Nell'ingranaggio/XIV
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XIV.
La camera ammobiliata, che Caterina Mauri aveva trovato per sua nipote, era in un grande casamento del Corso Vittorio Emanuele, vicino a San Carlo, a un secondo piano interno, e non aveva entrata libera.
La padrona di casa, una vecchia contessa decaduta, ne aveva chiesto 25 lire, ma poi, Gilda avendo desiderato di prendere anche la stanca accanto, che era divisa dalla sua per una semplice portiera a vetrata, tanto che le sarebbe parso di vivere in piena comunanza con la persona che sarebbe venuta ad occuparla, combinarono la cosa per 40 lire.
Il mobilio aveva la solita impronta di decenza stentata. Nella prima c’era un vecchio letto di noce ridotto a ottomana, l’eterno mobile milanese, per rispondere al desiderio delle persone che, prendendo una sola stanza, vogliono farla servire a due usi: salotto di giorno, camera nella notte. I guanciali di questa ottomana sgangherata erano rivestiti di un damasco rosso, rilavato parecchie volte.
Ma sul materasso a libro che fa da schienale era distesa una bella coperta all’agotorto molto trasparente, fatta col cotone greggio. Davanti a questo mobile d’onore dove si poteva sedere comodamente in sei, era un tavolino rotondo di legno lucido, con un piede solo, ma sensibilmente inclinato da una parte. Fra le due finestre un armadio da abiti con lo specchio di tre pezzi, per cui Gilda, che era alta, non poteva guardatisi senza che un taglio trasversale le dividesse là faccia in una maniera molto burlesca.
Di fronte all’ottomana, un camino con paracamino di carta gialla molto stridente e nel mezzo ingommata su per nascondere uno strappo, una stampa rappresentante il Bacio dell’Hayez. Sopra il caminetto, un largo specchio basso, incrostato nel muro e tutto annerito dal tempo. Una poltroncina da lavoro rivestita di lana celeste con la solita copertina all’agotorto, un tavolino da lavoro, e cinque sedie rosse come l’ottomana completavano l’arredamento.
La seconda camera era stretta e lunga con un lettino di ferro in fondo, senza parato, e tutto bianco; un casettone a maniglie di cui una mancante, senza chiave, con alcuni gingilli sopra. Po tre sedie con le fodere di percalle bianco, un tavolino, un comodino e una toelette tutta in percalle bianco, messa di sbieco nell’angolo tra la finestra e l’uscio. Nell’altro angolo, una piccola stufa di ferro. Grandi tende all’agotorto, fatte con cotone molto grosso pendevano dalle finestre. Per l’inverno, la signora Farinola disse che vi erano delle stuoje da stendere su l’ammattonato.
La luce, che discendeva da una corte alta e stretta, era grigia e prometteva molte giornate buje per la stagione delle nebbie.
Quando Gilda si vide sola in queste due stanze malinconiche, quando ebbe fatto l’ultimo sforzo per calmare le inquietudini di sua zia con l’ultimo sorriso, quando la porta fu ben chiusa ed ella ben sola, nulla potè più trattenere lo scoppio della sua disperazione.
Se ella non avesse promesso a Giovanni di essere forte, di sopportare con coraggio il sacrificio che lei stessa aveva creduto necessario, se ella non avesse aspettato una lettera di lui, che Marco, il domestico, le avrebbe portato quella sera e poi tutte le sere, quello sarebbe stato il momento in cui avrebbe voluto metter fine alla sua esistenza.
L’amore le aveva rivelato ora tutti i suoi misteri: ella apparteneva a Giovanni. E oramai una voce intima le diceva che egli non l’avrebbe sposata mai più, che mai più avrebbe avuto il coraggio di affrontare l’opinione pubblica con un divorzio di cui lei stessa aveva analizzate e fatte spiccare le difficoltà, quasi per giustificarlo ai suoi propri occhi, in un momento di pessimismo generoso. Non era quello il buon momento per morire?
