Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella V

Novella V - Quanto scaltritamente Bindoccia beffa il suo marito che era fatto geloso
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[p. 65 modifica]ella de le sue sfrenate voglie. E chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero maggiore, e là dentro la vedrà dipinta.


Il Bandello al valoroso signore il signor Francesco Acquaviva marchese di Betonto


Nel ritorno suo da Bari il nostro messer Giacomo Maria Stampa m’ha portato una vostra lettera, la quale a me non accade dir se m’è stata cara, sapendo voi, quando qui in Milano eravate, quanto io v’onorassi e riverissi sempre. Devete anco ricordarvi di quanto al partir vostro in casa del vostro gentilissimo signor cognato il signor Alfonso Vesconte cavaliere, essendovi presente la cortese signora Antonia Gonzaga sua consorte, mi diceste, e di quello ch’io vi risposi. Onde non vi convien dubitare ch’io non resti eternamente ricordevol di voi, e che le lettere vostre non mi siano in ogni luogo e tempo gratissime. E circa a quanto mi scrivete s’è pienamente sodisfatto. Restami solo di mandarvi quella novella, che già narrò in casa de la vertuosissima signora Camilla Scarampa il signor Antonio Bologna a la presenza vostra, alora che voi con molti altri signori e gentiluomini eravate quivi per udir sonar e cantare la bella e vertuosa figliuola d’essa signora Camilla, alor chiamata Antonia, ora suor Angela Maria, essendosi ella in Genova fatta monaca; la qual nel vero al presente ha sortito nome più a lei convenevole e a le sue vertù e rare bellezze, che prima non aveva, perciò che qualunque persona la vede, e ode sonar e cantare, tien per fermo di veder e sentir un angelo celestiale. Venendo adunque a parlar de la novella, io, secondo che voi mi commetteste, quella scrissi così a la grossa senza ornamento alcuno. Ora che voi me la richiedete, l’ho compitamente scritta e al nome vostro intitolata, a ciò che anco ella abbia il suo padrone. L’apportator di quella sarà un servidore del signor vostro cognato, il signor cavalier Vesconte, che egli a posta vi manda per condur cavalli in qua. Essa novella chiaramente dimostra che, quando una donna [p. 66 modifica]delibera ingannar il suo marito, che se egli avesse più occhi che Argo, che a la fine ella starà di sopra e gliela appiccherà. Dimostra ancora che i mariti deveno ben trattar le mogli e non dar loro occasione di far male, non divenendo gelosi senza cagione, per ciò che chi ben vi riguarderà troverà la più parte di quelle donne che hanno mandato i loro mariti a Corneto, averne da quelli avuta occasion grandissima, chè rarissime son quelle da’ mariti ben trattate e tenute con onesta libertà, le quali non vivano come deveno far le donne che de l’onor loro sono desiderose. Nè per questo mai sarà lecito a donna veruna far torto al suo marito, ancor che mille ingiurie da lui riceva. State sano.


NOVELLA V
'Quanto scaltritamente Bindoccia beffa il suo marito che era fatto geloso.


Poi che il magnanimo Alfonso re di Ragona, per l’inestimabile liberalità di Filippo Vesconte uscito di pregione, acquistò Napoli, Angravalle, cavalier napoletano che molti anni aveva sotto lui militato e ricco si trovava, d’una giovane molto bella, che Bindoccia si chiamava, fieramente s’innamorò. Ella era figliuola del signor Marino Minutolo. E perchè era bellissima, molti baroni e gentiluomini la corteggiavano; ma ella mostrava non si curar di persona, e a le ambasciate rispondeva che ella serbava la sua verginità a colui che dal padre le fosse per marito donato. Angravalle, poi che s’accorse che se per moglie non la prendeva, che forse altri l’averebbe presa, al padre di lei per consorte la fece domandare. Il padre, consegliatosi con alcuni parenti ed amici, si contentò di dargliela. Onde egli tutto pieno di allegria solennemente sposò Bindoccia, e le nozze si fecero molto onorevoli. Menatola poi a casa ed entrato in possessione dei tanto desiderati beni, avendola onoratissimamente messa in ordine di vestimenti, di gemme, d’anella, di collane e d’altri simili gioielli, la notte anco la trattava tanto bene, che poche erano meglio di lei maritate. Circa dui anni adunque perseverò Angravalle a mostrarsi con lei sempre più fresco e valente cavaliero; ma egli non pensava che tolto aveva a pascer un animale che di cotal cibo non si sazia già mai, anzi quanto più se ne ciba e ne mangia, tanto più ne appetisce e brama, a cui il voler poi le spese sminuire è sovente di molti scandali cagione. Passati adunque i dui anni, o che ella gli venisse a noia, o che egli fosse de la persona mal disposto, o che si trovasse così tratto il bambagio del [p. 67 modifica]farsetto che, pien di freddo, d’ova fresche e di malvagìa avesse più bisogno che di dar beccar a l’oca, cominciò, che che se ne fosse cagione, a porre al suo corrente cavallo un duro freno e ad allentargli in modo il corso, che con grandissimo dispiacer di Bindoccia a pena correva due o tre, a la più, poste il mese. Oltre a questo, sapendo ch’era stata da molti seguita, così ne divenne geloso, come se veduto avesse qualche cattivo atto in lei. Egli primeramente perchè la vedeva bellissima, pensava che ciascuno ne fosse innamorato e ch’ella altresì con tutti a l’amor facesse, e conoscendosi non le far il debito nel letto, come era solito, dubitò che ella altrove non si provedesse d’ortolani che il di lei giardino coltivassero. Per questo le tolse tutte quelle donne che in casa teneva e le mandò via; diede medesimamente congedo a tutti i servidori di casa, un solo di cui si fidava tenendone, che era un mascalzone ruvido e villano, il quale la mula governava e faceva la cucina. Prese poi una mutola e sorda per fantesca, ma tanto inetta ch’era da niente, assicurandosi che ella non riceverebbe nè riportarebbe ambasciate. Ogni cosa anco che Bindoccia faceva, egli diligentissimamente osservava, e per levar l’occasione che nessuno per casa gli andasse trescando, lasciò tutte le pratiche dei gentiluomini con i quali prima soleva praticare. Aveva solamente un suo fedelissimo compagno, giovine di ventidui anni, che Niceno era nomato, col quale il più del tempo si dimorava. E perchè era primo cugino d’una cugina di sua moglie, e lungamente in molte cose l’aveva esperimentato, altro sospetto di lui non prendeva, ancor che la notte e il giorno in casa gli venisse. Bindoccia, che nel principio pensava il marito sentirsi mal disposto per la dieta che faceva, punto non si meravigliava; ma veggendosi poi levate le donne, e i famigli mandati via, e