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La pipa dello zio Bernhard. | 167 |
veniva messa in comunicazione coi polmoni robusti di Joseph Goldbacher, svolgeva onde di fumo cinereo meglio che uno stantufo da locomotiva.
Joseph Goldbacher, tornitore anche lui, l’aveva ereditata dallo zio coll’obbligo di trasmetterla alle più remote generazioni, e l’onesto borgomastro la teneva in tanto rispetto che permettevasi di fumarla appena nelle circostanze più solenni.
Appesa al di sopra della stufa, spolverata religiosamente ogni mattina dalle bianche mani di Gretchen — (Trudchen non le dimostrava una sufficiente venerazione) — veniva considerata il dio Penate della famiglia.
Se Joseph Goldbacher avesse avuto un figlio, quello doveva essere l’oggetto più prezioso della eredità paterna; ma il Signore che diede un figlio a Giuseppe benchè marito putativo e un figlio a Sara benchè sterile da sessant’anni, non volle usargli che la misericordia di una figlia — la bionda Elisabet rappresentava tutta la sua discendenza.
Due o tre anni addietro il borgomastro tornitore aveva avuto la cattiva idea (e se ne pentiva ora amaramente) di prendersi in casa un allievo, figlio di un suo antico amico, per addestrarlo nell’arte propria; ma il giovane Hans, sebbene di ingegno svegliatissimo, mostrava così poca disposizione al lavoro che Joseph Goldbacher disperava di poterne mai cavar fuori nulla di buono.
Era un monelluccio di diciannove anni colla fisonomia intelligente e gli occhi neri — ragione segreta dei sospiri di Elisabet — vivo, come a Lindau non è