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XIV XVI
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XV.

Al principio di novembre, la Compagnia avendo ripreso il corso delle sue recite al Milanese, Villa del Ferro invitò Gilda Mauri a prendere il posto di una giovine che avea lasciato il teatro.

Egli le mandò le parti che doveva rappresentare, la musica di alcuni cori e di alcune arie, con la ingiunzione di recarsi alle prove il secondo lunedì a mezzogiorno. La compagnia si sarebbe riunita appositamente per lei, a ripetere delle cose già vecchie, o almeno, mille volte rappresentate, come On Milanes in mar, I Saltador e Massinelli in vacanza; perciò, era pregata a studiar bene le sue parti, per non far perdere troppo tempo ai colleghi.

In quei primi mesi, dopo tornata da Aix-les-bains, Gilda, che conosceva la musica fin dalla scuola Normale dove il canto era obbligatorio, avea preso un certo numero di lezioni; tuttavia, questa raccomandazione e l’avvicinarsi del suo [p. 251 modifica]esordire, la turbarono un poco. Si buttò a studiare con una certa febbre, e fu un bene per lei questa distrazione violenta, a cui non poteva sottrarsi.

Da alcuni giorni, Giovanni, meglio il deputato Pianosi, era andato a Roma per la riapertura del Parlamento, ed ella era sola, triste, sgominata da questo avvenimento crudele.

A Aix-les-bains avea passato quasi un mese: un mese di ebbrezza, di felicità intensa, un lungo sogno di amore concretato nella realtà.

Ma al principio di settembre, gli affari e l’approssimarsi delle elezioni avevano richiamato Giovanni, imperiosamente. Ed egli avea obbedito all’ordine delle cose, senza troppo rammarico, sentendo già, nella sua salute riequilibrata, il bisogno di lavorare, di ridare alla mente la sua antica abituale occupazione. Per Gilda invece, quantunque se l’aspettasse, quella separazione avea assunto un carattere tragico, e le lasciava in cuore una desolazione invincibile. Non potendo arrivare a Milano insieme, egli era partito solo, ed ella aveva dovuto fermarsi ancora un pajo di giorni all’albergo. Giorni amari e cupi, nei quali provava quasi la sensazione fisica di essere stata colpita nel mezzo del cuore.

Non poteva lagnarsi di Giovanni: egli l’amava sempre: avea per lei una passione inesauribile, un affetto ardente e delicato. Era fiero di possederla, geloso della sua bellezza, pieno di premure, di riguardi squisiti. Ma giunta l’ora, egli era partito senza perdere un giorno, senza dissimulare che gli affari prendevano sempre un grande posto nel suo pensiero, che le elezioni gli stavano [p. 252 modifica]a cuore, che tutta quella vita infine gli premeva, in un altro modo, ma con la medesima intensità dell’amore, lasciandole intravedere che il lavoro e la soddisfazione di un giusto orgoglio erano elementi necessari della sua esistenza, fonti vive, al cui contatto le sue forze rinverdivano. E lei che sapeva tutto questo da tanto tempo, che l’avea indovinato per virtù di amore, meditando nel silenzio delle notti vegliate al suo capezzale; lei che avea affrontato coraggiosamente il sacrificio che l’amore le imponeva, per impedire che lui ne facesse di troppo gravi, lei, ora che gli avvenimenti seguivano il loro corso naturale e preveduto, si sentiva straziare l’anima e soccombeva sotto il peso che le era parso dolce.

La felicità completa di cui avea goduto in quel mese, la vita a due, soli, lontani da conoscenti nojosi, quella vita di marito e moglie, così dolce nella sua confidenza, così ben fusa nel pensiero e nella realtà, così poetica e piena di salvaguardie per la donna che ama con tutte le sue forze e si dà completamente, senza secondo fine, l’avea trasformata ancora una volta nell’intelletto e nel sentimento, come nelle forme esterne, le quali avevano raggiunto una opulenza sobria, una bellezza perfetta. Era donna ora e femmina.