la dieta tanto crescer che in dui mesi una volta non si cibava, si ritrovò meravigliosamente di mala voglia, e non sapeva che farsi nè dirsi. Dubitò forte che il marito d’altra femina fosse innamorato, e che quello che a lei conveniva altrui si desse. Pure non puotè mai venir in cognizione di cosa alcuna circa questo fatto. A la fine veggendo le cose sue andar di mal in peggio e al marito vie più che mai crescer la gelosia, deliberò, avvenisse quello che si volesse, di quell’arme ch’ella era ferita ferir Angravalle, sperando con questo o rivocarlo al primo ufficio, od in modo d’amante provedersi, ch’ella venisse al conto de le sue prime ragioni. Cominciò adunque a malgrado del marito, che per rispetto del padre e dei fratelli di lei non ardiva darle de le busse, presentarsi a le finestre [p. 68 modifica]e a tutti che la guardavano mostrar buon viso. Di che il misero geloso si disperava. Considerando poi che il volersi procacciar d’amante potrebbe esser d’alcuno scandalo cagione e metter se stessa in pericolo de la vita e de l’onore, pose gli occhi a dosso a Niceno, il quale di continuo in casa praticava, e parendole bello e avveduto molto, e di bei modi e gentilissimi costumi adornato, di lui non mezzanamente cominciò ad accendersi. Tuttavia, sapendo che egli al marito era troppo caro, non ardiva il suo focoso desiderio scoprirgli. Ben si sforzava con gli occhi e con allegro viso dimostrarli ciò che la lingua palesar non ardiva, e quanto più chiusamente ella ardeva, tanto più le sue fiamme d’ora in ora maggiori ne divenivano e miseramente quella struggevano. Il perchè avendo molti e varii pensieri fatti, a la fine deliberò con la sua ed altresì di lui cugina, che Isabella Caracciuola era nomata, il caso suo conferire e il conseglio e aita di quella impetrare. Onde con saputa e volontà d’Angravalle, un giorno a casa di lei se n’andò, e dopo molti ragionamenti, non v’essendo chi i loro ragionamenti impedisse, in questa maniera madonna Bindoccia a dir cominciò: – L’esser noi state, signora mia cugina, fin che fanciullette eravamo, insieme nodrite, e il conoscer quanto sempre amata m’hai, mi dà animo che io possa liberamente i gravi e noiosi miei affanni senza tema alcuna discoprirti. Il perchè lasciando tutte l’altre cose da parte, ti dico che io mi truovo in tanto mal essere e così disperata, che io non so come io sia viva. E odi per Dio s’ho cagione che a disperarmi sia bastante. Come sai, fui data per moglie ad Angravalle, ed io lo tolsi volentieri, ancor che io fossi fanciulla ed egli passasse quaranta anni, non pensando più innanzi e non avendo persona di cui mi calesse. Egli, poi che in casa sua condotta m’ebbe, mi tenne sì caramente e sì bene mi trattò, io dico ogni notte, che la matina ne potevano ben andar a messa di più belle e meglio ornate di me, ma più consolate non già; e così m’ha tenuta dui anni. Dopoi, senza che io gliene dessi cagione, ha di tal guisa cangiato stile, che mi fa far digiuni e vigilie, che in calendario alcuno non sono registrate, per ciò io ti giuro esser tre mesi passati che mai non m’ha tocco. Da l’altra parte, oltre che contra ogni devere e senza ragione è divenuto geloso, adesso non geloso, ma farnetico e scimonnito mi pare. Io credo che tu sappia come stiamo in casa, e di che qualità siamo serviti, che se fosse in Napoli scarsità estrema di servidori e non se ne trovassero per prezzo, non poteremo star peggio. Noi non abbiamo nè famiglio nè donna, [p. 69 modifica]salvo questa mutola che qui vedi, che farebbe col suo viso piatto e rincagnato e con quegli occhioni di bue spiritar chi di notte la vedesse con un poco di lume a l’improvviso, e un gocciolone per famiglio ch’è il maggior tristo del mondo, ma fidatissimo d’Angravalle. In casa nostra, che era albergo d’ogni uomo da bene, non pratica persona se non Niceno, che è l’anima del mio marito. Ma poco mi curarei che persona non ci venisse, quando egli nel resto mi trattasse come le mogli trattar si deveno. E che diavol vuol egli che io mi faccia di tanti vestimenti quanti ho, e de le gioie e anella che da principio mi comperò? Io non posso andar a le chiese come l’altre gentildonne vanno, perchè se è alcuna festa de le grandi, egli vuole che a buon’ora io me ne vada a udir la prima messa a la nostra parrocchia, con questa mutola e con la guardia di quel ribaldo del fante, e subito come è finita, ch’io me ne torni a casa. Il perchè io mi son deliberata di cangiar anch’io il mio consueto vivere, e se egli quello di casa risparmia, di quello di fuori provedermi. Sallo Iddio, che mal volentieri a questo mi metto; ma il bisogno mi stringe, e la necessità non ha legge. Io non passo ancora venti tre anni, e sono pur tenuta bella, e a me pare di poter comparir fra l’altre, se il mio buon specchio non m’inganna. Se io ora non mi prendo qualche piacere, quando il prenderò poi? Aspetterò che queste mie bellezze dal tempo o da qualche infermità siano guaste, e che i miei biondi capelli diventino d’ariento, e le carni morbide ed alabastrine s’increspino, e poi non ritrovi alcuno che mi voglia? Grandissima dapocaggine sarebbe la mia, se io non facessi quello che molte fanno. E quante ce ne sono che, dai loro mariti ben trattate, hanno nondimeno qualche segreto amatore? Non piaccia adunque a Dio che io senza goder la mia giovanezza divenga vecchia. Io sono di carne e d’ossa come tutte l’altre. Se Angravalle voleva in questi digiuni tenermi, non deveva al principio avezzarmi a così frequenti cibi, e di sè farmi tanta copia se non vi si voleva mantenere. Non sa che cosa sia il male chi non ha provato il bene. Sì che, mettami pur questo stitico quelle guardie che vuole ed usi quante arti egli sa, che io deliberata sono di trattarlo come merita e quello dargli che va cercando. E perchè sommamente di Niceno si fida, io vorrei che egli quello fosse che ai miei bisogni soccorresse, e supplisse a quello in che il suo amico manca. Io, tra molti i quali ho veduto e considerato, ho fatta di lui elezione, parendomi vertuoso, e giovine molto costumato, e che non anderà divolgando i casi nostri, ma del mio onore quella cura averà [p. 70 modifica]che si conviene. Che in effetto io non vorrei già venir a le mani di qualche sgherro che mi straziasse e mi facesse donna di volgo divenire, di modo che tutto il dì fossi mostrata a dito. Ora di Niceno a me pare ch’io ogni bene aspettar possa. V’è solamente una difficultà, che per vederlo così domestico di mio marito, io non ardirei il mio desire manifestargli già mai. Chè se per disaventura egli in questo mi si mostrasse