Nostalgie/Parte II/Capitolo I

Capitolo I

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Parte II Parte II - Capitolo II
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I.


Il carrozzino un po’ sgangherato di Petrin il Gliglo percorreva l’argine verso Viadana.

Regina, seduta non molto comodamente fra la sorella e il fratello, che le erano andati incontro alla stazione di Casalmaggiore, chiacchierava e rideva, ma di tanto in tanto taceva e diventava triste, distratta.

Allora Toscana e Gigino, che provavano una specie di soggezione di lei, tacevano anch’essi imbarazzati.

La notte era calda: la luna, grande, rossa, appena spuntata sull’orizzonte d’un azzurro opaco solcato da lunghe e sottili nuvole grigiastre, illuminava con un chiarore suggestivo di fuoco lontano il fiume e i boschi immobili.

Voci lontane, che venivano dall’altra riva del Po, attraversavano di tanto in tanto il silenzio profondo del paesaggio: un profumo d’erba, acuto ed umido, inondava l’aria, destando mille ricordi nell’anima di Regina.

Ma una «cosa» strana avveniva in lei. Ora che ella era giunta, che era nel luogo della sua nostalgia, nel rifugio sognato, l’anima le sfuggiva ancora. Come un tempo le era parso di portare a Roma solo la sua persona, e di aver lasciato sull’argine l’anima sua, simile a una [p. 136 modifica] lucciola errante, ora le sembrava di aver riportato sull’argine solo il suo corpo stanco e sofferente. L’anima volava via, se ne andava a Roma! Che faceva Antonio a quell’ora? Soffriva molto? Sentiva egli l’anima di sua moglie stringerlo tenacemente più che non l’avessero mai stretto le sue braccia? Le aveva scritto? Antonio, Antonio! Attraverso l’odore dell’erba, cioè attraverso tutti i ricordi e tutte le senzazioni che quella fragranza le ridestava, ella sentiva il tenero, lo speciale profumo «come di fiori bruciati» che emanavano i capelli di lui. Lagrime ardenti le salivano agli occhi. Era allora che improvvisamente taceva, col pensiero smarrito in una lontananza triste.

Era già pentita della lettera, o almeno di averla scritta troppo presto. — Potevo in tutti i casi scriverla qui! Egli avrebbe meno sofferto — pensava, per nascondere a se stessa il suo pentimento.

— E il maestro? E Gabri e Gabrie? — domandò, passando davanti a Fossa Caprara, la cui chiesetta bianca si distingueva nettamente, arrossata dalla luna, fra l’ombra dei platani. Al di là dell’argine, attraverso i salici argentei, il fiume brillava come un vetro antico leggermente ossidato.

Toscana e Gigi scoppiarono a ridere insieme, un po’ goffamente, ma entrambi beffardi.

— Che c’è? Perchè ridete così?

Il giovinetto soffocò la sua risata, ma Toscana rise ancora più forte.

— Ma che c’è? Riprende forse moglie il maestro?

Lu el vorres, se, ma li doni li nal veul [p. 137 modifica] mia, corpu dla madosca. (Lui vorrebbe, sì, ma le donne non lo vogliono, corpo d...) — disse Pedrin, voltandosi un po’ di fianco, e mischiandosi nei discorsi dei «ragassi».

— Vogliono venire a... a Roma, Gabri e Gabriel — disse alfine Toscana. Il fratello ricominciò a ridere.

— Perchè vogliono venire a Roma?

— Gabri per cercare un impiego e aiutare negli studi Gabrie che vuol diventare professoressa...

— Ah, ah! ah!

Risero tutti e quattro, ora, e Regina dimenticò per un momento la sua angoscia, tanto la divertiva il pensiero dei due ragazzi che progettavano d’andare a Roma, così, senza soldi nè aiuti, come se si trattasse d’andare a Viadana.

— E il maestro cosa dice?

— Lui è matto, — intervenne ancora Pedrin, volgendo la sua faccia grande, rossa e tranquilla come la luna. — El diss: chi vaga magari a pe: i dventarà na gran roba. (Lui dice: vadano pure, anche a piedi: diventeranno gran cosa).

