Novelle (Cademosto)/Novella V
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NOVELLA V.
Quanto più agli strani effetti del carnale amore si considera, tanto più egli suole di ammirazione porgere. Perocchè, oltra molti strabocchevoli accidenti che in quello tutto di veggiamo avvenire, questo è uno de’ maggiori che il più delle volte inchina i nostri cuori ad amare sfrenatamente cosa, la quale poi perpetua vergogna ne partorisce. Si come, non è ancora guari di tempo, che nella città di Ferrara fu un cozzone napolitano, il cui nome era Giulio, giovane bello et atto della persona, il
quale non come cozzone, ma a guisa di gentiluomo leggiadro et onorevole andava. Ora avvenne che un dì cavalcando costui un bel palafreno, et lungo le case d’una gentildonna passando, per nome Laura chiamata, da lei fu veduto. La quale, sì atto della persona et piacevole del viso veggendolo, più et più volte intentissimamente guatatolo, et stranamente piaciutole, di lui si innamorò. Et poi più volte a questo suo amore pensando, seco stessa avvisò la via che avesse a tenere, per averlo alli suoi piaceri. Perchè ripassando il cozzone a cavallo un’altra volta innanzi alle case della donna, et nulla però sapendo del desiderio di lei, di nuovo da quella riveduto, nè possendo più ella resistere ai fuocosi stimoli d’amore per una sua fante, di ciò consapevole lo fece chiamare. Perchè egli venuto, et sotto la finestra alla quale era la donna fermatosi, da lei fu con sommessa voce pregato che entrassi in casa, et del cavallo smontasse. Il che egli tantosto fece, attaccando il cavallo ad uno arpione del muro della corte. Madonna
Laura discesa altresì da basso, et da parte chiamatolo, prima intro seco in ragionamento di comprare una mula, poscia mandati fuora alcuni sospiri, et con occhi scintillanti riguardandolo, et tutta piena d’amore et con voce tremante gli disse: giovane, il vostro dolce aspetto m’ha sì fattamente accesa et vinta l’anima dal primo giorno ch’io vi vidi, ch’io fui sforzata essere più vostra che mia. Perchè, quanto più caramente posso, vi prego che l’amor mio vi sia a grado, et ora che M. Bernabò mio marito è a Modena, farmi contenta di voi, il quale io amo sopra tutte le altre cose del mondo et più che me stessa. Il cozzone ciò udendo, et quasi non sapendo se fusse sogno o veritade, et troppo alta ventura parendo alla sua bassa condizione, tutto timido divenne. Et intrandogli nell’animo tal cosa, per la nobilità della giovane portar seco non poco di pericolo, alquanto stette sopra di se. Poscia vedendola così bellissima, intrato in sommo desiderio, aiutato dalle forze d’amore, brevemente rispose, che non poca
obbrigazione gli pareva d’avere alli cieli et a lei, i quali si degnavano di onorarlo di tanta grazia quanta era la sua. Et quivi non parendo all’uno et all’altro esser commodo luogo et tempo a potere de’ loro desideri diffusamente parlare, che nel vero altro che parole a ciascuna delle parti sarebbe stato a grado, il cozzone alli piaceri et comandamenti della donna s’offerse. Et ella a lui una camera terrena mostrò, dicendogli, che ivi la seguente notte in su l’ora del mattutino lo attenderebbe; al qual tempo una sua fante, di cui molto si fidava, trovarebbe alla porta della via. Et subito cavatosi uno anello di dito, nel quale un precioso diamante era legato, gli lo diede, dicendo: questo vi dono per pegno del mio amore. Il cozzone delle dolcissime parole et del caro dono della donna lietissimo, di nuovo promettendole che farebbe quanto l’era a grado, rimontò a cavallo, et partissi, con sommo desiderio l’ora desegnatali della seguente notte aspettando. La qual venuta, tutto solo alla casa della donna andò; dove apertagli la