Ella ne aveva il sentimento. Ma aspettava la prima lettera di amore del suo Giovanni: e quale è la donna che acconsentirebbe di morire innanzi di avere letto la prima lettera d’amore dell’uomo, a cui si è interamente donata?
Senti un improvviso fracasso sopra la sua testa. Che era mai? Ella si riscosse tutta. Ma un momento dopo sorrise. Aveva capito: erano le campane di San Carlo che intonavano uno dei loro famosi concerti. Erano tanto vicine che parevano in casa e rimbombavano sulla sua testa. Per il primo momento le fecero piacere, come una cosa nuova, fantastica. Ella si abbandonò alle cadenze sonore di quella semplice e colossale melodia, cercò d’intendere il senso di quelle voci gaje e poderose che venivano a trovarla nella sua solitudine.
Ma quante volte doveano poi infastidirla! quante volte nel silenzio delle lunghe notti insonni, quell’orologio veemente che suonava tutte le ore ad ogni quarto, doveva parerle il demone del tempo che la incalzava dinanzi a sè nell’infinito dolore, nella rovina assoluta!
Alle cinque e mezzo vennero a domandarle se voleva desinare alla tavola comune oppure nella sua camera. Ella si attenne a quest’ultima proposizione, e il pranzo le fu servito da una vecchia serva di proporzioni colossali, tutta in nero e poco pulita, che conosceva la contessa Farinola fin dalla giovinezza, e tornava sempre da lei, per favore, quando rimaneva senza donna di servizio: situazione frequente.
Ogni volta che la vecchia Maria apriva l’uscio, entrava nella camera il rumore della vicina sala da pranzo: acciottolio di stoviglie, avvicendarsi insistente di varie voci e frequenti scoppi di risa. Si capiva che erano in molti e che stavano allegri. Di tratto in tratto questo chiasso era intramezzato da un violento scoppio di tosse senile che veniva dalla stanza accanto.
Vedendola così sola e malinconica, la vecchia serva le disse che avrebbe fatto meglio a pranzare nella sala, che erano quasi tutte donne, eccetto il figliuolo della padrona e un vecchio signore, e che se la passavano allegramente. Gilda crollò il capo senza rispondere; domandò soltanto chi era quello che tossiva.
— Quello è il capitano — rispose la serva — l’amico della contessa.
Gilda si fece rossa, e non domandò altro.
Ma dopo il pranzo la contessa Farinola le fece chiedere il permesso di farle una visita e di presentarle alcune delle signore sue dozzinanti. Ella non potè esimersi dal riceverle.
Entrarono in cinque donne, compresa la Farinoia, che le presentò ad una ad una, con molti complimenti, dopo di avere presentato lei, Gilda Mauri, futura attrice del teatro Milanese.
— La baronessa Neotieff, prima donna distinta, voce di contralto. Bisogna sentirla nella parte di Romeo, non ha chi la eguagli.
Questa Neotieff doveva misurare almeno un metro e settantadue centimetri, un vero granatiere, dalle spalle larghissime, dai fianchi ridondanti, con una faccia tutta sbiancata di cipria, le labbra rosse come il sangue, gli occhi neri e bistrati, i capelli neri, forse non senza ajuto. Una faccia su cui non era possibile indovinare gli anni, se quaranta o cinquanta magari passati, con larghi avanzi di una grande bellezza e qualche cosa di molto antipatico nella espressione.
Gilda s’inchinò, pensando involontariamente alla figura che avrebbe fatto vestita da uomo con quelle forme così ridondanti.
— Lady Sarah Dudeley, moglie dell’ambasciatore dell’Inghilterra al Giappone, parente di lord Beasconsfieìd, scrittrice celebre di romanzi...
Stordita da tutti questi titoli, Gilda fece un inchino più profondo del primo, e guardò bene questa romanziera.