Gigi s’animò e cominciò ad imitare Gabri che aveva la voce nasale:

— Potremmo andare a Milano; ma là non c’è l’Università femminile, come c’è a Roma e a Firenze: andremo a Roma perchè è capitale d’Italia. Io farò il tipografo, e Gabrie studierà.

E Toscana imitò la voce di Gabrie:

— E mio fratello, poi, stamperà i miei libri!

— Ragazzi, mi pare che siate un po’ invidiosetti! — disse Regina. [p. 138 modifica]— Oh! — essi esclamarono, colpiti sul vivo.

Infatti Gigi voleva presto andare a Roma, per studiare, e Toscana, che aveva una bella vocina di mezzo-soprano, sognava anch’essa di recarsi presso la sorella per apprendere il canto!

Regina diventò pensierosa, indovinando i sogni dei fratelli e dei loro amici, e ricordando le sue illusioni. Ma volle scuotersi ancora dalla tristezza, dal rimorso e dal presentimento che sempre più l’opprimevano.

— E tu, Pedrin, non vuoi venire a Roma? Puoi condurre Gabri e Gabrie nel tuo carrozzino!

— Oh! io andrò a Parigi — rispose tranquillamente l’uomo, non più giovine.

— Già, mi ricordo, volevi andarci dall’anno scorso; dicevi che avevi i soldi.

— Li avevo e li ho; ma mi fa fadiga spenderli! C’è là mio zio che mi scrive sempre: e vieni, e vieni...

Regina non ascoltava più, còlta da una dolcezza, attesa eppure improvvisa, che le rammoliva il cuore malato, come un balsamo la piaga. Ecco là, in fondo, dietro gli alberi neri del viassolin,1 il villino bianco: un lume brillava ad una finestra. S’udiva già la voce «screpolata» delle rane che cantavano nel fosso davanti al viottolo. Le ombre di due persone, un uomo e una donna, s’allungarono sull’argine, e una voce, altissima, prolungata, risuonò echeggiando, come la voce d’un viandante che chiamasse il portiner dall’una riva all’altra, per tragittare il fiume nella sua barca. [p. 139 modifica]— Reginaaa! — chiamava.

— È quel matto di Adamo, — disse Gigi: — egli ti chiama sempre così, e dice che tu devi sentirlo fino a Roma. Ed anche questa qui! — aggiunse, pizzicando un ginocchio di Toscana.

— E anche tu! E anche tu!

La voce risuonava ancora, ripercossa dall’acqua, echeggiante fino all’altra riva. Regina volle scendere dal carrozzino, per andare incontro a piedi alle due ombre care. Una di queste si staccò dall’altra e si mise a correre vertiginosamente, e piombò addosso a Regina, la prese, la strinse e fece un tentativo per spingerla e farla rotolare sulla china dell’argine.

— Adamo! Sei matto? — gridò ella, resistendo. — Ci manca proprio questo per finire di fracassarmi le ossa!

Allora Adamo, i cui grandi occhi neri brillavano alla luna, ricordò che Regina aveva scritto d’essere sofferente, e diventò anch’egli timido verso di lei.

— Come ti sei fatto grande! — ella disse. — Ti ho lasciato più piccino di me; ora sei due dita più alto.

— Le male erbe crescono presto! — gridò Gigino.

Allora il fratello, che per i suoi quindici anni era davvero un colosso, gli si gettò sopra e tentò farlo rotolare sull’erba, dopo aver spinto anche Toscana. Grida, risate, esclamazioni, tutto uno scoppio di allegria e di spensieratezza giovanile, riempì il silenzio profumato dell’argine. Regina lasciò che i fratelli e la sorella si dimenticassero di lei per divertirsi in quella lotta astuta ed agile nella quale l’uno [p. 140 modifica]cercava di spinger l’altro sulla china erbosa dell’argine, ed anch’essa si mise a correre incontro alla madre. Si abbracciarono senza parlare, poi la signora Tagliamari chiese notizie di Antonio.