porta dalla fante, et chetamente ricevuto, da lei fu nelle braccia della bellissima giovane condotto. Et quivi, per comandamento di lei che tutta d’amoroso fuoco tremava, spogliatosi, et in sella più volte montato, gli mostrò in breve spazio quanto egli ben sapesse far trottare et andar di portante le cavalle. Et per sì fatta maniera in spazio di duoi mesi dandosi buon tempo, et l’uno dell’altro prendendo amoroso piacere (perocchè il marito suo Bernabò più di quattro altri mesi si stette di Ferrara assente), si andò la bisogna. Et Madonna Laura del costui amore ardendo, sì spessi et ricchi doni gli faceva, che egli ricco ne divenne. Ma l’invida fortuna, che l’umane felicitadi suol far brevi, volle fra tanta dolcezza del cozzone ponere della sua amaritudine. Perocchè, essendo, già di molto tempo passato, vinto dell’amore di questa donna un nobile cortigiano del duca di Ferrara, Ercole de’ Nigrisuoli nominato, pur cittadino ferrarese, giovane furtunato et ricco, ma infelicissimo del suo amore, il quale nè con prieghi, nè
con promissioni non potè unqua a’ suoi desideri tirarla (et che ne fussi la cagione non si sa), pur li cieli finalmente verso di lui divenuti benigni, in guidardone dei suoi lunghi affanni gli concessero di sapere (nè si sa come) che il cozzone li delicati abbracciamenti della sua crudel Laura si godeva. La qual cosa prima fu ad Ercole d’insopportabile dolore ad udire, et molto seco stesso della sua trista fortuna si dolse. Imperocchè giovane, nobile et bello et di molte virtuti ornato conoscendose, et lungamente avendo l’ostinata donna vagheggiata, et ciò che ad innamorato giovane appartiene, per lei fatto nè mai d’un sol lieto sguardo essendogli ella stata cortese, ora vedendone il cozzone posseditore, sopra ad ogni altro infelice si reputava. Ma amore eccitatore degli umani ingegni, et fortuna che le mondane cose breve momento in un termine lascia, lo fecero in pochi di lietissimo divenire. Imperocchè ritrovandosi egli un giorno, et sulla prima sera, quando già ogni lavoratore era partito, passando
di là via per sua malavventura il cozzone, fu da lui veduto, et incontanente chiamato. Il quale senz’altro pensiero colà giù disceso ove Ercole tutto solo si stava, fu da lui tratto da parte, et dettogli tal parole: cozzone, tu et io siamo ora qui senza altra persona, come che tu vedi; et io voglio saper da te una cosa, della quale benchè io sia certissimo, intendo nondimeno che tu medesimo la mi confessi. Et se il vero mi dirai, ti fie da me perdonato; dove, negandolomi, ti giuro che quivi sarà la tua morte et sepoltura. Aveva Ercole con le parole tratto fuora un pugnale; perchè il cozzone, per l’ora et il luogo et la fierezza del giovane divenuto timido, et parendogli già sentirsi dar per lo petto di quel pugnale, promesse, quanto egli sapesse, dirgli liberamente. Dimandato adunque da Ercole con viso turbato, quanto tempo era che veduto non aveva madonna Laura, moglie di Bernabò Lagnaiuoli, rispose che la passata notte poco men di due ore era stato con essa. Et da capo fattosi, gli
narrò tutta l’istoria del suo amore, et appresso gli aperse il modo et la via che teneva allo andar a lei. Ercole, il tutto ben inteso, lo licenzioe, prima giurandogli, che se mai con persona parlasse di questo fatto, che lo farebbe parere il più tristo uomo del mondo, et oltra ciò dicendogli, che per quanto la vita gli era cara, mai più non ardisse, non che d’andare alla donna o lettere mandarle, ma pur di passare innanzi alla casa di lei. Il cozzone, a cui parèva più d’un anno essere stato in così fatti ragionamenti, di partirsi desiderando, et parendogli continuamente d’aver la morte a lato, tosto con giuramenti gli promisse di osservare quanto gli imponeva, et buon servidore offerendosegli, da lui di subito si partì, come quello che dalle mani del diavolo credeva di uscire. Ercole, partito il cozzone, considerato circa ciò con amorosa sollecitudine quanto fu necessario, la seguente notte, al medesimo tempo che il cozzone soleva, con alcuni suoi secreti compagni alla casa della donna andò. Et la porta di strada, che chiavata non era,