ritroso, io di vergogna abbisserei. Ma questa difficultà ho stimato che tu di leggero, volendo, potrai facilitare, e quando viene a vederti, che spesso so che ci viene, tu potrai con quel modo che il meglior ti parrà questo mio appetito discoprirgli, ed affermargli che io ardentissimamente l’amo; chè certamente io sono pur assai del suo amor accesa. Come io sappia che egli si disponga ad amar me secondo che io amo lui, farò che tutto il resto con nostra grandissima contentezza succederà di ben in meglio, e gli farò conoscere ciò che io saperò fare per uccellare Angravalle e i suoi custodi. Di questo adunque, signora cugina mia carissima, io caramente te ne prego, supplicandoti con ogni mia forza che il prego vaglia mille. – Sentendo simil parole, Isabella, che la più innamorata donna era che in Napoli fosse, e per prova sapeva quanto più saporiti siano i dolci basci d’un caro e fedel amante che quelli d’un marito, e troppo volentieri in simil casi s’interponeva portando per l’amico o amica i pollastri, così le rispose: – Duolmi, signora cugina da me molto amata, non mezzanamente, quello aver da te inteso che ora narrato m’hai, avendoti in questo quella maggior compassione che per me si possa. Ma per non moltiplicar in parole che nulla di profitto t’arrechino, ti dico che io sommamente ti lodo, e commendo il tuo avvedimento, e ti conseglio a seguir quanto hai determinato di fare, facendo ciò che, per avviso mio, il più di noi usa e segue. Chè, a dirti il vero, mal anderebbe il fatto nostro, se noi ai freddi e rari abbracciamenti e carezze de’ mariti ci contentassimo. E perciò con Niceno, il qual dici che così ti piace e tanto ami, lascia la cura a me. Egli ne viene spesso a casa mia, e meco di cose amorose sempre ragiona, anzi pure più e più fiate m’ha ricercata ch’io volessi ritrovargli una innamorata. Come egli venga a me, che molto non può tardare, io entrerò in parlamento di belle donne e d’amore, e ricordandoli ciò che m’ha richiesto, dirò che io gli ho trovato così bella giovane gentildonna per amante, come abbia Napoli. So che subito egli vorrà saper il nome. Io anderò a poco a poco scoprendogli il tutto, e intenderò l’animo suo, il quale mi persuado che sarà simile a quello che noi vogliamo. Conchiusa che [p. 71 modifica]io seco averò la bisogna, farò che lo saperai. – Parve a Bindoccia esser del caso suo, se non in tutto, almeno in gran parte secura, e tutta di buona voglia a casa se ne ritornò. Ora per buona ventura quel dì medesimo su la sera andò Niceno a trovar sua cugina Isabella, la quale entrando in ragionamenti d’amor con lui, sì bene e tanto acconciamente a quello l’amor di Bindoccia espose, e con sì fatte ragioni glielo persuase, che egli ai piaceri di quella si dispose, quantunque su ’l principio molto renitente si mostrasse, parendogli pur di far male, attesa la fratellevol benevoglienza che con Angravalle aveva. Ma pensando a la vaga e singolar bellezza de la donna che lo faceva pregare, conoscendola per una de le belle e gentili giovanette di Napoli, di cui i primi baroni del regno si sarebbero tenuti contenti, si deliberò questa sua amorosa ventura con ogni sollecitudine di seguire. Il che avendo madonna Bindoccia per via d’Isabella inteso, ed altresì veduti gli amorosi sguardi di Niceno, determinò non perder tempo, ma ai suoi ferventi amori dar alto principio, e, come si costuma talvolta dire, farla e rifarla sugli occhi al marito. Nè dopo molto, essendo venuto Niceno in casa, donde Angravalle poco innanzi era uscito, e Bindoccia entrata seco in diversi ragionamenti, il famiglio che per guardia di lei era in casa rimaso, conoscendo la domestichezza che tra il padrone e Niceno era, non si curò di spiar quello di che eglino ragionassero. Onde ebbero i nuovi innamorati assai spazio d’ordire contra Angravalle quella tela che di poi volevano tessere. E andando talvolta il famiglio di sala in cucina ed altrove per bisogno di casa, per arra del lor amore più fiate gli amanti amorosamente si baciarono; ma di passar più oltre non vi fu agio, perchè il famiglio andava e veniva. Ora, avendo madonna Bindoccia da Niceno avuta quella fede e certezza de l’amor di lui che volle, poi che egli fu partito, essendo la sera a cena con suo marito, poco o nulla ella si cibò, mostrandosi tutta svogliata di mangiare, e cotali suoi vezzi ed atti usando, come se lo stomaco distemperato e molto mal disposto avesse, faceva sembiante sentirsi un gravissimo dolore. Il marito le dimandò ciò ch’ella si sentisse, al quale con una voce tutta indebolita malinconicamente la donna rispose che pativa una fiera passione di stomaco ed uno stordimento sì grande, che le pareva che la casa tuttavia si raggirasse. Il marito l’essortò che a letto se n’andasse e attendesse a riposare. Ella che altro non voleva, andò a corcarsi, e con cenni mostrò a la mutola che le scaldasse dei panni. E come se avuto avesse un gran male, sospirava piangeva e sbuffava, tuttavia per il letto dimenandosi. [p. 72 modifica]Come poi Angravalle fu al letto venuto, ella altro non fece che rammaricarsi, e raggirarsi senza ricever mai riposo. Circa poi il mezzo de la notte con gran fretta si levò, e fingendo d’aver flusso di corpo, se n’uscì di camera e in un’altra quivi vicina andò, ove era il luogo da levar il peso del corpo. Angravalle che alora s’era destato, e la moglie aveva sentito levare, tutto di gelosia pieno, dubitando che ella alcun suo amante seco avesse, celatamente le tenne dietro, ma non perciò sì destro che ella, che l’occhio aveva al pennello, non se ne accorgesse. Ora parendo a lei che il fatto succedesse secondo il suo avviso, tuttavia gemendo si lamentava, e con la bocca faceva un certo rimbombare, rappresentante il suono che fa uno quando pieno di ventosità scarica le superfluità del ventre. E così se ne stette buona pezza, in modo che Angravalle credette fermamente che nel vero avesse flusso di corpo e acerbi dolori patisse. Si levò ella e ritornò al letto, ma poco di poi tre o quattro volte anco si rilevò, e al destro se n’andò, e medesimamente Angravalle la seguitò; ma nulla sentendo che sospetto generar potesse, e parendogli ogni volta che la seguitava che ella il corpo purgasse, non si curò altrimenti, ben che ella diece volte forse si levasse, d’andarle più dietro. Come madonna Bindoccia s’avvide che egli più non le teneva dietro nè spiava ciò che ella si facesse, le parve che il suo avviso troppo bene le succedesse, e diceva tra sè: – Guardami pure, marito, se sai, chè questa notte che viene io veglio che tu senza partirti da Napoli