristo sôlo.
     Là giù posto l’avea discalzo e nudo:
     Or se lamenta de esser stato crudo.

40 E benché prima avesse ancor mandato,
     Per rispetto de Orlando, a trarlo fuore,
     Ora a mandarvi è ben più riscaldato,
     Sempre piangendo de piatoso amore;
     Per allegrezza il crido è dupplicato,
     Non se sentì giamai tanto rumore:
     Per tetti, per li balchi e per le torre,
     Ciascun con lumi accesi intorno corre.

41 De cimbaletti e d’arpe e di leuti
     E de ogni altra armonia fan mescolanza.
     Il re, che duo figlioli avea perduti,
     Or gli ha trovati, e non avea speranza;
     E citadini insieme son venuti
     Tutti alla piazza, e chi suona e chi danza;
     E le fanciulle e le dame amorose
     Gettano ad alto gigli fiori e rose.

42 Fra tanta gioia e tra tanta allegrezza
     Condotto è Brandimarte avante al padre,
     Che fu nudo in pregione, ora è in altezza:
     Era coperto di veste legiadre.
     Piangeva ciascadun di tenerezza.
     Il re lo dimandò chi fu sua madre.
     - Albina, - disse a lui - ciò mi ramenta,
     Ma del mio padre ho la memoria spenta. -

43 Non puote il re più oltra sostenire,
     Ma piangendo dicea: - Figliol mio caro,
     Caro mio figlio, or che debbo mai dire,
     Ch’io te ho tenuto in tanto dôlo amaro?
     Ciò che a Dio piace se convien seguire;
     A quel che è fatto, più non è riparo. -
     Così dicendo ben stretto l’abbraccia,
     Avendo pien de lacrime la faccia.

44 Poi s’abbracciarno ed esso a Zilïante,
     E ben che sian germani ogni om avisa,
     Però che l’uno a l’altro è simigliante,
     Benché la etate alquanto li divisa.
     Or chi direbbe le carezze tante
     Che Brandimarte fece a Fiordelisa?
     E poi che tutti in festa e zoia sono,
     Bardino ebbe ancor lui dal re perdono.

45 Gionti dapoi nel suo real palagio,
     Che al mondo de ricchezza non ha pare,
     A festeggiar se attese e stare ad agio;
     E ’l conte in summa fece battizare
     Il re coi figli e tutto il baronagio,
     A benché alquanto pur vi fu che fare;
     Ma Brandimarte seppe sì ben dire,
     Che ’l patre e gli altri fece seco unire.

46 Fôrno anche tratti della prigion fuore
     Ranaldo, Astolfo e gli altri tutti quanti,
     E fu lor fatto imperïale onore,
     E tutti rivestiti a ricchi manti.
     Una donzella con occhi d’amore,
     Leggiadra e ben accorta nei sembianti,
     Ne vene in sala; e tante zoie ha in testa,
     Che sol da lei splendea tutta la festa.

47 Ciascun guardava il viso colorito,
     Ma non la cognosceano assai né poco,
     Eccetto Orlando e Brandimarte ardito:
     Lor duo l’avean veduta in altro loco.
     Questa gabbò già il suo vecchio marito
     (Non so se ve amentati più quel gioco),
     Quando fu presa con le palle d’oro;
     E lei ne fece poi doppio ristoro,

48 Facendo Ordauro sotterra venire,
     Che istoria non fu mai cotanto bella.
     Voi la sapeti e più non la vo’ dire,
     Se non contarvi che questa donzella
     Brandimarte la trasse di martìre,
     Né alor sapea che fusse sua sorella,
     Quando da lui e dal conte de Anglante
     Occisi fôr Ranchera ed Oridante.

49 E quivi la cognobbe per germana,
     Abbracciandosi insieme con gran festa,
     E ramentando a lei l’erba soprana
     Che già l’avea guarito della testa,
     Quando Marfusto a lato alla fontana
     L’avea ferito con tanta tempesta;
     Ed altre cose assai che io non diviso
     Dicean tra lor con festa e zoia e riso.

50 Dapoi che molti giorni fôr passati,
     Che tutti consumarno in suono e in danza,
     Dudone una matina ebbe chiamati
     Tutti quei cavallieri in una stanza,
     Narrando a loro e populi adunati
     Con Agramante per passare in Franza,
     E come era già armato mezo il mondo
     Per por re Carlo e i Cristïani al fondo.

51 Ranaldo e Astolfo s’ebbe a proferire
     Alla difesa de Cristianitate,
     Per la sua fede e legge mantenire,
     Insin che in man potran tenir le spate.
     Seco non volse Orlando allora gire,
     Né so dir la cagione in veritate,
     Se non ch’io stimo che superchio amore
     Li desviasse da ragione il core.

52 Il dipartir di lor non fu più tardo;
     Passarno insieme il mare a mano a mano.
     Ranaldo salì poi sopra a Baiardo,
     E ’l duca Astolfo sopra Rabicano.
     Orlando a Brandimarte fie’ riguardo,
     E molto il prega con parlare umano
     Che ritornasser Zilïante ed esso
     A star col patre, che ha la morte apresso.

