Nell'ingranaggio/XVI
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[XVI.]
La sera in cui Gilda Mauri doveva finalmente fare la sua prima comparsa davanti al pubblico, lo spettacolo cominciava con una vecchia commedia in un atto di Camillo Lima. Palchi e poltrone erano tutti venduti da due giorni; ma per il momento, il teatro presentava il solito aspetto di tutte le sere: una mezza piena, sparsa nelle sedie numerizzatee nei palchetti; più fitta nelle sedie di platea senza numero. In queste erano gli abbonati e gli spettatori tranquilli che vanno al teatro per godere tutto lo spettacolo e dar un divertimento onesto e poco costoso alle figliuole e alle mogli. Gli altri, quelli che avevano comperato la maggior parte delle poltrone e i grandi palchetti laterali del prim’ordine, non avevano fretta di entrare.
I più aspettavano nell’atrio la fine della prima commedia, discorrendo animatamente, fumando, ridendo.
Alcuni arrivavano lentamente, a due. a tre, scendevano i gradini dell’atrio, si fermavano alla porta della platea, guardavano il teatro, cercavano qualche conoscenza, poi, sempre adagino, con tutto il comodo andavano ai loro posti, riattaccando i dialoghi momentaneamente interrotti.
In generale questi spettatori poco affrettati e meno attenti appartenevano alla finanza alta e bassa e all’alto commercio.
Tutta gente ben fornita di danari e abituata a spendere senza contare per i loro divertimenti. Ma qua e là appariva pure la faccia nota di qualche avvocato di grido, di qualche uomo pubblico, oppure il profilo arguto di qualche artista, di qualche letterato. I pochi patrizi e quelli che accompagnavano delle signore andavano direttamente ai loro posti, col fare un po’ rigido, un po’ compassato.
La maggior parte si conoscevano, si salutavano, scambiavano un sorriso, un motto, secondo il grado di confidenza.
Di tratto in tratto, arrivava un pezzo grosso, una testa canuta, una palla di bigliardo. Vedendoli passare, i giovani se l’additavano con una strizzatina d’occhi, la quale voleva dire: anche loro!
Verso la fine della prima commedia arrivarono insieme: il banchiere Pisano, il banchiere Wellison e il conte e banchiere Ceriani, col suo riso bonario, gli occhietti pieni di malizia. Subito dopo, discorrendo con un alto impiegato di Prefettura, il commendatore Belise, con la sua chioma e la barba d’oro, le lenti legate in oro, il petto ampio, il gesto largo e imponente, sempre pieno di entusiasmo per l’arte e per le belle attrici.
Il conte Vimercati, svelto, gagliardo, passò rapidamente, scivolò quasi in mezzo alla folla.
Evidentemente, il grande interesse della serata, per tutti quei signori consisteva nel veder recitare l’amante del banchiere Pianosi, la bella Gilda Mauri.
Molti l’avevano intraveduta quand’era ancora l’istitutrice di Lea; ma i più non se ne rammentavano. Allora non era che una bella ragazza qualunque, senza valore speciale: forse una virtù insipida.
Ora la sua qualità di amante del Banchiere, con tutta la frangia che il pettegolezzo vi metteva intorno, la posava ai loro occhi, le dava un interesse ben altrimenti solleticante. Poichè, se aveva ceduto all’amore del banchiere Pianosi (amore che ciascuno giudicava secondo il suo punto di vista più comodo), e se per di più si metteva a recitare, non voleva dire che intendeva di slanciarsi nella vita galante? Che era una di quelle creature preziose, presso le quali tutti gli uomini, ricchi, belli o giovani possono tentare la buona fortuna? Giovanni Pianosi non poteva già pretendere di durare eterno nel suo possesso! Se era stato il primo, non poteva essere l’ultimo.
Questo pareva evidente ai più semplici ragionatori. E molti e molti vagheggiavano, nel loro cuore, la speranza più o meno lontana, di raccogliere quella graziosa eredità, almeno per un momento.
I più arditi già pensavano di farsi avanti.
Un gruppo di giovinetti ricchi e indipendenti, tutti frequentatori di casa Pianosi e amici di lui, come Balzarotti, Angelo Bandinelli, un omino piccino, pieno di fuoco; Teruzzi, Emilio Berrà, Guglielmo Besana, Egidio Lattuada, Pietro Albasini, Enrico Lavezzari e Attilio Ferri, il consiglier comunale dalle arie romantiche; avevano ordinati tre grandi mazzi di fiori, con larghe sciarpe di seta, per fare omaggio alla giovine attrice, subito nella prima scena.
— Vi uniremo tutti i nostri biglietti di visita, diceva malignamente il piccolo Bandinelli, affinchè ci tenga in nota...
— E sappia su chi può contare, soggiungeva il consiglier Attilio, arruffandosi i capelli con la mano nervosa.
Ma già il riposo dopo la prima commedia volgeva al suo termine. L’orchestrina suonava maliconicamente un’aria d’amore. Ora tutti questi eleganti prendevano il teatro d’assalto, andando alla ricerca dei loro posti, sparpagliandosi nelle sedie chiuse, nelle poltrone, nei palchetti, nelle gallerie del secondo ordine, portando l’allarme in molti petti maschili di mariti e di amanti, facendo sbattere molti occhi e palpitare molti cuori di fanciulle.