navighi in Inghilterra a Cornovaglia, e la tua nave passi per Corneto. – Venuto il giorno e stando ella nel letto, si fece chiamar il famiglio, e gli ordinò un manicaretto appropriato e conveniente al flusso del corpo. Voleva Angravalle o almeno diceva di farle venire il medico; ma ella non volle, dicendo non voler che il corpo se le stringesse, perchè ella si purgava e sapeva che per questo riceverebbe gran profitto e beneficio di sanità. Così tutto il dì se ne stette nel letto, ed alcuna volta levandosi faceva vista come l’altre volte d’andar al necessario e votare il ventre. Ora Niceno, secondo l’ordine che avuto da la donna aveva, come furono tre ore di notte, a la casa del marito de la sua donna si trasferì, e in quella per via d’un giardino entrò. La casa era molto grande, con bellissimo cortile e verroni ed altane, come in Napoli s’usa. Era anco copiosa di sale e di camere di sotto e di sopra, e in quella altri non albergavano che Angravalle, Bindoccia, la mutola ed il famiglio, il quale, perchè dei cavalli aveva cura, dormiva ne le stalle che erano assai discoste da la casa. Il perchè [p. 73 modifica]Niceno, che tutti i luoghi de la casa ottimamente sapeva, senza punto esser veduto o sentito, dove volle a suo bell’agio n’andò. La donna, quando tempo le parve, levò suso, ed a la camera del destro, lamentandosi di mal di ventre, ne venne. Quivi, secondo l’ordine da lei avuto, se ne stava Niceno ascoso, con allegro core attendendo la venuta de la bella donna, a la quale come giunta la sentì, così a l’incontro tutto gioioso se le fece, e quella affettuosamente in braccio ricevuta, disse: – Ben venga l’anima mia. – Madonna Bindoccia senza altramente rispondergli, abbracciò e basciò lui molto amorosamente e gli fece accoglienze grandissime. Ma perchè avevano di tempo alquanto carestia, egli recatosela in braccio la portò suso un lettuccio che in camera era, e con estrema gioia ed inestimabil diletto di tutte due le parti corsero tre fiate senza partirsi la posta. Fatto questo, ritornò Bindoccia in camera e posesi nel letto, non troppo perciò accostandosi al marito, per tema ch’aveva di non dar ne le novelle corna che in capo di quello cominciavano a nascere. Nè guari stette che, sotto il pretesto d’aver flusso, frettolosamente al suo amante, che lieto l’aspettava, fece ritorno. Quivi, per non perder tempo in parole, entrarono a far un’altra volta la moresca trivigiana. E mentre che scherzavano, la donna imitando il romore che fa l’uomo pieno di vento, quando va del corpo, fece con la bocca sì gran romore, che Angravalle, sentendo il ribombo, essendo le camere vicine, disse: – Mogliema, questo è tutto freddo che tu hai preso. – Ella, che già aveva messo il rossignuolo ne la gabbia, beffando Angravalle in questo modo gli rispose: – Tu dici ben il vero, marito mio caro, ma la colpa è tua e il danno è mio, perchè non mi sai coprir e tener calda. – Niceno scoppiava de le risa, e mille volte la donna basciava, e basciandola fecero due volte entrar il diavolo ne l’inferno dolcissimamente, prima che madonna Bindoccia partisse. Insomma, ella essendo al marito ritornata, quattro altre volte a l’amante rivenne, dal quale sempre fu ottimamente ricevuta, nè mai senza far un tratto la moresca si partì. E parendo lor per quella notte aver fatto assai, avendo mandato Angravalle nove volte a Cornazzano, Niceno per la via che venuto era a casa sua ed ella al marito se ne ritornarono. Angravalle, che sì spesso levar l’aveva sentita, ultimamente le disse: – Moglie, se tu non provedi al caso tuo, questo sì bestial flusso ti potrebbe dar il malanno. Io vo’ domatina far venir il nostro medico, ed egli ti farà qualche provigione dando compenso al tuo male. – La donna, che otto buoni siroppi di mele e di zucchero ed una medicina di [p. 74 modifica]manna si aveva quella notte con grandissima dolcezza ed incredibil piacer trangugiato, essendosi bene de l’umore malinconico purgata, nè altro medico che il suo Niceno voleva, gli rispose che credeva di poter far senza medicine, perchè meglio si sentiva e non aveva più doglia di testa, e così il rimanente de la notte che restava attese a dormir molto bene, e quasi che dormì fino a l’ora del desinare, ristorando la stracchezza de le nove miglia che caminate aveva. Levatasi poi suso e da Angravalle domandata come si sentisse, a quello rispose che la Dio mercè si portava benissimo, perchè conosceva che quel flusso l’era stato in vece d’una salutifera e perfetta medicina. Messer lo montone, come quello che non pensava a la malizie che continuamente le femine sanno trovare, troppo se lo credette. Stando adunque la cosa da Bindoccia tramata in questa maniera che udita da me avete, e cercando tuttavia madonna Bindoccia nuovi inganni e securi modi, col cui mezzo ella potesse con Niceno ritrovarsi, avvenne in questo mezzo che vicino a Somma, ove Angravalle una possessione aveva, una sua casa ed un fenile arse e fece grandissimo danno. Il perchè egli fu astretto andar fuori per provedere a’ suoi bisogni, e dar ordine a ciò che si devesse fare. Per questo lasciò il famiglio a casa con espresso comandamento che de la moglie sovra il tutto avesse la cura e che attendesse bene a chiunque in casa gli venisse, che sapeva esser necessaria cosa, avendogliene tante volte parlato. – Tu attenderai diligentissimamente, – gli diceva egli, – e notte e dì a ciò che ella farà, e spierai ogni sua azione, a ciò che quando sarò ritornato io possa da te intendere come vanno i fatti miei. – Con questo partì Angravalle e cavalcò verso Somma. Bindoccia rimasa libera, tutte quelle notti che Angravalle fuor di casa stette si fece venir Niceno e seco sempre si giacque, gustando ella molto meglio quelli abbracciamenti senza sospetto di Angravalle, che quando egli v’era. E così dandosi ogni notte il meglior tempo del mondo, mentre che il marito suo stette fuori in villa, ella attese a ristorar una parte del tempo perduto. Ora, l’ultima notte che Niceno venne a giacersi con lei, che era la notte di santo Ermo, sapendo che il dì Angravalle deveva da Somma tornare, non sapevano l’un l’altro lasciarsi, di maniera che l’aurora nel letto gli colse. Il che veggendo Niceno, disse: – Oimè, anima mia, che il giorno ne ha colti nel letto, e dubito di non esser veduto uscir fuor di qui; – e in fretta vestitosi uscì di camera, e volendo fuor del giardino partire s’avvide che il ribaldo del famiglio l’aveva veduto, e di leggero poteva averlo scorto e conosciuto per Niceno. Del che pur assai si dolse; ma non potendo esser che il [p. 75 modifica]famiglio