Novelle gaje/La pipa dello zio Bernhard
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LA PIPA DELLO ZIO BERNHARD
novella che potrebbe anche parere tedesca.
Poffare, che caso! Ell’era forse sparita?
Che avrebbero detto le buone comari di Metzgerplatz, e chi avrebbe preparato a lui, Joseph, del vero sauerkraut alla tedesca, poichè nè Elisabet, la figlia, nè Trudchen, la serva, sapevano cucinare alla perfezione come madama Gretchen Goldbacher?
Esistevano forse nella pacifica città di Lindau don Giovanni capaci di rapire la moglie di un borgomastro... — e dentro il proprio letto? — chè alla sera egli l’aveva proprio veduta, mentre inginocchiata sul talamo, annodava intorno al capo l’ampio fazzoletto di madras; e aveva sentito colle proprie orecchie il solito gute-nacht che da vent’anni cullava i suoi dolci sogni.
— Ah! madama Gretchen, madama Gretchen, me l’avete fatta grossa! — mormorò l’onesto magistrato, rizzandosi a sedere e girando intorno alla camera nuziale le sue pupille tonde e stupefatte. — Dovrò io scendere dal letto e cercarvi per tutta la casa, per tutta la contrada magari, infida Gretchen?
L’ombra di questi tristi pensieri oscurava la fronte del pacifico borgomastro, contrastando col florido vermiglio delle sue guancie che simili a due mele moscatelle gli pendevano da una parte e dall’altra e tremolavano ad ogni scossa della testa.
— Per fermo se l’assenza si prolunga, io dovrò scendere dal letto — continuò il brav’uomo gettando uno sguardo melanconico alle sue pantofole ovattate sulle quali Elisabet aveva profuso dei vergiess-mein-nicht di lana e seta con certe perline bianche, trasparenti, che dovevano simulare la rugiada.
Questa idea della rugiada sulle pantofole è così tedesca... Basta; ascoltiamo il soliloquio dell’infelice marito:
— Posso io ammettere il caso ch’ella sia andata a preparare la pasta per i krapfen, onde averli pronti domani all’ora della colazione? No, è troppo presto — concluse, osservando che la sfera del suo grosso orologio d’argento segnava appena le due. — Forse Elisabet si sente male? ma è impossibile; mia figlia non si sente mai male. Orsù, m’avvedo che dovrò discendere; e tuttavia se ella è in casa ritornerà; se è fuggita, come faccio a inseguirla? Calmati, calmati, Joseph, tu hai un naturale eccessivamente vivace. Andiamo; bisogna ragionare con tranquillità.
Faceva un po’ freddo e il degno borgomastro si tirò le coltri sul naso.
— Vediamo, calcoliamo tutte le ipotesi probabili. Gretchen è una donna assennata, casalinga, affezionatissima alla famiglia; non avrà aspettato a perdere la testa proprio questa notte, dopo vent’anni di matrimonio! a meno che fosse questa la notte del Giudizio universale e per evitare scandali abbiano incominciato dalle donne!
Sorrise egli stesso della sua lepidezza e voltandosi sull’altro fianco:
— Io ho un’immaginazione assai feconda in verità; ciò deve nuocere al benessere generale dell’organismo; la sovrabbondanza dei pensieri dimagra... Gretchen, che brutto tiro mi hai giocato! Se fossi certo di non pigliare una infreddatura vorrei arrischiarmi fino alla camera di Elisabet; ma c’è di mezzo quel corridoio dove soffia un vento perenne; converrà vi faccia porre un’impannata; sarà molto ben fatto. Ma intanto chi mi consiglia?
Un improvviso slancio di coraggio decise Joseph Goldbacher a rigettare le coltri e teneva ancora una gamba sospesa, quando Gretchen entrando improvvisamente col lume in mano, gli suggerì il pensiero di ritirarla; ciò che egli fece col massimo piacere, rimproverandosi in cuor suo di essere stato troppo impetuoso e sollecito.
— Gretchen, mia buona moglie, mi fai passare una perfida notte, e il tuo madras è di traverso.
