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— Oh! — essi esclamarono, colpiti sul vivo.
Infatti Gigi voleva presto andare a Roma, per studiare, e Toscana, che aveva una bella vocina di mezzo-soprano, sognava anch’essa di recarsi presso la sorella per apprendere il canto!
Regina diventò pensierosa, indovinando i sogni dei fratelli e dei loro amici, e ricordando le sue illusioni. Ma volle scuotersi ancora dalla tristezza, dal rimorso e dal presentimento che sempre più l’opprimevano.
— E tu, Pedrin, non vuoi venire a Roma? Puoi condurre Gabri e Gabrie nel tuo carrozzino!
— Oh! io andrò a Parigi — rispose tranquillamente l’uomo, non più giovine.
— Già, mi ricordo, volevi andarci dall’anno scorso; dicevi che avevi i soldi.
— Li avevo e li ho; ma mi fa fadiga spenderli! C’è là mio zio che mi scrive sempre: e vieni, e vieni...
Regina non ascoltava più, còlta da una dolcezza, attesa eppure improvvisa, che le rammoliva il cuore malato, come un balsamo la piaga. Ecco là, in fondo, dietro gli alberi neri del viassolin,1 il villino bianco: un lume brillava ad una finestra. S’udiva già la voce «screpolata» delle rane che cantavano nel fosso davanti al viottolo. Le ombre di due persone, un uomo e una donna, s’allungarono sull’argine, e una voce, altissima, prolungata, risuonò echeggiando, come la voce d’un viandante che chiamasse il portiner dall’una riva all’altra, per tragittare il fiume nella sua barca.
- ↑ Viottolo.