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nell’ingranaggio 259

dieci metri di larghezza, su dodici di lunghezza — bassa — non più di due ordini — ma elegante e gaja, perfino con Quella poca luce di una mattina di novembre, piovente dal lucernario ottagonale. Ella aveva visto qualche altro teatro di giorno, e le era parso triste, povero, opprimente; quello conservava la sua bell’aria domestica, quel buon carattere di famiglia che lo faceva rassomigliare alla creazione di un babbo ricco, desideroso di far divertire i suoi numerosi rampolli e gli amici di casa. La decorazione pittorica, tutta in toni chiari e tenui, i drappeggiati di tela greggia, i cuscini di velluto rosso come le poltrone, lo scarso numero di palchetti a scatola, e fin quelle due grandi tele gregge buttate sulle poltrone per ripararle dalla polvere, contribuivano a mantenergli il suo carattere allegro e domestico.

— Signorina! — chiamò una voce al suo fianco.

Gilda si voltò di scatto. Era Villa del Ferro. Si salutarono.

— Mi compiaccio, disse lui, ch’ella trovi il nostro teatrino degno di qualche attenzione. Le pare discreto?

— È bellissimo! — esclamò Gilda.

— Ho piacere, — disse semplicemente l’attore celebre; così reciterà più volentieri. Ha studiato?

— Più che ho potuto.

— Bene, bene: ora vedremo.

E s’allontanò, senza dire altro, per dare degli ordini, senza aver sorriso, senza averle stretto la mano, freddo e leggermente angoloso, nel suo lungo paletot nero tutto abbottonato, con le mani in tasca, un cappelletto rotondo calcato sulla fronte. Gilda non poteva a meno di osservarlo, perchè le