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— Reginaaa! — chiamava.

— È quel matto di Adamo, — disse Gigi: — egli ti chiama sempre così, e dice che tu devi sentirlo fino a Roma. Ed anche questa qui! — aggiunse, pizzicando un ginocchio di Toscana.

— E anche tu! E anche tu!

La voce risuonava ancora, ripercossa dall’acqua, echeggiante fino all’altra riva. Regina volle scendere dal carrozzino, per andare incontro a piedi alle due ombre care. Una di queste si staccò dall’altra e si mise a correre vertiginosamente, e piombò addosso a Regina, la prese, la strinse e fece un tentativo per spingerla e farla rotolare sulla china dell’argine.

— Adamo! Sei matto? — gridò ella, resistendo. — Ci manca proprio questo per finire di fracassarmi le ossa!

Allora Adamo, i cui grandi occhi neri brillavano alla luna, ricordò che Regina aveva scritto d’essere sofferente, e diventò anch’egli timido verso di lei.

— Come ti sei fatto grande! — ella disse. — Ti ho lasciato più piccino di me; ora sei due dita più alto.

— Le male erbe crescono presto! — gridò Gigino.

Allora il fratello, che per i suoi quindici anni era davvero un colosso, gli si gettò sopra e tentò farlo rotolare sull’erba, dopo aver spinto anche Toscana. Grida, risate, esclamazioni, tutto uno scoppio di allegria e di spensieratezza giovanile, riempì il silenzio profumato dell’argine. Regina lasciò che i fratelli e la sorella si dimenticassero di lei per divertirsi in quella lotta astuta ed agile nella quale l’uno