— Credevo che venisse anche lui. Ma davvero, come stai tu? Non è nata alcuna questione tra di voi?

— Oh, no! — esclamò Regina. — Egli non è potuto venire ora, come vi scrissi. Io avevo un po’ di palpitazione di cuore; perchè abbiamo più di cento gradini, da scendere e salire due e tre e quattro volte al giorno! Allora Antonio s’è messo in pensiero, per me, e mi ha condotto da uno specialista, un medicone che ha voluto dieci lire per mettermi un piccolo imbuto nero sul petto. «L’aria nativa!» ha subito detto. «Qualche mese d’aria nativa!» Ora però sto bene; m’è quasi passato. Starò qui un mese, due al più. Antonio verrà a riprendermi...

Madre e figlia parlavano in dialetto, e si guardavano intensamente in viso. La luna, ora alta e bianca sul cielo fattosi chiaro, le illuminava di fronte. La signora Caterina, che non aveva ancora quarantacinque anni, pareva la sorella maggiore di Regina, tanto le rassomigliava. Era anzi più rosea, più fresca, coi grandi occhi innocenti più sereni di quelli di Regina: tuttavia a questa parve molto invecchiata, e vestita in modo quasi ridicolo, con un vestito nero dalle maniche ancora sbuffanti sulle spalle, che un anno prima le sembrava molto elegante.

— Verrà a riprenderti, — ripetè la madre. — Così sono tranquilla. [p. 141 modifica]

Ma Regina si sentì stringere il cuore. Sarebbe venuto davvero Antonio? E se egli invece, offeso a morte, non veniva? Ma no, neppure a pensarci...

Prima di percorrere la breve fuga assiepata, che dal villino conduceva all’argine, ella si fermò a contemplare il bellissimo paesaggio fluviale illuminato dalla luna. Pareva che un velo si fosse sollevato: tutto ora appariva chiaro e puro; l’aria era diventata fresca e trasparente come un cristallo. Si distingueva il verde-nero dell’erba, il verde-grigio dei salici: l’acqua dei fossi rifletteva la luna e i tronchi chiari dei pioppi le cui foglie metalliche ricamavano lo sfondo vellutato del cielo. 11 villino, bianco tra il verde ancora intenso del prato, intorno al quale pareva che la vite slanciasse i suoi festoni da un albero all’altro, inseguendosi e allacciandosi per una silenziosa danza notturna, apparve piccino piccino a colei che tornava dalla città delle case enormi. Ma il paesaggio, vasto e circolare come l’alto mare veduto da un piroscafo viaggiante, — e il grande fiume paterno, sparso di isolette fantastiche, chiuso da linee solenni di boschi, e l’orizzonte, in fondo, con qualche torre bianca sfumata nel vapore lunare, le allargarono l’anima con la loro pura immensità.

Gruppi di lucciole luminosissime attraversavano l’aria, simili a piccole stelle filanti: si udiva lo scroscio dei molini; si respirava la frescura e la dolcezza dell’acqua corrente. Tutto era pace, trasparenza, purezza. Eppure Regina trovò qualche cosa di mutato anche nel grande e sereno paesaggio, come nel viso di [p. 142 modifica] sua madre, e nelle maniere dei suoi cari fratelli. No, non era più quello il paesaggio, e non eran più quelle le persone care.

Scese la fuga fra il canto delle rane che raddoppiavano le loro strida quasi salutando il suo passaggio, e ricordò il giorno, la mattina umida e nebbiosa, in cui era partita con Antonio. Allora tutto era nebbia intorno, ma una gran luce le rischiarava l’anima: ora tutto brillava, il cielo, il fiume, le lucciole, le foglie, l’erba, l’acqua dei fossi; ma la nebbia era dentro di lei.

Anche l’interno del villino le parve cambiato. Troppo nude e disadorne le stanze. Oh, Dio mio, come era piccolo e invecchiato il quadro del Baratta sopra il camino del salotto da pranzo!

Non era più quello.

Visitò la cucina: il gattino nero guardava, davanti al focolare, una fetta di polenta studia (arrostita sulla brage), la domestica preparava le tagliatelle; niente era mutato, eppure tutto parve nuovo a Regina.