Il filo di logica generosa, quasi impersonale, a cui si attaccavano tempo addietro i ragionamenti della vergine innamorata, era spezzato adesso. Adesso, nella sua femminilità ardente e sincera, ella sentiva che soltanto il possesso assoluto dell’uomo cui apparteneva, avrebbe potuto renderla soddisfatta e contenta. Non era il lavoro, nè l’ambizione di cui egli sentiva gli sproni, quelli che [p. 253 modifica]le davano noja. Era troppo moderna per non intendere il potere di questi grandi fattori della nostra esistenza: amava troppo istintivamente il lusso e la eleganza per non amare anche l’attività che ce li procura. Una vita di lavoro, unita a lui, con una splendida meta di ambizione davanti agli occhi, avrebbe animato tutte le sue forze intellettuali, accesa la sua fantasia. Ma fin che Edvige esisteva, tutto ciò era inutile per lei, anzi, l’ambizione, gli affari, non erano che tanti ostacoli di più messi fra i suoi desideri e la realtà, fra lei e l’amor suo.

Quella donna ch’egli non amava, era sempre la moglie, era sempre la madre nella famiglia, la padrona nella casa.

Ella gli sarebbe andata incontro alla stazione con Lea e gli amici; sarebbero montati nella stessa carrozza, avrebbero parlato delle cose che li interessavano tutti e due, su cui si posava il loro avvenire, avvenire purificato dalla presenza di Lea. A casa, lei sarebbe stata piena di premure, non avrebbe fatto alcuna allusione pungente, e lui non avrebbe potuto a meno di essere cortese, di trattarla da gentiluomo.

Così a poco a poco, nella intimità positiva della casa, in mezzo ai ricordi di una intimità più dolce, le memorie dolorose si sarebbero assopite: a poco a poco si sarebbero avvicinati, e... forse, come aveva detto la Sabina così brutalmente, avrebbero rifatta la pace.

La pace!... Vale a dire che Edvige sarebbe tornata sua moglie di fatto, e che lui si sarebbe diviso fra l’una e l’altra.

Oh, la implacabile gelosia che le rodeva il cuore! [p. 254 modifica]Era questo il suo male; era questo il suo strazio, una gelosia cupa, irragionevole, che la mordeva improvvisamente come una vipera maligna.

Finchè il loro amore era durato puro ed innocente, per tutto il tempo che ella avea assistito Giovanni, quella donna le era parsa, sì, un ostacolo alla loro felicità, l’avea odiata per il male che avea fatto a lui; ma non le era mai venuto in mente di essere gelosa. Soltanto dacchè avea vissuto con lui nella bella intimità libera, dacchè si era illusa, per un momento, di essere lei la moglie, la vera moglie degna di lui per l’intensità dell’affetto e perchè a lui solo avea appartenuto, soltanto allora quella mostruosa gelosia era venuta ad avvilirla con i suoi sospetti, a mettere una macchia turpe sulle belle immagini del suo unico amore.

O perchè?... Era forse un castigo? Avea fatto tanto male lei ad amare un uomo infelice, un uomo tradito?...

Con questi dubbi, con questi tormenti, ella era giunta a Milano.

Fu un arrivo pieno di mestizia. Alla stazione nessuno l’aspettava: nel suo appartamento, in via Sant’Andrea, nessuno altro che una servetta svizzera, di buono aspetto però.

Ma nella serata egli andò a trovarla e l’elegante nido che le aveva preparato brillò di luce e di gioja.

Il settembre e l’ottobre passarono così in una alternativa di giorni grigi e tristi, traversati da alcune ore di felicità violenta.

Il lunedì fissato per le prove, ella si trovò, a mezzogiorno in punto, davanti la porta del teatro Milanese. [p. 255 modifica]

Nessun teatro ha forse una porta così poco teatrale. Ciò che v’ha di certo è che la porta non fu fatta per il teatro.