soavemente sospingendo, solo entrò dentro. Et quivi al buio ritrovandosi, gran pezzo a tentone la camera di Laura cercò; nè ritrovandola, lungo spazio stette senza sapere che farsi; et tal’ora in animo ebbe di ritornarsi, senza altro effetto, a casa sua. Pur da molto desiderio stimolato, al fine di fare esperienza della sua fortuna deliberò. Perchè or qua or là aggirandosi, nè dove sapendo, per sua ventura in una sala s’avvenne, ove alcune camere erano, nell’una delle quali la Laura, et in un’ altra la fante dormivano: l’uscio della quale prima Ercole avendo trovato, al tutto si dispose di picchiare pian piano; il che la fante udendo, et per fermo credendo dovesse essere il cozzone, si levò ad aprirgli; et per l’oscurità alcuno non vedendo, disse: chi è là? Et da Ercole le fu risposto: amici. Et a lei appressandosi, con bassa voce soggiunto se esser Ercole Negrisuoli; la qual cognoscendolo, perocchè spesse volte già dell’amore che egli portava alla sua patrona le aveva ragionato, tutta istordi, et cominciò a
pregarlo che se ne andasse. Il quale così le rispose: Peronella (che così aveva nome), tu sai ch’io ho amata et amo madonna Laura tua donna, la qual sempre m’ha straziato et strazia come cane. Ma quel che più mi tormenta, è di aver trovato tanto vero, quanto siamo qua tu et io che ella si dà buon tempo con un cozzone, che forse saper lo dei. Per la qual cosa ho deliberato (poi che il fatto va a cotesto modo) di volere anch’io averne la parte mia. La Peronella, del cozzone saper nulla infingendosi, cominciò a dire, che molto le spiace che Ercole non abbia del suo desiderio effetto; ma se gli è vero che egli tanto ami, quanto dice, la sua donna, che non sia cagione di farle la sua buona fama perdere; et che questo per certo non è segno di amarla, anzi d’odiarla. Perocchè venendo egli in casa di lei a sì fatt’ora, et essendo per caso d’altrui veduto, darà materia di bucinar de’ fatti suoi; et però lo prega per Dio che se ne vada, promettendogli di far tal opera per lui con la sua donna, che egli
restarà contento. Ercole che fermato aveva nell’animo tutto quello che eseguir voleva, disse: Peronella, non voler dell’onor di Laura esser così tenera; perocchè, avendone essa fatto un presente a un tal poltrone, qual io t’ho detto, si può metter per perduto. Basta che da me non si saprà se tu o ella non lo dici. Ma dimmi, tu, che tanto stimi l’onor di tua madonna, perchè la porta di strada lasciasti aperta! Ora così ti dico che non essendo al presente in Ferrara Bernabò suo marito, questo è il tempo della mia ventura. Però mostrami, ti prego, là dove ella dorme. Ohimè! che dite voi? rispose Peronella, alla fè di Iddio, che mi volete far cacciar del mondo. Et Ercole a lei: non dubitare, dammi la mano, Peronella mia. Il che ella, quantunque salvaticamente, facendo, Ercole, a se tiratala, et trovandola ritondetta et soda, le volle per una volta attaccar l’uncino, acciò gli fusse nell’amor della sua donna favorevole. Et fatto con gran satisfazion della parte, il suo piacere, di nuovo, quanto più può,
la riprega che gl’insegni la camera della Laura. Peronella, a cui li basci et lo scuotere del giovane erano la più dolce cosa paruti che mai sentito avesse, de’ futuri beni della sua donna divenuta gelosa, se prima ciò mal volontieri faceva, ora di farlo sopra modo le rincresceva. Nondimeno per non turbar il giovane, finalmente si recò a menarlo all’uscio della camera di Laura, prima dolcemente pregandolo, et a giurar costringendolo che mai non abbia a dire, lei di ciò esser stata consapevole, et la camera della sua donna avergli mostrata. Ercole al fin entrato, quanto più chetamente può, dove la sua Laura dormiva, et l’uscio dopo se richiuso, et trovatovi dentro il lume acceso, et lei nel letto veduta che dormiva, alla sponda accostatosi, la coltre et le sottilissime lenzuola alquanto alzati, cominciò a riguardare il delicato viso et il bel petto che d’avorio et di neve rassembiava. Et quanto più in lei è fiso, tanto più gli pare la sua bellezza maravigliosa et degna di riverenzia; nè quasi sapendo