53 Ma non si trova modo né ragione
     Che Brandimarte voglia ritornare;
     Pur Zilïante se piegò; il garzone
     Di novo a Damogir tornò per mare.
     E Brandimarte è salito in arcione,
     Ché Orlando mai non vôle abandonare;
     Ambi passarno via quel tenitoro
     Sino al castello ove era Brigliadoro.

54 Al conte fu il destrier restituito,
     E fatto molto onor dal castellano.
     Il duca Astolfo prima era partito,
     E Dudon seco e il sir de Montealbano.
     Quel figlio del re Otone era guarnito
     De l’arme d’oro, e la sua lancia ha in mano,
     E cavalcando gionse una matina
     Al castel falso de la fata Alcina.

55 Alcina fu sorella di Morgana,
     E dimorava al regno de gli Atàrberi,
     Che stanno al mare verso tramontana,
     Senza ragione immansueti e barberi.
     Lei fabricato ha lì con arte vana
     Un bel giardin de fiori e de verdi arberi,
     E un castelletto nobile e iocondo,
     Tutto di marmo da la cima al fondo.

56 E tre baroni, come aveti odito,
     Passarno quindi acanto una matina,
     E mirando il giardin vago e fiorito,
     Che a riguardar parea cosa divina,
     Voltarno gli occhi a caso in su quel lito
     Ove la fata sopra alla marina
     Facea venir con arte e con incanti
     Sin fuor de l’acqua e pesci tutti quanti.

57 Quivi eran tonni e quivi eran delfini,
     Lombrine e pesci spade una gran schiera;
     E tanti ve eran, grandi e piccolini,
     Ch’io non so dire il nome o la manera.
     Diverse forme de mostri marini,
     Rotoni e cavodogli assai vi ne era;
     E fisistreri e pistrice e balene
     Le ripe aveano a lei d’intorno piene.

58 Tra le balene vi era una maggiore,
     Che apena ardisco a dir la sua grandeza,
     Ma Turpin me assicura, che è lo autore,
     Che la pone due miglia di lungheza.
     Il dosso sol de l’acqua tenea fuore,
     Che undici passi o più salia d’alteza,
     E veramente a’ riguardanti pare
     Un’isoletta posta a mezo il mare.

59 Or, come io dico, la fata pescava,
     E non avea né rete né altro ordegno:
     Sol le parole che all’acqua gettava
     Facea tutti quei pesci stare al segno;
     Ma quando adietro il viso rivoltava,
     Veggendo quei baron prese gran sdegno
     Che l’avesser trovata in quel mestiero,
     E de affocarli tutti ebbe in pensiero.

60 Mandato avria ad effetto il pensier fello,
     Ché una radice avea seco recata,
     Ed una pietra chiusa entro uno annello,
     Quale averia la terra profondata;
     Solo il viso de Astolfo tanto bello
     Dal rio voler ritrasse quella fata,
     Perché mirando il suo vago colore
     Pietà gli venne e fu presa d’amore.

61 E cominciò con seco a ragionare
     Dicendo: - Bei baroni, or che chiedete?
     Se qua con meco vi piace pescare,
     Bench’io non abbia né laccio né rete,
     Gran meraviglia vi potrò mostrare
     E pesci assai che visti non avete,
     Di forme grande e piccole e mezane,
     Quante ne ha il mare, e tutte le più strane.

62 Oltra a quella isoletta è una sirena:
     Passi là sopra chi la vôl mirare.
     Molto è bel pesce, né credo che apena
     Dece sian visti in tutto quanto il mare. -
     Così Alcina la falsa alla balena
     Il duca Astolfo fece trapassare,
     Quale era tanto alla ripa vicina,
     Che in su il destrier varcò quella marina.

63 Non vi passò Ranaldo, né Dudone,
     Ché ognom di loro avea de ciò sospetto,
     E ben chiamarno il figlio del re Otone,
     Ma lui pur passò oltra a lor dispetto.
     Ben se ’l tenne la fata aver pregione
     E poterlo godere a suo diletto:
     Come salito sopra al pesce il vide,
     Dietro li salta e de allegrezza ride.

64 E la balena se mosse de fatto,
     Sì come Alcina per arte comanda.
     Non sa che farsi Astolfo a questo tratto,
     Quando scostar se vidde in quella banda;
     Lui ben se pone al tutto per disfatto,
     E sol con preghi a Dio si racomanda,
     E non vede la fata né altra cosa,
     Benché li presso a lui si era nascosa.

65 Ranaldo, poi che il vidde via portare
     In quella forma, fu bene adirato;
     Pur se destina in tutto de aiutare,
     Benché contra sua voglia ivi era andato:
     Sopra Baiardo se caccia nel mare
     Dietro al gran pesce, come disperato.
     Quando Dudone il vidde in quella traccia,
     Urta il destriero, e dietro a lui se caccia.

66 Quella balena andava lenta lenta,
     Ché molto è grande e de natura grave;
     De giongerla Ranaldo se argumenta,
     Natando il suo destrier come una nave.
     Ma io già, bei segnor, la voce ho spenta,
     Né ormai risponde al mio canto suave,
     Onde convien far ponto in questo loco.
     Poi cantarò, ch’io sia posato un poco.