Dopo il pasto, abbastanza allegro e chiassoso, ella uscì, e nonostante la stanchezza che le fiaccava le membra, percorse un gran tratto dell’argine. Il fratello Adamo e la sorella l’accompagnavano, ma ella si sentiva sola e triste. Egli era lontano, e occorreva la sua presenza per riempire la solitudine meravigliosa di quella notte sempre più luminosa e pura. Che faceva egli a quell’ora? Anche le notti di Roma, agli ultimi di giugno, sono assai dolci e penetranti. Regina ripensava alle ultime passeggiate serotine fatte con Antonio su [p. 143 modifica]per certe vie larghe e solitarie di Villa Ludovisi o del Macao: la luna spuntava dietro la cima d’un albero, e qualche volta Antonio era riuscito a fare uno scherzo a sua moglie, distratta, dicendole: «Ma guarda come è alta quella lampada elettrica!» Il profumo dei giardini fondevasi con la fragranza del fieno che veniva da lontano, e qualche trillo di mandolino inteneriva il cuore nostalgico di Regina. Sì, anche a Roma le notti son belle, quando il caldo non è ancora venuto e molta gente se n’è andata. Anch’ella se n’era andata, e chissà se sarebbe mai più ritornata laggiù: chi sa se Antonio la voleva più!

Vinta da questa paura infantile, a un tratto ella si fermò e quasi trasalì. Vedeva sul pendio dell’argine, abbandonata fra l’erba umida, la vecchia ruota di pietra, che aveva tante volte veduta nei suoi assalti di nostalgia. Ora, nel rivederla in realtà, si accorse di una cosa: precisamente in quel punto cominciava un sentierolino che attraverso un boschetto di giovani salici e di gaggie selvatiche conduceva al fiume: scendendo quella striscia molle e giallognola di sabbia, una sera dell’autunno scorso, nella penombra rossastra delle macchie, ella ed Antonio, che l’aveva quasi suggestionata cantandole la romanza dei Pescatori di perle, s’erano scambiati il primo bacio. Ed ora ella sentiva ancora la voce di lui vibrarle nell’anima:

Mi par d’udire ancora...

— Ecco forse perchè ricordavo sempre la [p. 144 modifica]vecchia pietra — ella pensò, scendendo per il sentierolino pieno del ricordo di lui.

Si fermò un momento fra i salici esageratamente cresciuti, poi s’avvicinò all’acqua tutta d’un bianco azzurro lucente alla luna. Ma anche la riva, davanti alla quale il Po aveva deposta un’isoletta nuova, tenera e lavorata come un dolce di cioccolatta, anche la riva le parve cambiata.

Adamo e Toscana s’avvicinarono alla riva, e la fanciulla si mise a cantare: la sua voce tremolava nel silenzio lunare, simile al gorgheggio d’un usignolo. Non seppe perchè, Regina ricordò la prima sera ch’era stata dalla principessa, e la voce della vecchia signora che cantava:

A te, o cara...

Come quel mondo era lontano! Tanto lontano, che ella forse non l’avrebbe riveduto mai più.

E ciò non la turbava, oramai; perchè in quell’ora lunare, davanti alla purezza del fiume e del paesaggio natìo, le pareva di essersi svegliata da un sogno dannoso di ubbriaca; ma ciò che la tormentava era il dubbio, la paura di non riveder mai più le figure del suo triste sogno, perchè Antonio non sarebbe mai più venuto a riprenderla e ricondurla in quel mondo lontano.

Mai più! Passerebbero i giorni, i mesi, gli anni. Egli non verrebbe mai. Mai, ne dopo i tre anni indicati da lei, nè dopo dieci, nè dopo venti anni.

Perchè non aveva ella mai pensato a ciò, [p. 145 modifica]quando meditava sordamente la sua fuga come un uccello che anela di lasciare la gabbia senza preoccuparsi dei pericoli a cui si espone?

E chi lo sapeva? Sappiamo noi ciò che penseremo e sentiremo domani?