— Ah! Joseph, quale disgrazia ci ha colpiti! — esclamò la donna, arrotondando sul fianco il suo braccio muscoloso, così che presentava tutt’insieme l’aspetto di una leggiadra bastardella col manico. — Hanno rubato la pipa dello zio Bernhard!
— La pipa dello zio Bernhard! — ripetè il borgomastro con una leggiera velleità di ricacciare fuori la gamba; velleità, m’affretto a dirlo, che fu subito repressa. — E come avvenne ciò, mia buona Gretchen? La nostra casa è forse in possesso dei ladri?
— Dormivo — rispose Gretchen, senza avvedersi che il madras, moltiplicato colla camicia dava un prodotto abbastanza incerto — dormivo e mi svegliò un rumore nella sala da pranzo. Balzai allora dal letto...
— Turbolenta Gretchen! Non hai dunque riflettuto ai pericoli che potevi incorrere?
— No, amico mio. Cedendo a un moto subitaneo volai nel salotto, ma sulle prime non vidi nulla...
— Se venissi a letto, Gretchen, colomba mia? Io son tutto assiderato e muoio per impazienza di sentire come sparve la pipa dello zio. Non c’è esempio ch’io abbia mai passato una notte come questa; ammalerò di sicuro; vieni a letto, Gretchen.
— Non vidi nulla — proseguì Gretchen coricandosi a fianco dello sposo — ma non volli darmi per vinta e rovistai in ogni angolo...
— Imprudente donna!
— Finchè mi accorsi di un vuoto al di sopra della stufa; oimè, la pipa non era più appesa al suo bel cordone verde.
— Quello che tu racconti è meraviglioso. Mi faresti credere di essere a Balsora o a Bagdad, dove ai tempi del califfo Aaron-al-Raschid succedevano tali strane avventure. S’è mai udito di un ladro che si introduce di notte in una casa per rubare una pipa?
— Non pare verosimile infatti, poichè vi sono le nostre belle posate d’argento e la tua catena d’oro, Joseph, e la mia collana di perle; no, qui vi è un mistero.
— Un mistero! — borbottò il borgomastro — un mistero nella mia amministrazione, nel mezzo della mia buona e pacifica città di Lindau! Gretchen, te ne scongiuro in nome del nostro amore, non parliamo più di questa faccenda. Sento che domattina non avrò appetito.
— Joseph — riprese la donna incrociando le sue mani grassoccie sopra la rimboccatura del lenzuolo — m’è venuto un sospetto. Non potrebbe essere l’anima dello zio Bernhard ch’è venuta a riprendere la sua pipa?
— Gretchen — disse l’onesto magistrato con voce solenne — vi sono tali argomenti che la gente timorata non affronta mai. Prega pace all’anima dello zio Bernhard e procura di addormentarti come intendo di fare io. Senti? Suonano le ore a tutti e due gli orologi di Marktplaz — sono le tre. Ti pare che una buona cristiana debba vegliare ancora? Dormi tranquilla Gretchen, domani schiariremo la cosa.
Su questa saggia conclusione i due sposi chiusero gli occhi.
Ben tosto la camera ripercosse il russare sonoro e prolungato di Joseph Goldbacher, mentre il sonno di Gretchen, più leggero, tradiva l’inquietudine.
Il sole — un pallido sole di febbraio — aveva già baciato le onde azzurrine dove Lindau si bagna, vaga nereide del lago di Costanza; il borgomastro e la sua fida consorte dormivano della grossa.
Nel salotto riscaldato dall’enorme stufa di terracotta e dove si schieravano in bell’ordine i seggioloni coperti di cuoio a grosse borchie lucenti, Elisabet stendeva la tovaglia sul nero e massiccio tavolo di quercia, intorno al quale si erano allargate le pancie di ben quattro generazioni di Goldbacher.
La ragazza sembrava molto mesta.