veduto non l’avesse, quel giorno, dopo desinare, andò a trovar Bindoccia, fingendo di voler intender quando Angravalle tornarebbe. E così le disse come il fatto stava, e subito partissi. Da l’altra parte, presso a la sera essendo Angravalle ritornato, Niceno che la venuta di quello osservava, venne in casa a ritrovarlo, e, con quella medesima dimestichezza con che era uso, gran pezza seco stette di varie cose ragionando. Partito Niceno, Angravalle si ridusse col famiglio a la stalla, e da lui udì quello che mai d’udire non aspettava. Il perchè qual fosse il dispiacere che ne prese, so che io non bastarei a narrarlo, e voi pensar lo devete. Egli, come quello che era de la moglie oltre ogni credenza e fuor di misura geloso, di lei ogni male credeva. Ma di Niceno, durava gran fatica a creder sì fatta cosa di lui, e voleva più tosto credere che il famiglio l’avesse preso in scambio d’un altro. Per questo più e più volte lo interrogò, dicendogli che avvertisse bene che non si fosse ingannato. Il famiglio stava saldo, dicendo che benissimo l’aveva conosciuto, e che di certo colui che egli visto aveva era Niceno. Vivendo adunque Angravalle in dubio di questo fatto, ma non già in dubio che la moglie non si fosse d’un altro provista, deliberò di star a veder se si poteva di niente certificare. La donna stava anch’ella con gli occhi aperti, per veder ed intendere se di lei cosa alcuna si trattava, e ogni volta che Angravalle parlava col fante, ella apriva le orecchie e a le parole e cenni loro poneva mente. Se Niceno veniva in casa, chè secondo il solito vi praticava, ella nè più nè meno faceva, ed egli anco si diportava come per innanzi solevano. Di che Angravalle, che a tutti dui aveva gli occhi a dosso, forte si meravigliava, e stava perseverando che altri che Niceno fosse stato colui che il fante diceva d’aver veduto, e non sapendo più sopportar questo fastidio, si deliberò di nuovo essaminar diligentemente il servidore, e poi far quella provigione che più gli fosse parsa a proposito. Onde un dì egli disse al servidore che andasse ad aspettarlo in una camera che era in alto, ove erano i fornimenti dei cavalli che altre fiate soleva tenere. La donna a caso sentì il tutto, non se ne essendo Angravalle accorto; e per spiare ciò che far volessero, ella, mostrando far altro, attendeva che Angravalle là su se ne salisse. Egli montò le scale e a la camera si condusse. Il che ella veduto, cautamente per un’altra via ascese suso una loggia che sovra il giardino porgeva la vista, la quale era vicina a la camera ov’era Angravalle. Ascesa là su, fece vista di porre al sole i suoi pannilini, e sì cautamente faceva, che Angravalle ed il fante non la sentirono già mai. Ella se ne stava [p. 76 modifica]con l’orecchie tese, per intender tutto quel che dicevano. Angravalle primieramente ricercò certi staffili per fargli mettere a la sella de la sua mula, i quali avendo trovati, si pose a sedere suso uno scanno che in camera era, e credendo d’aver lasciata la moglie a basso in camera, entrò in ragionamento di lei con il servidore, e gravemente sospirando, de la fortuna si lamentava. Volle poi che il fante di nuovo gli narrasse come Niceno veduto avesse, che panni in dosso aveva, se era armato, se solo, a che ora partì, e in che modo se n’andava via, se si voltava a dietro e che atti faceva. Ora avendogli a punto per punto colui risposto e assicuratolo che chiaramente Niceno aveva conosciuto, ultimamente in questo modo Angravalle disse: – Io voglio finger il tal giorno d’andar fuor di Napoli, e mi nasconderò in casa d’un amico mio, a ciò che possiamo coglier chi sarà quello che con mia moglie viene a giacersi. Di questa rea femina credo io tutto quello che narrato m’hai che tu la notte di santo Ermo vedesti. Ma di Niceno che così costantemente mi affermi esser l’adultero che a lei venisse, non so io che me ne dica, e certamente egli m’è troppo difficil credere che sì fatto amico mio mi debba far così vergognosa ingiuria e tanto disonore in casa. Gran tempo è che io come con un mio fratello seco vivuto mi sono, e d’ogni mio segreto hollo sempre fatto consapevole, più fede in lui avendo che in persona che al mondo conosca. Nondimeno, poi che tu perseveri affermando che lo conoscesti, io me ne vo’ chiarire. Chiarito che io sia, farò al signor mio suocero e a’ miei cognati veder tanta villania quanta fatta mi viene, deliberando al tutto levarmi questa vergogna dagli occhi. – Tutte queste parole puntalmente, senza perderne una, sentì Bindoccia; la quale, levando le mani al cielo poi che sentì che in altri ragionamenti travarcarono, lodò Iddio che l’avesse fatti saper i consegli del marito, e chetamente senza esser stata sentita discese a basso, e a la sua camera si ritirò. Non dopo molto scese anco giù Angravalle col fante, i quali veggendo ella ancora di segreto ragionare, disse fra sè: – Usate pure quante arti e quanta industria sapete, e mettetevi come spioni a le poste, ch’io voglio far l’amante mio venir a giacersi meco; e voi il vederete, e nondimeno io mi porterò di tal maniera che poi non lo crederete, anzi terrete per fermo esservi ingannati. Per l’anima di mia madre che io farò tutto questo, e so che caverò la gelosia del capo a questo montone di mio marito, e a quel poltrone del fante farò sì fatto scherzo e sì rilevato scorno, che egli fin che viverà si ricorderà mai sempre di santo Ermo e de la sua solennità. – Nè guari dopo [p. 77 modifica]venne il dì che Angravalle deveva andar in villa, o egli, per dir meglio, voleva far sembiante d’andarvi. Finse adunque di partirsi, e detto a la donna che quattro o cinque giorni starebbe fuori per certe bisogne che occorrevano, a casa d’un suo conoscente se n’andò; e quivi lasciata la mula, a le due ore a casa sua se ne venne e verso la stalla si condusse, ove il fante, secondo l’ordine dato, l’attendeva, il quale di dentro la stalla lo introdusse, e da la stalla passato nel giardino, e da quel a un altro luogo, quivi tutti dui s’appiattarono, perchè da quel luogo si poteva benissimo veder se persona a la camera de la moglie si avvicinava per entrarvi dentro. Non era ancora Angravalle geloso col suo famiglio stato un’ora a la vedetta, quando Niceno per comandamento de la bella e scaltrita Bindoccia sovravvenne mezzo travestito di tal maniera, che di leggero poteva da ciascuno che di lui pratica avesse esser ben conosciuto. Angravalle di certo il conobbe, e non dubitò punto che quello Niceno fosse. L’amante se n’andò tutto dritto ove Bindoccia lo attendeva, che gioiosamente lo raccolse. Angravalle