— La nostra vita è tutta un triste sogno, — pensava Regina, guardando come affascinata lo splendore dell’acqua corrente. — Io ho sognato, io sogno ancora: anche il mio crescente terrore, la paura dell’oblio o dell’odio di Antonio, è forse un sogno maligno. Che accadrà? Ne so niente, io? Ma... e se il mio timore s’avvera?

— Che farò io? — Anche qui non c’è più posto per me. Tutto è mutato: ogni cosa ha una voce di diffidenza per me. Il mio vecchio mondo, che io ho tradito, ora mi respinge. Ed io... io non avevo preveduto ciò! Andiamo! — disse, scuotendosi e ritornando verso l’argine.

Camminò a testa china, pensando che certamente s’ingannava. No, il suo vecchio mondo non poteva tradirla; era troppo vecchio per commettere simile perfidia.

— Certo, qui la vita è diversa, ma mi abituerò ancora. Domani, alla luce del giorno, quando sarò riposata, rivedrò le cose nel loro dolce aspetto.

Ma intanto non osava sollevare gli occhi per non rivedere il salice che aveva protetto il loro primo bacio.

Toscana la seguiva cantando; Adamo, la cui macchietta nera si disegnava sullo sfondo luminoso del fiume, si divertiva a gridare:

— Antonio! Antoniooooo...

L’eco ripeteva la sua voce sonora. E Regina [p. 146 modifica] affrettò il passo per nascondere alla sorella le sue lagrime cocenti. Ah, egli non rispondeva, egli non avrebbe risposto mai più!


*


Ma il sole dell’indomani dissipò le paure infantili, i terrori, i rimorsi di Regina.

— Oggi o domani riceverò la sua lettera, povero Antonio! — pensò ella svegliandosi nella sua antica camera, la cui finestra dava verso l’argine.

Una rondine, che usava dormire sul ferro delle tendine, svolazzò per la camera e andò a picchiare col becco sui vetri chiusi.

Regina sentì una gioia profonda nel riveder la rondine; si buttò dal letto, aprì la finestra e la visione del paesaggio accrebbe la sua gioia: allora ella, quasi spinta da un impulso irresistibile, scappò di casa e corse pei campi, immergendosi come in un bagno inebbriante di verde, di sole, di rugiada. Vagò pei viottoli coperti d’erba, al cui ingresso due pioppi giganteschi ergevano le colonne dei loro tronchi bianchi e mescolavano le cime in un culmine tremolante; e passò lungo i fossi popolati di famiglie d’anitre tranquille. Le chioccioline strisciavano, lasciando sull’erba le loro tracce argentee: i picchi, rifugiati sui pioppi, pareva segnassero col loro picchiettìo il batter del tempo nella serenità dello spazio e della solitudine.

Come la sera alla luna, ora ogni filo d’erba, ogni foglia, ogni sassolino brillava al sole: il fiume proseguiva il suo corso maestoso, [p. 147 modifica]solcato da strade d’oro, punteggiato qua e là dal segno perlato dei vortici: le isole con la loro vegetazione evanescente, coi loro merletti di foglie tremule, pareva fluttuassero fra lo splendore dell’acqua e del cielo.

La primavera lussureggiava ancora nell’immensità della pianura; una primavera potente come una bella gigantessa accarezzata dall’alito del fiume suo amante e adornata dalle mille e mille mani dei lavoratori suoi servi.

Ma quando fu stanca, Regina si buttò a sedere sul trifoglio ancora umido di rugiada, e il suo pensiero volò lontano.


*


Nel pomeriggio, poi, ricominciò a rattristarsi ed inquietarsi.

Cominciarono le visite, curiose, noiose, interessate, di parenti, amici, persone che desideravano qualche favore. Tutti credevano che Regina fosse influente e potesse ottenere tutto, solo perchè viveva a Roma!

Ella dapprima sorrise, poi si seccò: e tutte le persone che ella conosceva e che venivano a salutarla o ad ossequiarla, le parevano cambiate, vecchie, semplici, quasi ridicole.