Sotto le palpebre che ombreggiavano i suoi quieti occhi, sfuggiva tratto tratto una lagrimuccia che non arrivava a cadere perchè le guancie pienotte la raccoglievano e vi si stemperava sopra, luccicando, come una pioggia lieve sulle foglie di una rosa.
Ora guardava i tetti grigi e acuminati delle case vicine, ora un giacinto che faceva capolino da una bottiglia tra i doppi vetri della finestra; ma più spesso un posto vacante alla gran tavola di quercia, un posto dove ella avrebbe messo volontieri la posata, ma che l’ordine formale di Joseph Goldbacher doveva lasciare vuoto.
A un tratto, nello specchietto che appeso fuori della finestra secondo l’uso di Germania, rifletteva la porta della casa e con essa le persone che entravano o che uscivano, Elisabet vide disegnarsi la snella figura di un giovinetto e arrossendo tutta per improvvisa emozione si slanciò nell’erker, balconcino coperto di vetri dal quale si domina tutta la contrada.
Il giovinetto sollevò la testa, la vide e le fece un cenno grazioso che voleva dire: coraggio! Poi sparve con aria affrettata e giuliva.
Elisabet, non sapendo cosa pensare e male accordando la felicità del giovinetto colla propria malinconia, se ne stava muta contemplando l’angolo per dove era scomparso, quando entrò la grossa Trudchen con un piatto fumante di schibling in una mano e una insalata di patate nell’altra.
Nel passare accanto alla fanciulla inchinò verso lei il suo volto pavonazzo dove due occhietti grigi facevano l’impossibile per mostrarsi maliziosi e susurrò:
— Eh! signorina, l’avete visto il giovane Hans?
— Non so quello che vuoi dire, Trudchen...
— Andate là che ho capito tutto! e le occhiatine tenere di Hans e i vostri rossori e i vostri turbamenti; e ditemi un po’ perchè il padrone non vuole più che Hans sieda alla tavola comune? Tutto per voi, signorina, per il vostro bel sorriso! Intanto il povero ragazzo pranzerà nella sua camera dove fa freddo e dove io non potrò portargli che quello che resterà sui piatti. Io almeno di questi rimorsi non ne ho; per colpa mia nessun giovane dabbene ha sofferto mai. No.
Elisabet era tanto persuasa di questo che non tentò opporsi; solo mormorò, coprendosi gli occhi col grembiale:
— Credi forse, Trudchen, che io sia senza cuore? Ho pianto tanto quando papà ha fatto quell’intemerata al signor Hans.
— Dite pure Hans semplicemente, chè colla vecchia Trudchen non c’è bisogno di complimenti. Tiriamo via — cosa ha concluso il vostro pianto?
— Lo ignoro... ma io non so far altro!
— Uh! — fece Trudchen con aria di disprezzo — siete proprio un pulcino bagnato come vostro padre.
— Ma tu che faresti, Trudchen? — domandò la fanciulla sollevando i suoi begli occhi celesti.
— Io? Io non ne ho mai avuti de’ cascamorti; ma se un uomo mi amasse sinceramente come vi ama il povero Hans, non ne vorrei sapere d’altri.
— Ed io forse ne ho degli altri?
— Non so nulla; quel signore Nicolas Strübelmeyer che viene qui tutte le domeniche a portarvi un mazzo di fiori, e quell’imbrattacarte di Rinkelin che ha osato paragonarvi ad una stella, e chi ancora! Insomma, io dico che quando si ha la fortuna in casa non bisogna lasciarsela sfuggire.
Elisabet stimò che fosse meglio non aizzare la vecchia brontolona; senza rispondere asciugò gli occhi e mosse incontro a’ suoi genitori che si presentavano per l’appunto sull’uscio del salotto.
Gretchen abbracciò la figlia, intanto che Joseph colle mani dietro la schiena si era fermato a guardare il cordone, già sostegno della pipa famosa.