Era una donna ancora giovanissima sui ventisette o ventotto anni al più, bionda, con gli occhi azzurri, bellissimi lineamenti e proporzioni del corpo stupende; ma la carnagione del viso era già sciupata da quel tono rossastro, quel tono di carne cotta o meglio bruciata, che guasta tante bellezze inglesi. Il naso specialmente aveva uno strano colore per una signora così distinta.
Le altre due donne erano forestiere anch’esse: una tedesca: la baronessa Tekel ed una rumena, con un nome in ich. Tutte e due studiavano il canto con uno dei primari maestri, il vecchio Ramperti, dieci lire per lezione, in certe occasioni anche venti lire, e aspettavano la prima scrittura. Tutte e due mostravano di avere varcati i trenta anni e non erano belle, ma riccamente vestite, specialmente la rumena che aveva con sè una nipote di quindici anni — in realtà sua figlia — e si dava per moglie di un alto ufficiale. La Tekel era accompagnata da un vecchio zio, che poi tutto a un tratto fu scoperto essere un amante, e tutta la pensione ebbe l’aria di scandalizzarsene.
Per il momento queste signore rappresentavano l’aristocrazia della casa, e la contessa Farinola era smaniosa di farle vedere.
Lei stessa era una macchietta degna di nota e una celebrità fra le affittacamere milanesi. Era vedova con due figliuoli e una figliuola maritata a un sensale di prestiti. Anche il figliuolo maggiore era accasato e stava da sè; era nel commercio e aveva ripudiato il suo titolo di nobiltà, considerandolo un imbarazzo. Solo il terzo figliuolo stava con la madre e faceva un po’ di tutto, compreso l’attore al teatro Milanese, La madre era una donnetta di media statura, grassotta, con bei lineamenti, meravigliosamente conservata per i suoi sessantacinque anni, se non avesse avuto le palpebre sempre rosse con le ciglia bruciate da un calore cronico. Il suo tich pronunciatissimo era di raccontare a tutto il mondo le sue avventure amorose, lo splendore della sua giovinezza e le pazzie che gli uomini avevano fatto per lei.
La conversazione fra queste signore, che parlavano tutte l’italiano assai correttamente, fu abbastanza animata. Parlarono naturalmente di cantanti, di teatri, di scritture, degli amori delle assenti, che Gilda non conosceva; del teatro Milanese, di Villa del Ferro, che era andato anche lui a pranzo in quella pensione, per tutta una estate, e di cui tutte quelle donne vantavano la bellezza, il fare da signore un poco annojato e lo spirito arguto; non tutte erano egualmente d accordo sulla bellezza e i meriti delle attrici dello stesso teatro e specialmente della signora Martinetti; ma le donne rendono raramente giustizia ai meriti delle altre donne.
L’inglese raccontava di avere ricevuto una lettera da suo marito, che dopo tanti mesi di separazione si era sognato di scriverle, e duemila lire dal suo editore perchè finisse presto il romanzo che aveva in corso. Ma lei confessava che non aveva punto voglia di lavorare e che quelle duemila lire le facevano paura, perchè, se dentro l’anno non finiva il romanze avrebbe dovuto restituirle.
Gilda domandò con interesse il soggetto di questo libro e seppe che era giapponese, poichè la signora era stata due anni al Giappone quando viveva con suo marito. Si erano divisi per la solita incompatibilità di carattere e lui stesso l’aveva riaccompagnata in Europa; ma erano sempre buoni amici: tutte le volte che aveva bisogno di danari gliene mandava. E dicendo questo la donnina rideva, rideva scuotendo la testa bionda dal nasino rosso.
La Farinola le osservava maternamente che spendeva troppo, specialmente il carnevale per andare ai veglioni. E dai loro discorsi, Gilda rilevava con sua grande meraviglia che molto più dei trionfi letterari premevano alla Dudeley i trionfi di mascherina elegante, che ella otteneva ai veglioni vincendo sempre alcuni premi.