Esso se ne sta come imprigionato nel ventre di quell’alta casa che porta il numero 15 sul Corso Vittorio Emanuele. La casa ha una facciata poco larga, ma essa si prolunga a guisa di serpente dalla parte posteriore, incastrandosi nel vasto agglomeramento di case, d’ogni valore ed aspetto, circoscritto dal Corso stesso e dalle vie San Paolo, Soncino Merati e San Pietro all’Orto.

Sopra l’arco della porta tra le mensole di un poggiolo, una specie di lunga cassetta di cristallo reca la leggenda; «Teatro Milanese.» Ma di giorno è facile che uno passi senza vederla. Di sera, una fila di fiammelle a gas accese dietro al cristallo e ajutate da due lampioni a lastre bianche e rosse, chiamano l’attenzione della gente.

Un’altra particolarità caratteristica di questa porta curiosa sono gli avvisi, i cartelli e i cartellini e insegne di ogni forma.

Prima di tutto, due avvisi dello spettacolo incollati sugli stipiti, uno per parte; poi spiccanti fra i cartellini più piccoli, due o più quadri di fotografie, di biglietti da visita, una insegna di sartoria, una di negozio di pianoforti, e quella grande della Chemiserìe Parisienne (i Milanesi di buon umore leggono: che miserie) la quale occupa il posto d’onore al primo piano. Un cartellino manoscritto, con ortografia scapigliata, avverte eziandio l’esistenza di una pettinatrice. Vi è una osteria interna, un caffè ancora più interno, poi magazzini, botteghe da falegname, alloggi numerosi per ogni sorta di gente, pensioni per can[p. 256 modifica]tanti d’ogni nazione... e chi sa cosa altro ancora!

Il teatro è in fondo alla seconda corte ed occupa il posto di una terza.

Dalla strada chi svolta per entrare vede davanti a sè, nello sfondo una porta chiusa a vetrate, sulla quale si ripete la leggenda: «Teatro Milanese.»

Gilda si mise nell’andito, traversò un cortiletto, passò sotto una specie di portico e si trovò nel cortile maggiore, di fronte alla porta vetrata.

Davanti a lei camminava affrettando il passo una coppia giovane, con una bimba piccina piccina, che saltellava per non rimanere indietro.

La donna era una figura snella, non grande, brunetta, dal naso affilato, dagli occhi vivi; l’uomo, figura media, sottile, tutto pallido, dai capelli agli occhi, con i zigomi marcati dalla magrezza, una barbettina povera; molto corretto: vero tipo da maestro di pianoforte. La bimba poteva avere tre anni, portava le sottanine corte corte, un manicottino pendente sul petto, nel quale si guardava bene d’infilare le sue manine paonazze, e in testa un cappuccetto a monachella di raso rosso splendente.

In quella vicenda di penombre e di luce piovente mite dai tetti elevati, Gilda seguiva con simpatia la macchia fulgente del cappuccetto rosso...

Dietro a lei, qualcun altro affrettava il passo: questi la sorpassò, la guardò fisso, poi s’avvicinò famigliarmente alla piccola famiglia. Era un uomo alto, robusto, giovane ancora, chiuso in un paletot grigio tutto abbottonato, che gli scendeva fino [p. 257 modifica]ai piedi. Aveva il viso intelligente, forte, di lineamenti marcati, con occhi vivi, piccoli baffi bruni e mento raso. Nell’insieme, un indefinibile carattere militare.

Egli aprì la porta vetrata su cui stava la leggenda «Teatro Milanese» e entrarono tutti insieme, voltandosi, naturalmente, verso di Gilda che si trovava a due passi da loro. Ella si affrettò a entrare e si trovò in una penombra densa, interrotta appena dalla luce filtrata e da una lampada a petrolio. Si arrestò incerta, mentre i suoi nuovi compagni aspettavano evidentemente che dicesse qualche cosa.

— ... Vado alla prova — mormorò — ma... non so da che parte...