veduto questo impose al famiglio che di quel luogo non partisse fin che egli non ritornasse, ma ben mettesse mente se Niceno si partiva. Poi, pieno di fellon e mal animo verso de’ dui amanti, con deliberazione di far loro un brutto scherzo, prese le sue armi, a la casa del suocero ne volò con frettoloso passo. Come quivi fu giunto, egli cominciò quanto più forte poteva a batter la porta, e tanto quella percosse che si fece sentire. Erano già passate le quattro ore de la notte, il perchè il padre e li fratelli de la moglie d’Angravalle grandemente si meravigliarono che egli a quell’ora andasse a torno. Fecero adunque le porte aprire avendo allumati dui torchi, ed essendo i figliuoli in camera del padre già venuti, attendevano che egli su salisse, il quale giunto in camera tanto era affannato, sì per la còlera che lo rodeva come anco che in fretta aveva caminato, che a pena poteva favellare. Sendo egli poi domandato de la cagione del suo venir a loro così fuor di tempo e tanto travagliato, e che strano caso era occorso, egli in questo modo rispose loro: – Signor suocero e voi signori miei cognati, se la figliuola e sorella vostra che a voi già piacque per moglie darmi, non avesse da sua madre e dal sangue vostro tralignato, ma fosse sì onestamente vivuta, come a voi, a me e al grado suo era in ogni modo condecente, io a quest’ora a me straordinaria, come augello notturno non andarei a torno, e voi nei vostri letti, come si conviene, riposareste; ma perchè ella, come rea femina e donna di mala sorte, non avendo riguardo a l’onor suo, che [p. 78 modifica]quanto la vita propria esser le deveva caro, e non curando del nostro, che altrettanto voleva il debito che netto e mondo da ogni macchia serbasse, voi di abominevol vituperio e me di sempiterna vergogna ha imbrattati, io astretto sono a così fatte ore venir a darvi fastidio e noia, a ciò che se vi piace meco vegnate e con gli occhi vostri possiate chiaramente vedere con chi vostra figliuola e sorella dentro il mio letto si prenda carnalmente piacere. Voi, signori miei, il vederete, e veggendolo mi rendo certo che non vi parrà grave che io quella vendetta ne prenda che tanta sceleraggine meritevolmente richiede. Chè essendo io su le passate guerre da onorato cavaliero vivuto, troppo strano mi pare che una femina mi debbia vituperare. Sì che voi l’intendete. – Queste parole amaramente trafissero l’animo del padre de la donna, e non meno punsero quelli dei fratelli di lei, che tutti sommamente quella amavano, e loro molto difficil pareva di quella cotal errore a credere. Domandato Angravalle con chi Bindoccia si giacesse, egli disse loro che con Niceno giaceva. Onde, prima che volessero di casa partirsi, fecero che Angravalle da capo un’altra volta narrò loro tutto ciò che prima aveva contato. Il che puntalmente fece egli, non variando in parte alcuna il suo ragionamento. Pregolli poi di nuovo che seco n’andassero, perchè il tutto chiaramente eglino vederebbero, conoscendo che egli non gli narrava bugie. Il buon vecchio alora, sì per alleggerir il fallo de la figliuola, come anco per mitigar in qualche parte la còlera e l’ira de l’adirato genero, di cui forte dubitava che contra la moglie non incrudelisse imbrattandosi le mani nel sangue di quella, così gli rispose: – Se il fatto sta a punto come tu dici, Bindoccia non ci ha tanta colpa come tu ti pensi, perciò che in gran parte la colpa è tua, che la notte e il giorno hai sempre tenuto teco questo tuo Niceno, che è pur nobil giovine e bello. Tu devevi ben sapere che la stipa non sta bene vicina al fuoco. Se il serpe in seno ti hai nodrito, tuo sia il danno. E forse che di quel che a le donne è più bisogno averai sì malamente Bindoccia trattata, che ella sarà stata forzata a provedersi. Il perchè noi a casa tua verremo e quella provigione faremo che sarà tuo e nostro onore. – Detto questo, tutti si misere in camino. La donna che su l’avviso stava, come Niceno fu entrato, volle che si spogliasse e seco nel letto si corcasse, sapendo che al marito conveniva andar da l’un canto a l’altro di Napoli. E poi che con grandissimo diletto fecero più volte correr l’acqua a l’ingiù, volle ella che Niceno si mettesse indosso una camicia de la mutola, con certo drappo in capo come faceva [p. 79 modifica]essa mutola, di modo che vedutolo a l’improviso, non Niceno ma la mutola si sarebbe creduto. Pose poi i panni di Niceno in luogo già previsto. Poi ammaestratolo di quanto far deveva, ella molto secura attendeva la venuta del marito, avendo prima concio il letto di modo che ella sola vi pareva esser giacciuta. Così anco compose la carriuola. Or ecco arrivar il marito con gli altri. Trovato a la posta il famiglio, e inteso che Niceno non era partito, salirono le scale, e cominciò Angravalle coi piedi a scuoter l’uscio. A questo romore, la donna come da lungo sonno destata disse: – Chi è là? – Poi, sembiante facendo di riconoscer il marito che gridava: – Apri, apri – disse, aprendo: – Che ora è questa di venir a casa? – Come la camera fu aperta, per esserle entrato il lume dei torchi, così Niceno che s’era corcato ne la carriuola, borbottando, secondo che la mutola soleva fare, si levò, facendo vista d’esser tutto sonnacchioso, e trattosi in collo una guarnaccia de la mutola e mezzo copertosi il viso, tuttavia facendo de le sciocchezze che la mutola far soleva, a la porta de la camera s’inviò. Angravalle che per fermo credeva lui essere la mutola: – Lasciala, – disse, – andare, chè questa rea femina, imperciò che ella è mutola e sorda e ciò che vede non sa altrui ridire, l’ha in camera tenuta. – Poi con un mal viso a la moglie rivolto: – Ove è, ribalda, – disse, – l’uomo che tu questa notte a te venir facesti? che miri, rea femina? che non rispondi? – Ella che l’amante sapeva essere in salvo, e parevale troppo bene il suo avviso succederle, in questo modo rispose: – Dio ti perdoni, consorte, queste parole che dire ti odo, che sarebbe molto meglio che tu ti fossi morsa la lingua. Sono io forse divenuta una di quelle che stanno in chiazzo e per prezzo danno lor stesse a chi ne vuole in preda? Io credo che per qualche sghiribizzo che in capo ti è nasciuto, hai a quest’ora condotto qui il signor mio padre e i signori miei fratelli, per far loro sì bello onore. Ma in fè di Dio le tue frenesie non averanno luogo, perchè io non so quello che tu dica, o in sogno tu t’abbia imaginato, perciò che mai persona al mondo altri che tu non è giacciuto meco. Guarda ben bene per la camera, apri i forsieri, rivolta il tutto, e chiarisceti che tu t’inganni. Io