Intanto il vecchio nella stanza accanto tossiva e tossiva. La Neotieff disse:
— Questa tosse è molto forte oggi: — il capitano e certo arrabbiato.
Le altre si misero a ridere, e la Farinola spiegò a Gilda che il capitano era avvezzo a ricevere tutti i giorni una visita da quelle signore e che ora s’impazientava di sentirle discorrere in un altra stanza: poi fece un quadro pietoso dello stato di quell’uomo che era stato capitano di Garibaldi, ed era ora ridotto a non potersi muovere dal letto, da più di due anni, senza danari per vivere perchè il governo gli negava la pensione che gli spettava di pieno diritto. Gilda seppe poi altri particolari sul capitano e su tutto il resto. Una scena violenta che accadde un giorno, seguita da svenimenti, le spiegò il segreto del naso rosso della signora Dudeley; la disgraziata si ubriacava come un cocchiere e questa era la ragione per cui suo marito l’aveva accompagnata in Europa, non potendo più sopportare la sua convivenza.
Quanto al capitano, egli rappresentava una parte molto utile per la sua padrona di casa. Tutte le volte che arrivavano dei creditori, e ciò accadeva spesso, la contessa li conduceva nella camera del capitano, dove gl’infelici dovevano ascoltare tutta la storia della famosa pensione, le pratiche che erano state fatte, le speranze di una prossima conclusione soddisfacente; poichè già non mancavano che alcune formalità, una ultima seduta della Camera, poi, il decreto, che del resto era già approvato, come lo aveva detto a lui stesso il ministro, sarebbe stato pubblicato; e allora, lui avrebbe riscosse tutte le annate decorse, pagata la contessa alla quale doveva oramai due anni di retta, e la contessa avrebbe a sua volta saldato tutti i suoi debiti.
Una cosa liscia liscia: non faceva una grinza. I creditori non avevano che a pazientare, sarebbero stati pagati fino a un centesimo; se poi non volevano, facessero a modo loro, si rivolgessero al Tribunale: ma, da buon amico, da leale soldato, egli poteva dar loro un consiglio: risparmiassero le spese, avessero fiducia in lui e facessero voti perchè questo infame Governo si decidesse una buona volta a fare un atto di giustizia. Se avevano qualche influenza, qualche buona conoscenza alla Camera, si raccomandassero caldamente perchè la soluzione venisse affrettata.
Intontiti, confusi da tutti questi discorsi, dai documenti e dai giornali, che il capitano squadernava sotto ai loro nasi, i più non sapevano che rispondere e si allontanavano brontolando... contro il Governo. Ma qualche volta la perorazione durava a lungo, il creditore voleva assolutamente! suoi soldi, minacciava uno scandalo, gridava: allora Gilda doveva ammirare l’abilità del vecchio infermo che lasciava passare la sfuriata, tranquillo, senza scomporsi, e finiva col rimandare quell’ostinato con poche parole secche.
Intanto i giorni passavano e Giovanni scriveva regolarmente delle buone lettere piene d’affetto che riconfortavano la futura attrice, nella tristezza di quell’aspettativa. Ma la vecchia Farinola e le sue dozzinanti erano molto curiose di conoscere il misterioso padrone di quel domestico in livrea, che arrivava così puntualmente tutte le sere.
Un giorno Gilda fu alquanto sorpresa di ricevere la visita di suo padre. Era in blusa da operaio, e ebbe il tatto di domandare la signorina Gilda Mauri, come se non l’avesse conosciuta. Entrando le fece cenno di tacere. Poi quando furono soli si spiegò meglio: non era bene che quelle contesse di princisbecco sapessero che lei era figliuola del portaceste: glie l’avrebbero rinfacciato.