È d’uopo dire che il secondo sonnellino aveva maturato il dispiacere del borgomastro e se di notte, nel suo letto caldo, nel momento della digestione e della riparazione delle forze, non gli era parso il punto giusto per imbizzire, ora, al contrario, fresco, riposato, collo stomaco digiuno, montò gradatamente in collera finchè gli uscirono dalla bocca queste esclamazioni:
— La pipa dello zio Bernhard! rubarmi la pipa dello zio Bernhard! Ma non sapete che se arrivo a scoprire il ladro lo faccio chiudere in prigione sotto la condizione implicita di lasciarlo morire di fame? Non sapete di che cosa è capace un Goldbacher quando viene offeso ne’ suoi più legittimi affetti?
In tutta la sua vita di cittadino e di borgomastro non aveva mai parlato con tanta veemenza.
Gretchen, Trudchen ed Elisabet ascoltavano in silenzio; quest’ultima un po’ distratta — senonchè Trudchen interruppe la filippica avvertendo che i schibling si raffreddavano.
Argomento più convincente non si poteva opporre alla furia del degno magistrato, che sedette subito nel più vasto dei seggioloni ed appendendosi al collo il nitido tovagliolo delibò con vero olfato di gastronomo il profumo della vivanda nazionale.
Gretchen sedette alla sua destra, Elisabet alla sinistra Trudchen girando intorno al tavolo lanciava occhiate torve al posto del giovane Hans.
Elisabet, incapace di trovare un’occhiata torva nel fondo sereno delle sue pupille, guardava timidamente e sospirava.
— Dove sarà a quest’ora... — pronunciò con lentezza Joseph Goldbacher perchè aveva la bocca piena.
— Hans? — interruppe la vecchia ringhiosa.
— No — corpo di Bacco! Chi osa nominare qui quel briccone? Io penso al ladro della pipa.
— Ed io al povero ragazzo.
— Non vi si chiede a che cosa pensate, vecchia Trudchen, ma se assolutamente volete occuparvi, riempite la mia tazza di birra.
Trudchen riempì la tazza e se ne andò in cucina; prima per borbottare e poi per nascondere sotto il grembiale il più grosso dei schibling destinato al giovane Hans.
In proporzione inversa dei cibi che calavano nel suo stomaco, la facondia del borgomastro scemava; ed anche la sua collera non era omai più che una tristezza muta scioglientesi in grugniti gutturali.
Quanto a Gretchen, la buona creatura non poteva togliersi di mente che l’anima stessa dello zio Bernhard fosse venuta a riprendere la sua pipa.
⁂
Perchè una pipa potesse mettere tanto scompiglio in quella pacifica famiglia bavarese doveva essere per lo meno una pipa diversa da tutte le altre.
Ma non solo la pipa dello zio Bernhard si distingueva per la bizzarria della forma e l’accuratezza della fattura; essa aveva un merito ben più grande agli occhi dei Goldbacher.
Lo zio Bernhard, tornitore emerito, l’aveva lavorata per l’occasione importante del suo debutto nell’arte; quella pipa gli aveva valso il titolo di primo tornitore della città.
Era di una bella radica chiara sagomata in una foggia totalmente estranea, con profonde scanalature diagonali e sormontata da un arabesco in corno di cervo, dal quale si slanciava, attorcigliandosi in spire originali, la cannuccia di bosso. Dall’una all’altra estremità misurava un braccio abbondante e quando veniva messa in comunicazione coi polmoni robusti di Joseph Goldbacher, svolgeva onde di fumo cinereo meglio che uno stantufo da locomotiva.
Joseph Goldbacher, tornitore anche lui, l’aveva ereditata dallo zio coll’obbligo di trasmetterla alle più remote generazioni, e l’onesto borgomastro la teneva in tanto rispetto che permettevasi di fumarla appena nelle circostanze più solenni.
Appesa al di sopra della stufa, spolverata religiosamente ogni mattina dalle bianche mani di Gretchen — (Trudchen non le dimostrava una sufficiente venerazione) — veniva considerata il dio Penate della famiglia.