— Venga, venga — risposero tutti in coro — ci andiamo anche noi.

— È la signorina Mauri? — domandò la mamma del cappuccetto rosso.

— ... Sì...

— Bene, bene: venga avanti con me.

Aprirono un altr’uscio vetrato, voltarono a destra e entrarono in una grande sala buja: l’anticamera del teatro, l’atrio, la sala dove si fuma, tutto.

Gilda non vi distinse altro che le aperture, le quali si disegnavano nel bujo con un blando chiarore. Due erano nella parete lunga, simmetriche.

— Di là si va in platea — disse il signore dal paletot grigio: vede?... si scende alcuni gradini: par proprio di entrare in una cripta sconsacrata!... Ma, io le parlo senza essermi presentato, perdoni! Se permette, mi presenterò da me come collega: io sono Rodio... E le porse la mano.

— Oh, tanto piacere... ma l’avevo riconosciuto [p. 258 modifica]sa; sono stata qualche volta alle loro rappresentazioni...

— E me, mi riconosce? — domandò la signora.

— Sì... di figura; l’ho vista nel Granduca di Gerolstein, quel costume le stava benissimo.

— Oh! grazie, signora! Io mi chiamo Ramelli; e questo è mio marito Cantonieri, il maestro concertatore, — disse accennando al giovine pallido.

Cantonieri s’inchinò col suo fare dignitoso.

Dalle porte della platea, dai corridoi aperti veniva la voce sonora di un pianoforte.

Erano motivi di valzer appassionati, che si spandevano nel piccolo ambiente chiuso e vuoto rimbalzando dalle pareti, incanalandosi nei corridoi.

— È Villa del Ferro che ci aspetta in orchestra disse Rodio sorridendo.

Intanto avevano imboccato il corridojo dei palchetti per andare al palcoscenico.

La bambinetta correva avanti, ben pratica del luogo; mentre Gilda doveva lasciarsi guidare in quel labirinto, dove si alternavano le tenebre e una luce scialba.

Alcuni uomini stavano manovrando scene e quinte.

Pinella, il bel cane di Villa del Ferro, ritto nel mezzo al palcoscenico, guardava giù in orchestra, con una attenzione buffa e in aria di malcontento, il suo padrone che suonava. Casilde, la bimba della Ramelli, lo trasse da quella contemplazione buttandoglisi addosso per fargli festa.

Lui la baciò audacemente e cominciarono a correre, con grandissima noja degli uomini che lavoravano.

Gilda aspettando guardava la sala piccola — [p. 259 modifica]dieci metri di larghezza, su dodici di lunghezza — bassa — non più di due ordini — ma elegante e gaja, perfino con Quella poca luce di una mattina di novembre, piovente dal lucernario ottagonale. Ella aveva visto qualche altro teatro di giorno, e le era parso triste, povero, opprimente; quello conservava la sua bell’aria domestica, quel buon carattere di famiglia che lo faceva rassomigliare alla creazione di un babbo ricco, desideroso di far divertire i suoi numerosi rampolli e gli amici di casa. La decorazione pittorica, tutta in toni chiari e tenui, i drappeggiati di tela greggia, i cuscini di velluto rosso come le poltrone, lo scarso numero di palchetti a scatola, e fin quelle due grandi tele gregge buttate sulle poltrone per ripararle dalla polvere, contribuivano a mantenergli il suo carattere allegro e domestico.

— Signorina! — chiamò una voce al suo fianco.

Gilda si voltò di scatto. Era Villa del Ferro. Si salutarono.

— Mi compiaccio, disse lui, ch’ella trovi il nostro teatrino degno di qualche attenzione. Le pare discreto?

— È bellissimo! — esclamò Gilda.

— Ho piacere, — disse semplicemente l’attore celebre; così reciterà più volentieri. Ha studiato?

— Più che ho potuto.

— Bene, bene: ora vedremo.