Lui non voleva farle del male, specialmente adesso che si era risoluta a seguire i savi consigli di lui, suo padre, mettendosi a recitare. Lui voleva che diventasse una signora, sicuro che poi si sarebbe ricordata anche del suo povero vecchio, il quale era contento di servirla. Appunto le portava una lettera che certo le avrebbe fatto piacere: era del signor Villa del Ferro.
Gilda lesse con premura quello che le scriveva il celebre attore.
Eran pochi versi. Egli le diceva laconicamente che poteva passare una di quelle mattine a mezzogiorno al camerino del teatro Fossati, dove la compagnia recitava in quella stagione, per intendersi sull’affare che la riguardava.
— Ti accetta, sta tranquilla — disse Pietro Mauri mentre sua figlia ripiegava il biglietto in silenzio: — gli hanno detto che sei bella e tutti parlavano di te jeri sera: ti ha raccomandata il marchese Villanti, figurati! Non ti darà molto da principio, ma poi, se saprai fare, avrai una discreta posizione. Quanto al tuo banchiere... mi pare uno spilorcio. Non poteva ammobiliartelo, lui, un quartierino a modo... invece di metterti qua?
Un gesto impaziente di Gilda gli troncò la parola.
— Psss! non andare in collera, via! Cosa devo dire al signor Villa del Ferro?
— Che mi presenterò domani.
— Va bene.... E adesso, se credi di darmi qualche soldo per la commissione che ti ho fatto, non aver riguardo: sono il portaceste.
Con le mani che le tremavano, Gilda prese il portamonete e ne cavò a caso, un biglietto, che offrì a suo padre senza guardarlo.
— Oh! oh! — esclamò lui —cinque lire! Brava la mia piccina! Tu non sei spilorcia tu, lo si vede, hai il sangue di tuo padre!...
E finalmente se ne andò. Gilda non avrebbe potuto frenarsi di più.
Rimase ritta in piedi, con la schiena appoggiata nel vano della finestra, guardando giù nella corte grigia, dove in capo a pochi momenti vide ricomparire la figura di suo padre che si allontanava lentamente, dondolandosi un poco, con la testa ripiegata, le spalle curve...
— Il suo sangue! — mormorò mentre un fuggevole rossore le tingeva le guance pallide.
Certo, il suo sangue! Una fatalità, cui aveva inutilmente tentato di ribellarsi con tutta l’anima sua. Ora il destino li riavvicinava. Senza accorgersene ella stava per seguire i consigli e l’esempio di lui. Presto ella si sarebbe presentata sulla scena, figura secondaria, merce da esposizione, una nullità dal punto di vista dell’arte. Press’a poco come lui. E invece di salire, come era sempre stato il suo sogno, sarebbe forse discesa giù giù, come lui. Eppure, data la sua posizione, quella era incontestabilmente la migliore uscita. Il teatro era l’ultima àncora di salvezza, non soltanto per lei ma per due terzi almeno di quelle donne accorrenti a Milano da tutte le parti del mondo, a studiare il bel canto, a tentare la fortuna della scena: vale a dire a cercare di farsi una posizione, nella quale una donna poteva diventare ricca, essere festeggiata, essere indipendente, senza perdere la considerazione della società: rimanendo una persona: talvolta anche riconquistando una personalità già perduta; riabilitandosi in tutto.
Poi, se la fortuna arrideva, se il genio si risvegliava nei loro cervelli, esse sapevano di poter aspirare a tutte le altezze.
E tutte credevano con fede incrollabile nel loro ingegno, nelle loro attitudini; tutte speravano nel possibile risveglio di un genio profondamente nascosto in qualche parte del loro organismo: perfino quella infelice Rumena, dal viso di serva, dalla voce fessa, che spendeva un patrimonio nelle sue lezioni di canto, senza ottenere il più piccolo risultato: perfino quella povera baronessa Tekel, che forse sperava di sottrarsi, con un bel successo artistico, alla tirannide del suo finto zio, mentre empiva la casa di urli angoscianti, sotto forma di solfeggi.