Se Joseph Goldbacher avesse avuto un figlio, quello doveva essere l’oggetto più prezioso della eredità paterna; ma il Signore che diede un figlio a Giuseppe benchè marito putativo e un figlio a Sara benchè sterile da sessant’anni, non volle usargli che la misericordia di una figlia — la bionda Elisabet rappresentava tutta la sua discendenza.
Due o tre anni addietro il borgomastro tornitore aveva avuto la cattiva idea (e se ne pentiva ora amaramente) di prendersi in casa un allievo, figlio di un suo antico amico, per addestrarlo nell’arte propria; ma il giovane Hans, sebbene di ingegno svegliatissimo, mostrava così poca disposizione al lavoro che Joseph Goldbacher disperava di poterne mai cavar fuori nulla di buono.
Era un monelluccio di diciannove anni colla fisonomia intelligente e gli occhi neri — ragione segreta dei sospiri di Elisabet — vivo, come a Lindau non è viva nemmeno la polvere e così destro, così sagace che all’infuori del borgomastro erasi accaparrati tutti i cuori della casa. La vecchia Trudchen si sarebbe fatta ammazzare per lui e Gretchen aveva molte volte interposto la sua parola per rabbonire il marito, quasi sempre malcontento del suo indocile allievo.
Si sentiva tanto tranquillo, lui, il florido borgomastro, che non capiva la irrequietezza di quel ragazzo, e ciò che era semplice bollore giovanile acquistava nel suo cervello le proporzioni di un carattere sfrenato e indomabile.
La minaccia che faceva maggior impressione al giovane Hans era questa: Ti manderò al tuo paese.
Fürth, il suo paese, eragli diventato odioso dacchè a Lindau viveva la dolce Elisabet; d’altronde a Fürth il povero ragazzo non aveva altri parenti che un vecchio prete.
La passioncella dei due giovani era cresciuta chetamente, all’ombra tranquilla della famiglia, presso la grande stufa di terra verniciata e dipinta dove Elisabet scaldava le sue manine e dove Hans faceva degli studi sulla combinazione dei colori, risultando in definitiva che il più bello azzurro stava negli occhi di Elisabet e l’oro più smagliante era quello de’ suoi capelli.
Dichiarazioni non ne erano corse molte. Si guardavano, arrossivano, scordavano insieme l’ora del pranzo, si stringevano qualche volta la mano se accadeva che le loro mani si incontrassero errando sulla stufa...
Una volta la fanciulla gli aveva dato un fiore e un mese dopo egli le mostrò che lo conservava ancora, sul cuore, s’intende e chiuso in una specie di tempietto di carta, dove era scritto: E. H. eternamente.
Come due rondinelle che hanno sospeso il nido sotto il medesimo tetto, i due innamorati vivevano di pagliuzze e di canzoni, di sguardi e di sorrisi.
La vecchia Trudchen che aveva scoperto l’idillio pensava: sono fatti l’uno per l’altra; e nel pensarlo brontolava, poichè tanto la gioia che il dolore trovavano in lei un’unica manifestazione, che era quella di ringhiare come un cane da pagliaio.
Gretchen, massaia infaticabile, tutta assorta nella manipolazione del sauerkraut e dei krapfen, sempre colle maniche rimboccate e le braccia coperte di farina, non sospettava nulla.
Fu un vero scoppio di bomba il giorno che Hans, seduto cogli altri intorno alla tavola di quercia e visto che la birra spumeggiava allegramente nel bicchiere del borgomastro accendendo ne’ suoi occhi scintilluccie di soddisfazione, si levò in piedi e con un certo garbo tutto proprio disse:
— Joseph Goldbacher, io avrei qualche cosa da dirvi.
La meraviglia più sincera si dipinse in volto al borgomastro; Gretchen girò intorno gli sguardi trepidanti intanto che Elisabet, impadronitasi d’un piatto vuoto, riparava in cucina.
Allora il giovane Hans spiegò le sue intenzioni; ma Joseph Goldbacher non lo lasciò finire.
Il degno magistrato trovava eccessivamente ardita questa pretesa alla mano di sua figlia. Elisabet era una ragazza per bene, educata, gentile e con una dote discretina. — Hans un discolaccio senza giudizio, senza abilità, senza avvenire. Concluse:
— Come potresti tu mantenere una famiglia?