E s’allontanò, senza dire altro, per dare degli ordini, senza aver sorriso, senza averle stretto la mano, freddo e leggermente angoloso, nel suo lungo paletot nero tutto abbottonato, con le mani in tasca, un cappelletto rotondo calcato sulla fronte. Gilda non poteva a meno di osservarlo, perchè le [p. 260 modifica]pareva tanto diverso dagli altri. Era difatti singolarmente aristocratico, per la fisonomia dalle linee fini, espressive, per la carnagione delicatissima, per la snellezza del corpo alto e slanciato, e, sopra tutto, per le mani ed i piedi. Nell’insieme una figura notevolissima di spostato moderno, rimesso a posto, fino a un certo punto, da un ingegno originale e dalla celebrità.

Nell’allontanarsi, egli si fermò per accendere un sigaro e si mise a fumare, come uno che si sente ed è in casa propria; poi si buttò sur una sedia con quella sua aria di languore e di noja, mentre allungava sbadatamente una mano per accarezzare Pinella, che da un pezzo implorava quella carezza.

— Chi s’aspetta? — domandò il maestro concertatore, che si era messo al pianoforte.

— Girotti! — rispose Villa del Ferro: — deve provare il notturnino del Milanes in mar, cantato in terza con la signorina.

— Eccolo! — esclamò la Ramelli.

Girotti, un uomo sulla quarantina, di media statura, robusto e snello, con un paletot color pulce, di quelli detti alla Bismarck, col cappuccetto pendente sulla schiena, una cintura stretta intorno ai fianchi, il cappello fortemente inclinato sull’occhio sinistro, arrivò correndo, attraversò il palcoscenico con un passo slanciato, e si posò al fianco di Gilda, sorridendole amabilmente, con la sua bell’aria di conquistatore, e salutandola con la disinvoltura e il garbo di un gentiluomo.

— Signorina, — disse — sono ai suoi ordini; mi duole di averla fatta aspettare.

— Si comincia! — gridò il direttore. [p. 261 modifica]

Insieme a Girotti erano venuti anche gli altri comici: Gardini, piccolotto, grigio, bravo attore; Durante, alto, sparuto; Milesi, il celebre Piccaluga del Barchett de Boffalora; la Giannelli, atticciata, bianca, sempre allegra, chiassona, coi suoi piccoli occhi chiarissimi, spalancati e lustri; la bella Delfinoni, elegante, preziosa; il giovine Cimino, tutto attillato, uscito allora allora dal parrucchiere, profumato, inappuntabile, con una discreta posa di bel giovine, il sospiro e lo spasimo delle attrici disoccupate.

Tutti si misero al posto per la prima scena del Milanes in mar.

Villa del Ferro avea affidata a Gilda la parte di Balilla, un giovinetto marinaro genovese, che deve parlare nel suo dialetto e cantare in italiano.

Gilda aveva una vocina di mezzo soprano, piacevole di timbro e sufficientemente forte per un teatrino così piccolo.

Alla scuola normale era sempre quella che guidava i cori.

La musica le piaceva; non mancava di un certo buon gusto; per tutto ciò, le esigenze del repertorio milanese essendo del resto così limitate, ella poteva trarsi d’impaccio abbastanza bene.

Nonostante, in quel momento, ella si sentì presa da una grande timidezza. Più che il canto, però, la spaventava quello che doveva recitare, per di più in dialetto genovese.

Ma Girotti le faceva coraggio.

Egli conosceva bene quel dialetto: le avrebbe insegnato la pronuncia, l’accento; d’altronde si trattava di così poche frasi!

Villa del Ferro disse: [p. 262 modifica]

— Naturalmente, non proveremo altro che le scene, in cui c’entra Balilla, per la signorina.

— Ben inteso, ben inteso — risposero in coro gli artisti.

— Ci mancherebbe che noi s’avesse bisogno di ripetere On Milanes in mar! — esclamò Girotti — l’avremo recitato almeno almeno centomila volte!