E chi sa quante ve n’erano di egualmente illuse, di egualmente infelici, sparse per gli alberghi, per le pensioni, per le camere ammobiliate, Tutte fatalmente condannate a una rapida decadenza, se un caso fortuito, un miracolo d’amore, a tempo, non le salvava! Le pareva di vedere questo esercito di femmine, affamate di lusso e di celebrità, vestite sfarzosamente o stentatamente rimpannucciate: il viso dipinto, gli occhi febbrili, dentro la cerchia nera, segnata col lapis misterioso, correre ansiosamente per le agenzie, stringere amicizie forzate con gli agenti teatrali, e scendere irreparabilmente di miseria in miseria e di bassezza in bassezza, con la illusione di rialzarsi quando che sia e risalire in alto, nello splendore del lusso, nella gloria dell’arte. Le pareva di vederle tutte quelle infelici deluse, con le braccia protese ansiosamente verso il teatro, sprofondare nelle nebbie, nella notte nera della miseria, mentre in alto saliva un coro di voci stonate, imprecanti, tra le quali distingueva il sibilo penetrante della Rumena, l’urlo indefinibile della baronessa Tekel, qualche buona nota della Neotieff, lanciata con impazienza, e il sordo brontolio del capitano garibaldino, che dal fondo del suo letto disputava accanitamente con un ostinato creditore della Farinola.
E la immaginazione non mancava di rappresentarle anche la figura atticciata della vecchia Contessa la quale se ne stava in silenzio con i suoi occhi bruciati, su cui passava ogni tanto una pezzuolina di tela fine davanti al creditore, obbligato a vergognarsi di avere fatto piangere una signora così distinta e sensibile.
Lei pure era di quel mondo! Lei che era nata con un orrore istintivo della volgarità: che avrebbe voluto salire alle più ardue altezze del pensiero, della poesia; inebbriarsi dei più alti ideali; contornarsi di tutte le eleganze, di tutte le squisitezze; essere di tutte le aristocrazie; lei, che portava in sè concentrato e purificato, come in un crogiuolo, il grande bisogno ereditario della sua classe, della sua famiglia: bisogno di sollevamento, di espansione, per cui ora si agitano tutte le classi conculcate, come se volessero godere rapidamente, violentemente, tutte le soddisfazioni da cui furono tenute lontane per secoli e secoli; lei, si sentiva rigettata indietro ad ogni sforzo che faceva, ridotta al punto di cadere in una miseria più insopportabile di quella cui aveva anelato di sottrarsi!
Rammentava le sue illusioni giovanili, le sue gioie dello studio, le intense soddisfazioni della scuola, quando il professore di letteratura le faceva leggere ad alta voce il suo componimento, che aveva giudicato il più bello, perchè le sue compagne lo sentissero, e queste, sinceramente entusiasmate, a stento si trattenevano dall’applaudirla. Quali speranze, allora, che orizzonti si aprivano alla sua anima ardente, alla sua mente vigorosa e ignara della realtà!
Ingenuamente li aveva confidati al suo giornaletto quei piccoli trionfi ingranditi dalla inesperienza: quei bei sogni luminosi: ingenuamente aveva creduto di poter contare sopra un avvenire pieno di onore, sopra una agiatezza dovuta al suo lavoro intelligente ed assiduo.
Invece, appena entrata nella vita attiva aveva dovuto interrompere gli studi, giusto nel momento in cui acquistava la piena coscenza della propria ignoranza.
Ora la sua passione, un’altra illusione, l’aveva portata là, in quella falsa decenza, in quella società ambigua; e sul teatro avrebbe avuto sempre vicino suo padre, caduto in quella bassezza, con quella sua aria di condiscendenza abbietta, di soggezione ironica, che la rivoltava.
I suoi pensieri si smarrivano; la sua volontà si affievoliva. — Si sentiva vinta, incapace di resistere.
