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nell’ingranaggio 257

ai piedi. Aveva il viso intelligente, forte, di lineamenti marcati, con occhi vivi, piccoli baffi bruni e mento raso. Nell’insieme, un indefinibile carattere militare.

Egli aprì la porta vetrata su cui stava la leggenda «Teatro Milanese» e entrarono tutti insieme, voltandosi, naturalmente, verso di Gilda che si trovava a due passi da loro. Ella si affrettò a entrare e si trovò in una penombra densa, interrotta appena dalla luce filtrata e da una lampada a petrolio. Si arrestò incerta, mentre i suoi nuovi compagni aspettavano evidentemente che dicesse qualche cosa.

— ... Vado alla prova — mormorò — ma... non so da che parte...

— Venga, venga — risposero tutti in coro — ci andiamo anche noi.

— È la signorina Mauri? — domandò la mamma del cappuccetto rosso.

— ... Sì...

— Bene, bene: venga avanti con me.

Aprirono un altr’uscio vetrato, voltarono a destra e entrarono in una grande sala buja: l’anticamera del teatro, l’atrio, la sala dove si fuma, tutto.

Gilda non vi distinse altro che le aperture, le quali si disegnavano nel bujo con un blando chiarore. Due erano nella parete lunga, simmetriche.

— Di là si va in platea — disse il signore dal paletot grigio: vede?... si scende alcuni gradini: par proprio di entrare in una cripta sconsacrata!... Ma, io le parlo senza essermi presentato, perdoni! Se permette, mi presenterò da me come collega: io sono Rodio... E le porse la mano.

— Oh, tanto piacere... ma l’avevo riconosciuto