che si fare, una mano le mette sul delicato petto, et a lei accostatosi, stava in forse di basciarla. Perchè ella, non del tutto risvegliata, volgendosi or su l’un lato ora su l’altro, con gli occhi sonmacchiosi vede costui, et timida et piena di maraviglia non sa quello che debba dire o qual partito prendere, et crucciata et disperata, quasi fuora di se si stava. Ercole allora, dubbioso ch’ella non gridi, et per farlasi come pregiona, le dimanda quello che abbia fatto del suo Giulio cozzone. La donna udendo costui quello dire, ch’altro che Iddio non pensava che sapesse, se fu dolente non è da dimandare, et parvele di un coltello nel cuore dato le avesse. Ma distorcendosi, et per lo letto rivolgendosi, et infingendosi di dormire, et gli occhi chiusi tenendo, di ciò nulla mostrava aver inteso. Et al fine con gesto di svegliarsi: ohime! disse, chi è questo? Rispose egli: non vedete voi ch’io sono? Et ella a lui: trista la vita mia! chi vi ha qui condotto? Rispose Ercole: l’amor che vi porto et che già molt’anni v’ho portato. Et poichè
gli parve tempo di dover il conceputo sdegno mandare fuori, così di fervente ira acceso cominció a parlare: donna, tanto tempo che più che la vita mia vi ho amata et amo, nè mai ancora da voi d’una dolce parola o d’un lieto sguardo sono stato riconosciuto, anzi qual vostro nemico, sempre odiato m’avete. Et di questo non tanto mi duole, quanto che mi rincresce, et vergogno a pensare, che tutta di fuoco a voi mal convenevole ardete, sottomettendovi al fiato d’un vilissimo cozzone, che a me di castitade et pudicizia esempio sempre vi sete mostrata, et del vostro onore più tenera, che già del suo non fu Lucrezia romana. Ma certo non a lei di pudicizia, anzi a Pasife rassimigliar vi posso di inonestate; che nel vero, se punto considerato aveste chi voi sete et le vostre bellezze et la nobile condizione, a tale et si biasmevole appetito trasportar non vi sareste lasciata. La cattivella udendo le verissime parole di costui, il quale cognosceva averla amata et amarla, tutta piena di vergogna, et con parole da sospir
interrotte, lo prego gli piacesse di più non dire. Poscia per l’estremo dolore che degli avvenuti casi sentiva, a pianger postasi, et alquanto su l’uno de’ gombiti sollevatasi, et con alquanto del lembo del lenzuolo parte coprendosi del bianchissimo petto, così verso Ercole, che intentissimo le discoperte parti del suo delicato corpo mirava, cominciò a dire: Io m’avviso, messer Ercole mio, che da vero amore mosso voi mi diciate il vero. Perchè delle mie sventurenon posso meco stessa non vergognarmi, et le già palesi colpe non piangere? Il che tanto più mi credo esser tenuta di fare, quanto mi pare in ciò voi ancora aver offeso; al quale io, per il lungo amore portatomi, nessuno, quantunque di maggior bellezza et nobiltà, non che vile persona doveva preporre. Ma li passati errori ammendar si possono, non distornare. Il che io, se a grado vi fie, sono prestissima di fare ogni vostro volere. Er. cole, le dolcissime parole da lagrime accompagnate udendo, tosto divenne pietoso, il rigato volto rasciugandole, la cominciò
a confortare et pregarla che più non piangesse, fra’ conforti abbracciandola et togliendole amorosi basci. Et poi che racconsolata et lieta alquanto la vide, col piacer di lei spogliatosi, entrò seco nel letto, ove l’uno dell’altro lunga pezza diletto prese. Et quanto a ciascuna delle parti la cosa aggradisse, non è da dimandare. Li loro dolci basci et cari abbracciamenti furono quella notte senza numero. Et Ercole al fine stanco et non sazio, essendo già l’ultima stella per dar luogo al sopravvegnente giorno, volle partirsi. Et riabbracciando et basciando la sua Laura, dolcemente la prega che l’amor del cozzone debba dimenticare, et con calde parole le conchiude, che quando ella di più non avere con esso dimestichezza non si disponesse, egli dell’amor che le portava sforzato, potrebbe far cosa che poi gl’increscerebbe, et che per il minor male che n’avvenisse sarebbe l’uccider il cozzone. La giovane mostratasi in viso quanto più potè di buon animo, et paurosa nondimeno che questa cosa a luce non venisse, di
osservare tutto il volere d’Ercole promise. Et come se del fiume di Lete bevuto avesse, dimenticatolo, da indi in poi mai non fu sentito che lo sventurato cozzone desse a madonna cavalla più nè il portante nè il trotto; ma ben da poi che l’ebbe domata, Ercole sempre a suo piacere la cavalcoe.