— Lavorando — rispose Hans con rispettosa sicurezza.
— Ma se non sai lavorare?
— Oh! sì, so lavorare quando ho voglia e per Elisabet lavorerò.
— No, tu non farai mai nulla di bene.
Proteste da una parte, negazioni dall’altra; il giovane Hans era un po’ bollente, Goldbacher digeriva male e ne nacque una mezza lite che Gretchen dovette interrompere pregando Hans a ritirarsi.
Da due giorni appena era accaduto questo fatto che doveva decidere Joseph a rimandare a Fürth il suo allievo, e per intanto lo aveva bandito dall’intimità di famiglia, obbligandolo a restare nella propria camera, quando la sparizione della pipa sopraggiunse come un nuovo incubo nel placido corso della sua vita.
Un pensiero doloroso era già troppo per il suo cervello — due lo atterrarono.
Simile a un marinaio che ha perduto la bussola (supplico tutti i marinai dell’universo a perdonarmi il paragone) Joseph Goldbacher non sapeva da qual parte voltarsi, ove dirigersi, come incominciare.
Tra Hans, la pipa e i sospiri di sua figlia il pacifico cittadino di Lindau dimagrava a vista d’occhio. Gretchen, la buona e tenera Gretchen, aveva già dovuto per ben due volte stringere la fibbia del suo panciotto — e più che mai persuadevasi della presenza degli spiriti nella sua casetta, una volta così gaia e serena!
⁂
Una domenica, era il giorno natalizio del borgomastro, la famigliuola doveva riunirsi per festeggiarlo nella solita camera coi seggioloni di cuoio e la stufa verniciata; l’erker era tutto pieno di fiori e un bel mazzo di fiori campeggiava dentro un vaso di maiolica sul tavolo di abete.
Gretchen aveva dei nastri azzurri ed Elisabet un vestito rosa; appendevano entrambe festoni di edera alle pareti, ma Gretchen impallidì nel coprire con un ramo il posto vuoto al di sopra della stufa — il posto dove c’era una volta la pipa dello zio Bernhard.
Elisabet non sospirava quasi più, ma pareva un’ombra delle leggende germaniche.
Entrò Joseph Goldbacher.
— Ah! la è finita — esclamò egli lasciandosi cadere nel suo seggiolone — ho perduto la salute e il buon umore. Non mi riconosco più.
Trudchen che, standosene in cucina coll’uscio aperto, aveva sentito queste parole incominciò a borbottare rimestando furiosamente un vassoio pieno di crema:
— È il Signore che vi castiga, Joseph Goldbacher; dal dì che avete cacciato il povero Hans la maledizione è piombata sulla vostra casa.
Nessuno udì per fortuna.
— Fatti coraggio — diceva dal canto suo la buona Gretchen — chi sa che non ritroviamo la pipa! e quanto al ragazzo...
— Non me ne parlare.
Elisabet soffocò un singhiozzo.
Era una bella giornata, ma il sole batteva indarno sui piccoli vetri della finestra facendo sbocciare i giacinti; la gioia aveva disertato da quella camera e l’antico impiantito di legno che scricchiolava sotto i piedi sembrava lagnarsi che un Goldbacher fosse così malinconico in un giorno di festa; proprio quando il piacere doveva illuminare la sua faccia rubiconda e spargere per tutti i pori quella calma soddisfazione che fa prosperare, più che altri sotto il cielo, il buon popolo tedesco.
— Vediamo, Elisabet, che cosa m’hai preparato? Cosa nascondi nel grembiale? — Il borgomastro fece queste domande per cacciare i pensieri fastidiosi.
La fanciulla si avanzò presentando un berretto greco ricamato in oro.
— Oh! oh! oh! Come deve star bene la mia faccia bavarese sotto questo berretto alla Botzari — e tutto sorpreso di aver potuto ridere tornò a fare: — oh! oh! oh!