Venne anche il maestro con Gabriella, una piccola bionda dal visino pallido e paffuto, con due occhi metallici, d’un azzurro grigiastro, luminosi e scrutatori.

— E insomma, — disse il maestro, abbottonandosi la giacca sul petto sottile, incavato.

— Ecco qui la nostra Regina. Oh, bravissima: ho ricevuto la cartolina illustrata col Colosseo. [p. 148 modifica]Quello, sì, è un monumento! Oh, brava la nostra Regina: lei avrà visitato tutti i monumenti del paganesimo e del cristianesimo: avrà veduto le opere di Michelangelo Buonarroti. Oh, Roma! Sì, io voglio che i miei figli vadano nella Roma eterna...

— Papà! — disse Gabrie, che guardava Regina scrutando se ella si beffava del maestro.

Ma Regina restava un po’ fredda, un po’ indifferente, e questo contegno intimoriva alquanto la futura professoressa.

Più tardi venne anche una signorina nobile di Sabbioneta, dal viso pallido e i capelli neri acconciati alla Botticella; una bella figurina sottile, vestita elegantemente, in guanti bianchi e in scarpine chiare dal tacco altissimo. Gabrie, Toscana e questa signorina avevano circa la stessa età, — i diciotto anni acerbi ed esperti di tutte le studentesse, — ed erano amiche intime; ma Regina s’accorse subito che tutte e tre si invidiavano e quasi s’odiavano cordialmente. La signorina nobile si dava delle arie, e faceva della maldicenza in modo squisito.

— Che tacchi, Dio mio! — disse Gabrie, alla quale non sfuggiva niente. — Ora non usano più così.

— Nell’alta aristocrazia usano sempre, — rispose l’altra con degnazione.

Poi si parlò di un piccolo scandalo accaduto il giorno prima fra due signore di Sabbioneta, che s’erano ingiuriate per la strada.

— Mogli d’impiegati! — disse la signorina con disprezzo. — Due dame dell’alta aristocrazia certo non si sarebbero comportate così! [p. 149 modifica]— Ma, — disse Regina, — dove le hai conosciute tu le dame dell’alta aristocrazia?

— Oh, se ne vedono dapertutto!

— Senti, se tu avvicinassi davvero una dama dell’alta aristocrazia ed essa si degnasse guardarti, tu resteresti gelata per il terrore e l’umiliazione.

Le altre ragazze cominciarono a ridere pazzamente: il maestro domandò:

— Dica, Regina, conosce lei la duchessa Colonna di San Pietro?

— E chi lo sa! Ci son tante duchesse a Roma!

— Per questa gran dama abbiamo una raccomandazione da una signora di Parma.

— Papà! — gridò Gabrie, rossa di collera e di fierezza. — Io non ho bisogno di raccomandazioni! Che possono farmi le grandi dame?

— Figliuola mia! — disse Regina con pietà ironica. — Son loro le padrone del mondo, e...

Qualcuno battè forte alla porta. Regina s’interruppe e impallidì lievemente, credendo fosse il fattorino biciclista che usava distribuire i telegrammi nei paesetti tra Viadana e Casalmaggiore. No, non era lui.

La sera cadeva; il cielo tingevasi d’un rosso ardente. Le tre amiche uscirono, e Regina rimase vicino alla finestra, scrutando le lontananze dell’argine in attesa del fattorino biciclista.

In fondo al salotto, il maestro e la signora Tagliamari chiacchieravano tranquillamente, ma di tanto in tanto rivolgevano uno sguardo a Regina, della quale vedevano l’inquietudine e la tristezza che ella, d’altronde, non cercava nascondere. Il maestro parlava ad alta voce [p. 150 modifica]perchè ella udisse, raccontando i progetti e i sogni dei suoi figliuoli.

— Insomma, bisogna che lavorino e che si conquistino il mondo, giacchè vogliono conquistarselo. Che farebbero qui? La maestra? Il maestro? Grazie tante!

— Ma non le dispiace mandarli lontano?