La prova andò benissimo: Gilda aveva studiato, diceva bene, cantava meglio.

Fece furore specialmente il secondo notturnino cantato in terza con Girotti. Molti dei compagni la complimentarono.

— Si farà brava — diceva il direttore guardando il fumo del suo sigaro e accarezzando Pinella sbadatamente.

— Domani i Saltador — gridò dietro ai colleghi che se ne andavano.

— Ah! — esclamò improvvisamente battendosi la fronte. — E il costume? Non abbiamo pensato al costume! Signorina Mauri, venga qui: ha provato il costume?

— Io, no... non sapevo.

— Ehi, Pietro, chiamatemi la moglie del trovarobe.

Dopo pochi momenti apparve la sora Luisa, col suo largo grembiule a quadrettini bianchi e rossi e un bel costumino da marinaro posato sul braccio.

— È così che mi devo vestire? — domandò Gilda perplessa.

— Certo. Non lo sapeva?

— Non me ne rammentavo — mormorò chinando il capo.

— Siamo tutte vestite così — disse la bella Delfinoni. [p. 263 modifica]

— Tutte! tutte! — ripeterono le altre.

Gilda tacque vergognosa di essersi vergognata e di aver lasciato scorgere questo sentimento.

— Devo andarlo a provare? — domandò per sottrarsi a tutte quelle curiosità.

— Sì, brava. Enrichetta, accompagnala nel camerino accanto al tuo che è disoccupato disse Villa del Ferro alla Cantonieri.

Mentre loro si allontanavano, seguite dalla Delfinoni e dalla Giannelli, arrivò sul palcoscenico Clelio Arrisi, il noto romanziere e commediografo.

Era un uomo alto, molto alto, sottile, sebbene l’età avesse alquanto mitigata la sua magrezza; dall’aspetto signorile, distratto, miope. Portava il pince-nez; vestiva bene senza affettazione. Moralmente apparteneva alla classe dei gaudenti bonari, dei giovinotti eterni, che non cambiano vizio nè pelo. Diffatti il suo pelo era sempre scuro, quantunque gli amici sostenessero che si tingeva. Ma lui, si diceva seccato di non incanutire, appunto per questa persecuzione degli amici, e raccontava di avere cercato, dai parrucchieri più in voga, una tintura grigia. Avrebbe fatto volentieri il rovescio di quello che gli rimproveravano: disgraziatamente, nessuno aveva ancora pensato a inventare il modo di parer vecchi prima del tempo!

Gli amici pure raccontavano che era stato ricco e che aveva sciupato due patrimoni. Ma lui non aveva l’aria di rammentarsene, nè di rimpiangere il passato. Piuttosto si compiaceva di avere goduto; e, se poteva illudersi che quel bel tempo non fosse finito, tanto meglio.

Appena salutati gli amici domandò notizie della prima donna che era indisposta. [p. 264 modifica]

Gli fu risposto che stava meglio, ma che era sempre a letto.

— E la nuova attrice? — domandò.

Egli era venuto realmente per lei. Aveva sentito parlare della sua bellezza e era curioso di vederla. Una bella donna, giovanissima, intorno alla quale già si susurrava che fosse l’amante di un ricco signore ammogliato: una stella errante, che faceva la sua prima apparizione sul cielo roseo della galanteria: questo era proprio il fatto suo, e questo lo preoccupava certo molto più dei suo patrimonio sciupato e di molte altre cose allegramente dilapidate.

— È andata a provarsi il costume del Milanes in mar, disse Girotti.

— Bene! verrà a farsi vedere, spero?

— Chi sa, osservò Gardini ridendo; pare tanto timida!

CLelio Arrisi si strinse nelle spalle.

— Timida? che sciocchezza! quando una è bella.

Ma la Ramelli-Cantonieri veniva appunto a dire al direttore, che il costume stava benissimo alla Mauri; che lo avrebbe indossato per la recita, ma che in quel momento non si sentiva disposta a farsi vedere.