non posso già un uomo sotto questa sottanella celare. Tu hai pur trovata la camera con il chiavistello fermata, e visto chiaramente hai che nessuno qui dentro era eccetto la mutola, che per non star di notte sola in camera dentro la carriola s’è giacciuta. E così voleva far tutte le notti che tu restavi fuori, avendomi oggi detto che alquanti giorni ti conveniva star in villa. – Il padre di [p. 80 modifica]lei e i fratelli avevano diligentemente per tutta la camera guardato, e nulla trovando, e il letto in parte nessuna guasto nè calcato essendo, se non da quella parte ov’ella s’era leggermente corcata, restarono senza fine pieni di meraviglia. Il perchè rivolti ad Angravalle con viso turbato e minacciandolo, così il suocero suo gli disse: – Tu ci dicesti questa notte, quando a casa mia in tanta fretta venisti, che tu avevi veduto entrar in questa camera Niceno, e che per certo egli con Bindoccia si giaceva, e che se io con i miei figliuoli qui veniva, che in letto con essa il trovarei. Noi siamo qui; ov’è Niceno? ov’è uomo alcuno che con mia figliuola si giaccia? Tu non sai già mostrarci persona. Ed in vero dentro il letto non ci è vestigio alcuno che alcuno posto vi si sia, se non in questo canto, ov’ella di modo si è corcata che mostra che mai non si sia dimenata, nè raggirata intorno, e a pena che si sia mossa appare. Chè se nessuno seco, come tu dicevi, giacciuto si fosse, non starebbe il letto in questa maniera, ma il tutto sarebbe sossopra rivolto. Ben si sa, quando l’amante con l’innamorata in letto si trova, ciò che fanno, e che non dormeno, ma menano le mani e i piedi. Vedi anco questa carriola, e mira se nessuno v’è giacciuto se non quella tua mutola. Ora che dici tu? – Stavasi il misero e scornato Angravalle tutto fuor di sè, e non sapeva se desto era o se si sognava, e di modo gli era morta la parola in bocca, che non poteva a modo veruno ragionare. La donna alora al padre e ai fratelli rivolta, piangendo in cotal forma parlò loro: – Signori miei, voi, la mia sventura, a costui mi maritaste, e assai meglio per me sarebbe stato che io un vil mercadante o qualche artefice avessi preso, perciò che ogn’altro che Angravalle, a la mia onesta vita, a la nobiltà, ai modi miei e a voi altri averebbe avuto riguardo, e m’averia trattata come le mogli da bene trattar si deveno, facendomi buona compagnia, e non tenendomi per fantesca o schiava. Ma questo sozzo cane, che contra ogni devere cerca di tormi la vita con sì vituperosa infamia di voi e di me e di tutta la casa nostra, da un tempo in qua è entrato di me in sospetto, non che io gliene abbia mai data una minima ombra, ma, per mio giudicio, perciò che egli non fa meco quegli uffici che ragionevolmente deveria fare, e come fanno tutti i mariti da bene, e che la ragione vuol che si facciano. Chè non si maritano le donne agli uomini per esser tenute in più servitù che le serve e schiave, ma per esser compagne e riverir i mariti e ubidir loro ne le cose lecite e oneste. Se poi talora il marito vede cosa alcuna ne la moglie che non gli piaccia, deve amorevolmente ammonirla quando è seco nel [p. 81 modifica]letto, e non sonar la tromba nè incolparla, se prima del fallo non è chiaro. Dimmi, uomo da poco che tu sei, quando mai di cosa che io facessi fui da te avvisata o garrita? quando mai dicesti che lasciassi il tal vezzo o non facessi la tale e la tal cosa? Certo a me non sovviene che tu mai mi riprendessi. Tu mi ordinasti che io le feste principali solamente andassi a messa a la nostra parrocchia, e a buon’ora. Hai tu mai compreso che io ti sia stata disubidiente? Ma poi che dir si deve, io vi dirò, signori miei, il fatto come sta. Questo, di vestimenti e di gioielli m’ha messo in ordine da par mia, e circa dui anni da moglie hammi tenuta; poi da parecchi mesi in qua, Dio vi dica come stata sono, che de la vita che mi ha fatto fare ne verrebbe pietà ai cani. Dimmi un poco, Angravalle, chè di chiamarti per marito l’opere tue non meritano, dimmi, ti dico, se da otto o nove mesi in qua hai meco tre volte usato l’atto del santo matrimonio? Sono io guercia, son contrafatta, son ammorbata, che tu temi tanto d’accostarmiti e di non mi toccare? Adunque perchè tu sei da poco e perchè ti conosci mancar del debito tuo, tal m’hai stimata qual tu sei. E per questo tu, uomo di perfetto giudicio, giudicavi che io devessi cercar altrove quello che tu mi negavi. Or quando mai vedesti che io a uomo che si sia abbia dato orecchie? Quando mai ho ricevuto ambasciate, lettere o doni? Di’, di’, se in me cosa alcuna riprensibile hai veduta. Ma tu averesti meritato molto bene che io avessi fatto come fanno molte altre, e ti avessi in capo piantato il cimiero de la città di Corneto. Ma la onestà mia e i buon costumi a me in casa del signor mio padre insegnati, non sostengano che, se tu uomo da poco sei, che io femina divenga infame, trista e ribalda. – Alora un dei fratelli a lei così disse: – Vedi, sorella, questo ci ha detto che il suo famiglio ai dì passati vide uno che di camera tua su il levar del sole uscì e gli parve Niceno, e che questa notte tutti dui te l’hanno veduto entrar in camera. – Ella subito che sentì questo, quantunque piangesse, disse sorridendo: – Dunque, marito, a questo ribaldone hai questa bugia creduto? Ma poi che egli s’è lasciato tanto accecare, io ti vo’ dir ciò che tacciuto mi averei per minor male. Questo uomo da forche, dolendosi meco che tu senza donne e servidori mi tieni, e che male nel letto mi tratti, ebbe ardire di pregarmi che io gli compiacessi del mio amore, e il giorno di santo Ermo quasi mi volse sforzare. – A pena l’animosa e scaltrita donna ebbe questo detto, che volendo il fante rispondere, uno dei fratelli di lei avendo i guanti di maglia gli diede su ’l mostaccio a pugno chiuso sì fiera botta, che li ruppe le labbra e dui [p. 82 modifica]denti in bocca, minacciandolo di peggio se mai in Napoli si lasciava vedere, e quasi fu alora per dargli una pugnalata; pur si ritenne. E il fante uscì di camera e quella stessa notte di casa, e il giorno poi partì di Napoli con il male e con le beffe. Angravalle, udite le dette ragioni e vere credendole, a lei disse: – Ma che dirai tu che io con questi occhi tra le tre e le quattro ore ho veduto uno che qua su se ne venne, e m’è parso certamente Niceno? Io il vidi, e so che io non dormiva. Può ben esser che io m’inganni in dire che sia Niceno, che potrebbe essere un altro. Ma per lo santo corpo di san Gennaro, che io ho visto salir un uomo qua su. – Questo, – rispose la donna, – se tu dici aver visto, io