Intanto tutta la casa entrava in un parossismo musicale. La Neotieff cantava il suo pezzo capitale, l’aria di Romeo alla tomba di Giulietta, per un agente teatrale che sperava di collocarla. La Rumena, che si credeva in possesso di una grande agilità, pretendeva cantare il famoso valzer dell’ombra, nella Dinorah: la Tekel calunniava Marchetti urlando la ballata del topo: tutte e due lusingandosi di attirare l’attenzione del medesimo agente.
Dalla finestra aperta, attraversando la corte, giungevano le note aspre di una voce baritonale e quelle stridule di un violino.
Ma le campane di San Carlo, lanciate arditamente nell’aria, in alto, sul tetto della casa, proruppero improvvisamente con un fragore enorme che sommerse tutti gli altri rumori, in un concento formidabile, ruggente di collera, vibrante di letizia.
Il giorno dopo ritornando dall’aver discorso con Villa del Ferro e firmata la sua scrittura, Gilda trovò Giovanni che l’aspettava.
Questa bella sorpresa cancellò tutte le tristezze di quei giorni, mise in fuga le immagini penose. Giovanni era completamente ristabilito: il suo amore le pareva più intenso, più esuberante.
Voleva sapere tutto quello che aveva fatto e pensato in quei giorni; s’irritava di trovarla in un ambiente così poco simpatico: si metteva in ginocchio ai suoi piedi per domandarle perdono di tutte le sofferenze che le cagionava.
Egli, in compenso, le chiedeva una grazia, una grazia suprema, che ella non gli poteva negare. Il suo bravo medico gli aveva ordinato di andare a terminare la sua convalescenza a Aix-les-bains in Savoja; bisognava ch’ella lo accompagnasse.
Oh! non c’era di che spaventarsi. Lei sarebbe partita sola, lui solo: si sarebbero incontrati là come due amici, come tanti s’incontrano. Avrebbero passato una ventina di giorni incantevoli. Intanto lui avrebbe dato ordine al suo segretario di trovarle un piccolo appartamento e di farlo ammobiliare con gusto.
Ella tentò di fare qualche opposizione, ma egli le chiuse la bocca baciandola e ribaciandola.
La scrittura con la compagnia milanese andava in vigore per lei il primo novembre al riaprirsi del teatrino omonimo; per ciò aveva quasi tre mesi di libertà davanti a sè.
Purtroppo lui non ne aveva tanti! Volevano farlo deputato e già nel settembre avrebbe dovuto mettersi a disposizione degli amici per farsi presentare agli elettori. Una vera noja! Ma che fare? Questa noja assumeva l’importanza di un dovere, a cui lui doveva piegarsi, per l’avvenire della banca e di quella povera fabbrica, che rimaneva sempre un po’ anemica e penava a riaversi dai colpi subiti.
Per Gilda, quest’affare della deputazione fu l’ombra della sua gioja. Ma non disse nulla altro che questo:
— Continuerai poi a volermi bene?
Per risposta egli se la prese in collo, canzonandola perchè era gelosa della politica.
Di Edvige, del tanto progettato e discusso divorzio, di Lea, nemmeno una parola. Pareva che silenziosamente si fossero accordati a non toccare que’ tasti dolorosi. E Giovanni si mostrava così allegro, così felice, come se avesse dimenticato realmente tutte le amarezze passate.
Il giorno stesso, Gilda annunziò alla contessa Farinola la sua prossima partenza. La vecchia la ascoltò sorridendo. A pranzo poi ella raccontò dettagliatamente al suo circolo gli avvenimenti della giornata, descrivendo Giovanni Pianosi come un principe del regno delle fate. E fino a tarda sera tutte quelle donne, raccolte intorno al letto del capitano garibaldine, continuarono a discorrere sommessamente, calorosamente delle avventure bizzarre di quella giovine, cui davano il titolo d’ipocrita, con gli occhi dilatati, le guance impallidite da una segreta invidia.