Gli attori non insistettero: poichè la Enrichetta diceva che le stava bene bastava. Essi si avviarono verso il caffè.

Ma l’Arrisi seccato di quel rifiuto sosteneva che quella nuova attrice doveva essere una sciocca, pettegola, una vera maestrina, come già gli avevano detto, e che non avrebbe mai fatto bene sul teatro.

Poi si mise a raccontare fitto fitto di quello che [p. 265 modifica]aveva sentito dire di lei al caffè del teatro Manzoni: che era una ganza del banchiere Pianosi, che tempo addietro egli si era mezzo rovinato per lei, di soldi e di salute, e che nell’estate era stata vista a Aix-les-bains, con lui, sfoggiare un gran lusso, mentre la povera moglie rimaneva a casa a piangere con la sua bambina...

— Sta zitto! — disse il Rodio interrompendolo: — è là in quel camerino, ti può sentire!

— Ah, sì? mi dispiace. Del resto, io non dico che siano cose vere: chiacchiere da caffè sono, si sa: forse tutte false. Che cosa non hanno detto anche della povera Emilia! Quando una bella ragazza, o una bella donna si espone al pubblico bisogna che stiano preparate a tutte le maldicenze, però è inutile che facciano le modestine.

Fortunatamente, la Giannelli, la Delfinoni e la moglie del maestro concertatore con la sua piccola Casilde, facevano tanto chiasso, tutte aggruppate nel piccolissimo camerino di Gilda, che di tutto questo discorso, una sola parola potè giungere sino al suo orecchio: il nome del banchiere Pianosi.

Era sempre abbastanza per avvertirla che parlavano di lei e della sua relazione con Giovanni; abbastanza per rattristarla, facendola pensare alle acute maldicenze. Ma per quanto ella fosse preparata anche alla calunnia, sarebbe stata duramente sorpresa se avesse sentito fino a qual punto, in così breve volger di tempo, il pettegolezzo avesse svisato gli avvenimenti e contraffatta la verità.

Improvvisamente, le tre donne, stanche di ridere e di ciarlare, furono prese da una gran furia di [p. 266 modifica]andarsene. La Enrichetta Ramelli-Cantonieri aveva a casa una seconda bambina con la tosse; la Delfinoni una visita; la Giannelli tanti impegni. Si congedarono in fretta: la Giannelli con uno scherzo e una delle sue risate, le altre più corrette, più contenute.

Rimasta sola, Gilda si spogliò lentamente del suo costume da marinaro che le pareva così difficile a portare.

Poi si vesti in fretta, chè l’aria dell’esiguo camerino, senza finestre, illuminato da due candele, diveniva irrespirabile.

Quando usci nel corridojo bujo non sapeva da che parte prendere. La guidarono la voce di alcuni artisti che fumavano nell’atrio. Ma al passaggio dovette arrestarsi: Gardini, Rodio, il vecchio Milesi che guardava traverso gli occhiali, con la sua faccia comica e buona, Clelio Arrisi, col suo pince-nez piantato sul naso, le sbarrarono il passo. Gli altri se ne erano andati con le altre artiste, o soli. Ma l’Arrisi non poteva rinunziare alla curiosità di vedere Gilda Mauri, e lui aveva trattenuti gli altri tre.

Le fecero dei complimenti molto corretti, molto rispettosi, poichè la sua bellezza ispirava il rispetto e la invitarono a prendere qualche cosa al caffè; ciò che Gilda rifiutò naturalmente. Parlarono del teatro, e tutti insieme entrarono nella platea perchè ella ne vedesse meglio tutti i particolari e apprezzasse l’ingegno dell’architetto, il quale aveva fatto un miracolo, proprio un vero miracolo, come diceva l’Arrisi.