lo crederò. Ma sai che cosa è? Il fante, per colorir le sue bugie, averà per via di prezzo fatto venir alcuno che sarà montato qua su, e come tu partisti l’averà fatto tornar indietro. La casa è grande, e il tristo ha le chiavi di tutte le porte. – Angravalle a questo non sapendo che rispondere, si sarebbe volentieri a dosso al famiglio sfogato se in camera stato fosse. Ma egli già aveva pagato di calcagni. Ora Bindoccia, veggendosi l’oglio su la fava, finì di narrar al padre e ai fratelli la mala compagnia che Angravalle le faceva e i molti torti, tenendola del modo che la teneva, non potendo andare nè a santi nè a feste, e tanto innanzi disse, che quasi la zuffa s’attaccò tra Angravalle e i cognati, i quali gliene volevano far una, e già avevano sfodrate le spade. E in effetto, essendo Angravalle solo, non poteva tra molti uscirne senza acqua calda. La donna, facendo vista di spartir la mischia, tolse il bastone del letto, e tra quelli animosamente mettendosi, o in fallo o come si fosse, appiccò due noci su ’l capo al marito, e tanto fece che si rappacificarono. Domandò poi Angravalle perdono d’esser troppo credulo al ribaldone del fante. In questo la donna si gettò ai piedi del padre e dei fratelli, caldamente pregandoli che con loro a casa ne la menassero. – Non mi lasciate, – diceva ella, – ne le mani a costui, se vi è cara la vita mia; egli, come vedete, d’ogni cosa ha sospetto, e temo che un dì per gelosia non mi uccida. Poi, io non voglio quello sciagurato fante in casa, e de la mutola non so a che servirmi. E se io non faccio la cucina non ci sarà chi ne faccia il mangiare, se non vogliamo ogni dì mandar a la loggia dei Genovesi per vivere. – Il padre alora, volendo la figliuola seco menare, comandò ai suoi servidori che le cose di lei si prendessero. Angravalle questo sentendo si gettò ai piedi de la moglie, e piangendo la supplicò che tanto scorno non gli volesse fare. Ella stava dura, e quanto più egli pregava, tanto più ella si mostrava ritrosa. A la [p. 83 modifica]fine egli in presenza di tutti le accrebbe a la dote sei mila ducati d’oro, promettendole che tutta quella famiglia in casa terrebbe che a lei piacesse, e che mai più di lei non prenderebbe gelosia. La donna essortata dai suoi disse che restarebbe seco. – Io resterò, poi che così al signor mio padre e fratelli piace. Ma vedi, marito, io non vo’ che Niceno più pratichi in casa. Tu hai preso di lui tanta gelosia oltre ogni convenevolezza, che ogni volta ch’io favellassi seco tu montaresti su ’l cavallo de le pazzie. – Questo, – disse alora il padre, – non starebbe, o figliuola mia, bene, e non mi pare che si faccia, con ciò sia cosa che tutta la città di Napoli sa la stretta domestichezza che è tra Niceno e tuo marito. Se egli seco più non praticasse, si darebbe materia di pensar che per tuo rispetto si facesse. Egli mi par discreto e buon giovine, e che molto ama tuo marito. Sì che non mi piace che a modo alcuno se li dia licenza, anzi che come prima si lasci andar e venire a sua posta, e niente di questo caso occorso se gli manifesti. – Angravalle lodò sommamente il conseglio prudentissimo del suocero, affermando che sempre egli era stato duro a creder tanta follia di Niceno. Bindoccia, che il suo disegno vedeva colorito ed incarnato, disse: – Poi che a tutti voi così piace, io ne resto contenta. – E così essendo tutti accordati, il rimanente de la notte restarono di brigata in quella casa a dormire. Venuto il giorno, fece Angravalle chiamar un notaio e fece far l’accrescimento de la dote, con scrittura autentica, dei sei mila ducati a la moglie, e in tutto spogliatosi la gelosia quando era tempo di vestirsela, a quella libero campo lasciò di far tutto quello che più a grado l’era. Ella poi, servidori per il marito, e per sè di quelle donne in casa condusse, che più le parvero a proposito. Niceno di questi avvenimenti con Angravalle non mostrò saperne cosa alcuna già mai. E praticando in casa come prima faceva, non fu di bisogno che Bindoccia gli mettesse la camicia de la mutola, nè che a se stessa facesse venir il flusso del ventre per trovarsi insieme, perchè ogni volta che volevano avevano agio e modo di star in compagnia e darsi il meglior tempo del mondo. Insomma, io conchiudo che di rado avvenga che, quando una femina delibera far alcuna cosa, che l’effetto non segua secondo il dissegno de la donna. Medesimamente ogni marito deve fuggir più che il morbo di dar occasione a la moglie di far male.


Il Bandello al [p. 84 modifica]molto valoroso signore il signor Cesare Fieramosca luogotenente de l’illustrissimo signor Prospero Colonna


Abbiamo noi lombardi un proverbio che molto spesso si costuma dire, cioè che il lupo muta pelo e non cangia vizio. E perchè i proverbi son parole approvate, conviene che il più de le volte siano vere: onde quando si vede uno invecchiato in una costuma o buona o rea che si sia, si può fermamente credere che egli il più de le volte in quella morrà. Può l’uomo da bene peccare, e di fatto talora pecca, ma per non essere al male avvezzo, con l’aiuto de la misericordia di Dio s’avvede del suo errore, e pentito ritorna a la via dritta. Gli uomini sconci e scelerati che nel mal operare hanno fatto il callo, si vedeno a le volte far buone e vertuose opere, ma poco durano in quelle, anzi ritornano a la loro pessima vita. E la ragione di questo è che, come l’uomo con i frequenti atti ha fatto l’abito e consuetudine in una cosa, quell’abito o consuetudine difficilmente si può rimuovere. E ragionandosi, non è molto, in casa del nobilissimo signor Galeazzo Sforza signor di Pesaro, che era in Milano, a la presenza de la molto vertuosa signora Ginevra Bentivoglia sua consorte, di questa materia, perciò che si diceva d’un vecchio che più di venti anni aveva sempre tenuto una concubina e morendo non l’aveva voluta lasciare, il magnifico messer Paolo Taeggio dottor di leggi narrò un mirabil accidente in Milano avvenuto, che fece meravigliar senza fine tutti quelli che l’udirono. E certamente il caso è degno di ammirazione e di pietà, e se non fosse meschiato di cose sacre sarebbe da riderne pur assai. Onde per dar numero a le mie novelle mi parve di scriverlo e al nome vostro dedicarlo, sapendo che non poco ve ne ammirarete, essendo voi molto ne le cose sacre cerimonioso, come io più volte ho esperimentato. Vi piacerà che il nostro piacevole Gian Tomaso Tucca anco egli legga questa novella, ricordandogli quella del rammarro, che da voi fu scritta quando con le genti d’arme eravate al Finale del Ferrarese. State sano.


NOVELLA