— Queste non son domande da farsi, signora Caterina! Son le viscere che si distaccano, quando i figli si distaccano dai genitori. Ma i genitori hanno messo al mondo i figli per farli vivere e non per vederseli vegetare d’attorno.

Andate, andate, figli miei, — aggiunse il maestro stendendo le braccia, con infinita tenerezza, — il nido resterà deserto, e il vecchio genitore finirà tristemente i suoi giorni, come del resto li ha cominciati; ma nel cuore, signora Caterina, ma nel cuore egli avrà l’immensa gioia di dire: io ho fatto il mio dovere, io ho insegnato ai miei figli a volare. Così avessero fatto con me i miei genitori! Ah!

Regina guardava sempre fuori; udiva le chiacchiere del maestro, udiva le risate e le voci fresche delle tre fanciulle che passeggiavano sull’argine, e vedeva il cielo impallidire, farsi diafano, roseo, poi quasi verdognolo, con piccole nuvole viaggianti che parevano uno stormo d’uccelli violacei. Ella cominciava a provare una irritazione sorda, indefinita, non sapeva perchè. Forse perchè le tre fanciulle ridevano e gridavano troppo, forse perchè il maestro diceva delle sciocchezze, forse perchè il fattorino non appariva nelle lontananze deserte dell’argine.

Il maestro trasse di tasca un taccuino e [p. 151 modifica]cominciò a leggere alcuni appunti di Gabrie, interrompendosi ogni tanto per avvertire che lo faceva all’insaputa della fanciulla dal cui tavolo aveva preso di nascosto il prezioso libretto.

— Senta questo, senta che spirito di osservazione. È il tipo d’un futuro racconto. La mia Gabrie raccoglie, raccoglie: vede un tipo, l’osserva, lo raccoglie. È come quelle buone massaie che mettono da parte tutto perchè tutto è buono... Senta questo: «Signorina diciottenne, nobile, anemica, di famiglia decaduta. Ipocrita, vana, invidiosa, ambiziosa, sa nascondere i suoi difetti sotto una dolcezza fredda, apparente, che sembra naturale. Parla sempre dell’alta aristocrazia. Qualcuno le ha detto che sembra una vergine del Botticelli e da quel giorno ella assume delle arie estatiche e sentimentali». Non è vero che è bello, signora Caterina?

— Oh, davvero bello! — disse la signora con dolce compiacenza. — Regina, senti, senti; senti come Gabrie scriverà i suoi romanzi. Bello davvero.

Regina pensava al romanzo che anch’ella voleva scrivere, e del quale quel giorno s’era perfettamente scordata. La sua irritazione crebbe, riconoscendo nel tipo tracciato da Gabrie la signorina di Sabbioneta: le parve di provar rabbia per le pretensioni, per i sogni, per l’ambizione della piccola figlia del maestro, e compassione per le illusioni del semplice «genitore», e si volse per dire a costui che la smettesse, che insegnasse a sua figlia a crearsi una vita reale, e non la mandasse per il mondo [p. 152 modifica] dove i poveri sono inghiottiti come fuscellini dai vortici lucenti del fiume, — ma negli occhi scialbi dell’umile insegnante vide tanta luce di tenerezza, di sogni, di rimpianti, che ebbe pietà e non osò togliere al povero la sua unica ricchezza: l’illusione.

— È così brutto non illudersi più! — disse fra sè, mentre pensava che per quel giorno il telegramma d’Antonio non sarebbe più arrivato.


*


Col cader della sera la riprendevano i terrori puerili, i pensieri deformi: l’ombra l’avvolgeva, le creava intorno un’atmosfera glaciale ove tutto era tristezza, mistero, vertigine. Le pareva d’essere sospesa, così, sotto un cielo crepuscolare, diretta verso un paese introvabile, come le piccole nuvole che rassomigliavano ad uccelli violacei, migranti senza speranza di riposo. Il mondo antico, al quale era tornata, le appariva piccolo, triste, noioso. Non ci si stava più bene. Ma finalmente ella confessava a sè stessa una triste cosa: era lei che era cambiata, non il suo vecchio mondo.



Note

  1. Viottolo.