— E che storia, in così pochi anni! — esclamava egli animandosi. — Vede, questo teatro è [p. 267 modifica]ora alla sua quarta metamorfosi. Sa che cosa era in origine? Un cortile, niente altro che il terzo cortile di questo profondo caseggiato. Difatti, per la gente che sta qui intorno, è sempre cortile di sopra alla tettoja. Gli è per questo che non ci siamo potuti alzare. Ma, forse questo non la interessa?

Ella lo rassicurò gentilmente che anzi era curiosa di sapere l’origine di quel teatro, e l’Arrisi riprese il racconto:

— Nel 1867, un certo Cattaneo ebbe l’idea di far coprire questo cortile con una tettoja in ferro e cristalli.

Allora si chiamò il «padiglione Cattaneo.» Vi era un palco per l’orchestra, un tappeto sul pavimento, un servizio di ristorante, sedie e tavolini all’ingiro, nel mezzo sala da ballo. Ma le donne non ci sono volute venire altro che in proporzioni minime; è città troppo piccola la nostra.

Così il povero padiglione non fu che un aborto di Mabille: ebbe la vita breve e stentata. Nel frattempo il teatro Milanese (allora aveva tutto il carattere di una accademia e i comici erano semplici dilettanti) pensò di lasciare il teatro Fiando, dove aveva fatto le sue prime armi, fece ridurre con poche riforme il padiglione a sala da spettacolo e vi piantò la sua sede.... direi meglio le sue radici, neh, Milesi!...

— E che radici!...

— Più tardi — riprese a dire Clelio Arrisi — si trovò un uomo, il quale ebbe molti sogni artistici, e anche molti successi, posso dirlo senza vanteria...

— ... e senza modestia — suggerì Milesi. [p. 268 modifica]

— ... e senza modestia, va bene — replicò il narratore — tanto più che io la odio la vostra modestia... Ebbene, dunque, tali successi lo incoraggiarono e lo spinsero all’opera. Egli era direttore dei dilettanti milanesi; trasformò i dilettanti in artisti, e dalla accademia trasse la compagnia stabile, della quale divenne naturalmente direttore e impresario. Poi, siccome il disgraziato aveva anche un pochino di soldi suoi, provvide a trasformare la sala in un vero e completo teatro. I danari sono volati via; ma l’opera almeno resta e qualcheduno ne gode.

I tre comici risero, egli s’interruppe un momento, poi riprese:

— L’importante è di vedere come si è cavato fuori questo teatrino, così stringato e elegante, da un meschino cortile stretto come nelle morse. Alzarsi, come le ho detto, non si poteva, perchè c’era una quantità di finestre che prendono aria e luce da questo foro: non potendoci alzare ci si sprofondò. Sicuro! Ha visto i gradini che bisogna scendere per arrivare in platea? Ebbene di tutta questa altezza si è abbassato il livello del suolo! Così si è potuto avere un teatro di due ordini, senza dar fastidio a nessuno.

— È così carino! — osservò Gilda sorridendo.

— Carino, sì! — sospirò Clelio Arrisi — a me costa molto caro; ma lo amo tanto che non me ne so staccare!

— È sempre così quando si ama davvero osservò Rodio — e tu forse non hai amato nessuna donna in particolare, come ami questo teatro, sebbene, in generale, tu le abbia amate più di chiunque. [p. 269 modifica]

— Io? — disse l’Arrisi stringendo gli occhi dietro alle lenti: credi che se non fossi stato tanto morigerato avrei ancora i capelli neri?

Una risata sonora echeggiò nella sala, e tutti insieme uscirono da quella specie di cripta, ripassarono la sala buja, la piccola entrata, il cortile, il sottoportico, il cortiletto, l’andito lungo, con la sua svariata esposizione di cartelli e di cartellini, e si ritrovarono sul Corso Vittorio Emanuele.

— A domani, signorina — dissero gli uomini salutando rispettosamente.

— A domani — mormorò Gilda — inchinandosi.

Ella si allontanò svoltando in Via San Pietro all’Orto, mentre gli uomini, traversato il Corso, entravano dall’Hagy.