In quel punto una voce simpatica e virile si fece udire accanto all’uscio di cucina.
— È permesso?
Prima che alcuno si desse la briga di rispondere, Hans si trovava già nel mezzo della camera.
I tre personaggi si atteggiarono stupefatti in pose differenti. Il borgomastro col suo berretto in mano e colla bocca singolarmente imbarazzata tra il riso recente e le parole aspre che si credeva in obbligo di pronunciare; Gretchen disposta tutta quanta all’indulgenza; Elisabet rialzandosi sfolgorante come un eliotropio che rivede il sole.
— Joseph Goldbacher — pronunciò il giovane senza iattanza, ma con un raggio di trionfo nello sguardo — io vi ho chiesto la mano di vostra figlia e me l’avete negata perchè sono un discolo, perchè non ho voglia di lavorare, perchè non so lavorare. È vero?
Il borgomastro accennò di sì.
— Ebbene, io non so lavorare ve lo concedo, ma sono qui per dimostrarvi che la volontà non mi manca. Sapete chi è venuto a portar via di notte la pipa dello zio Bernhard? Io. Sapete perchè l’ho portata via? Per copiarla; perchè credevo di potervi riuscire e darvi una prova della mia abilità. Mancai al còmpito, ma vedete, Joseph Goldbacher, che la buona intenzione c’era. Ora vi rendo la pipa dello zio Bernhard.
Il borgomastro la prese, la rimirò, riconobbe la macchia della radica, la perfezione della tornitura, la finezza colla quale era trattata la cannuccia di bosso e prorompendo nella più sonora, nella più omerica risata che avesse mai fatto traballare il suo grosso ventre, esclamò:
— Povero pazzo che credeva di eguagliare lo zio Bernhard.
— Convenite — ripetè il giovane — che il mio tentativo, benchè ardito, non mancava di un certo buon senso. Non mi avreste concesso la mano di Elisabet se io mi dimostravo così buon tornitore?
— La mano di Elisabet? — gridò il borgomastro. — Io ti avrei abbracciato come figlio, come degno successore dei Goldbacher!
— Abbracciatemi allora, perchè la pipa che avete in mano l’ho fatta io. Ecco qui quella dello zio Bernhard.
E sì dicendo il giovane Hans presentò una pipa in tutto eguale all’altra.
La meraviglia, la gioia, la sorpresa più impensata scosse tutti i cuori. Elisabet piangeva e rideva. Gretchen rideva solamente.
La vecchia Trudchen, balzando fuori dalla cucina, gettò le braccia al collo di Hans e di quel trasporto di felicità restarono le tracce sui piccoli baffi di Hans che si tinsero di crema.
Lo stupore più profondo lo sentiva Joseph Goldbacher.
Rapito nella contemplazione di quei due capolavori s’era posto in testa, per non sapere dove metterlo, il berretto greco, e tra le varie sensazioni che lo agitavano, tra le pipe, tra il berretto aveva un’aria così tragicamente comica, così umoristica che Rembrandt lo avrebbe preso per modello.
Ma se per lo stupore il borgomastro primeggiava, l’estasi era tutta dei due giovani. Si guardavano e credevano di vedere aperto il paradiso.
Ah! come finì bene quel giorno di festa che aveva avuto un così brutto principio!
Il giovane Hans tornò a sedere intorno alla mensa giuliva e l’ampio piatto di crema fece il giro allegramente, fiancheggiato dalla schietta birra di Baviera.
Dopo pranzo, Joseph Goldbacher fumò nella pipa dello zio Bernhard, e tra un buffo e l’altro si lasciò sfuggire queste parole:
— Bisognerà bene inaugurare anche l’altra pipa, ma il giorno — guardò Hans che sfavillò, guardò Elisabet che arrossì — il giorno lo fisserete voi due!
Tolte le due occasioni di cui parla questa novella, nessuno vide mai una nube sulla fronte serena di Joseph Goldbacher e la tradizione assicura ch’egli fu il borgomastro più lieto e più felice della pacifica città di Lindau.