Un gruppo di giornalisti arrivava in ritardo: il cavaliere Alessandri col suo profilo leonino, la testa calva, gli occhi stanchi, il ventre invadente; Antonio Antonini, diritto e grosso, col suo gran cilindro: una specie di torrione sormontato da una torricella. Essi avevano il palchetto. Michele Krauschnitz, il biondo, l’avvocato Blendano tutto acceso di entusiasmo, determinato a insinuarsi sul palcoscenico, a parlare con l’attrice, a prendere degli appunti stupefacenti; Riccardo Lozza, freddo, con la sua aria di sfida, il sorriso ironico e fine.
Questi non avevano palco nè posti; ma l’ingegnere Santini e il capitalista Guglielmo Ferretti, che continuava a far scricchiolare i suoi abiti di panno fine con i suoi muscoli da facchino, li invitarono a entrare in uno di quei larghi palchi laterali, dove dieci uomini possono accomodarsi.
La sala, ora, era riboccante di spettatori impazienti e curiosi. L’orchestrina suonava, incalzando il tempo e con qualche stonatura, la cabaletta della vecchia aria d’amore. Il teatrino era proprio bello con i suoi velluti rossi, le sue tele greggie, le pitture tenui, l’illuminazione ben distribuita, e tutto quel pubblico elegante e animato. Pareva veramente una sala di società, dove tutti si conoscevano, si salutavano, si aggruppavano amichevolmente.
Le conversazioni si intralciavano; gli uomini discorrevano ad alta voce, si domandavano delle notizie: alcuni uscivano dalle sedie per andare a discorrere sotto qualche palco, o a salutare qualche signora. Il pettegolezzo faceva il giro della sala, s’insinuava nelle conversazioni serie, interrompeva un discorso di affari.
Si raccontava la storia della giovane debuttante, la si sminuzzava travisandola.
Nel palco del conte e banchiere Ceriani si diceva che il Pianosi aveva agito da uomo prudente lanciando quella ragazza nella carriera teatrale, che quello era un modo di sbarazzarsene, a suo tempo, cavallerescamente. Poi, per una naturale concatenazione delle idee, parlavano di sua moglie, di certe voci che erano corse, e della abilità con cui Pianosi le aveva sventate.
E il banchiere Wellison cercava nei palchetti la signora Edvige, con la quale avrebbe scambiato volentieri un saluto.
Ma Edvige non c’era. Tornavano a parlare di Giovanni, notavano con piacere ch’egli era stato sempre così abile, così pieno di tatto; e però predicevano che avrebbe fatto strada anche nella politica. Il conte Ceriani, senatore e banchiere, diceva che tutto il buon senso della nazione era concentrato nell’alta finanza; e i suoi occhietti scintillavano di compiacenza e di furberia.
I giornalisti seduti nel palco dell’ingegnere Santini deploravano che vi fossero poche signore: che l’elemento femminile, confinato nelle sedie e nelle gallerie, in second’ordine, appartenesse più che altro alla piccola borghesia. Riccardo Lozza domandava a Santini se la signora Edvige era rimasta a casa; e Santini che non ne sapeva nulla rispondeva a caso di sì, aggiungendo che era un po’ indisposta, per sembrare bene informato. Egli era irritato con Edvige, si sentiva messo da parte, disprezzato: avrebbe voluto vendicarsi raccontando a tutti la breve avventura che aveva avuto con lei; ma non osava macchiarsi di questa vigliaccheria. Era di quelli che commetterebbero volentieri certe bassezze, se non si chiamassero tali dei tali. La grande ammirazione di sè stessi in cui vivono, li salva qualche volta da certi errori e li fa parere veri gentiluomini.
Tre belle ragazze, sedute in platea, attirarono i loro sguardi. Erano tre antiche compagne di Gilda, venute apposta per vederla, anche loro: la bella Rosetta Turconi che faceva l’ultimo anno all’Accademia di scienze e lettere, Eva Martinelli, quella che era stata l’amica del cuore di Gilda, e le aveva costato tanti sospiri e tante lagrime, ora moglie infelice del cugino di Rosetta Turconi; e Amelia Carderelli, la fanciulla dai bigliettini romantici, fidanzata per la terza volta in due anni. Esse compiangevano la loro amica e la critica vano perchè aveva scelto quella carriera, ma in fondo al cuore ciascuna di loro avrebbe voluto essere al suo posto, centro di tutte quelle curiosità, di tutte quelle attenzioni.
Le invidiavano specialmente i grandi mazzi di fiori che avevano visto nell’atrio: i grandi mazzi con i grandi nastri di seta, che sono la passione delle fanciulle borghesi, destinate a non riceverne forse mai. Amelia Carderelli rimproverava al suo fidanzato di non avere mai avuto l’idea di offrirgliene: Rosetta Turconi sorrideva mollemente: voleva lasciar intendere, che i suoi condiscepoli dell’Accademia glie ne mandavano, qualche volta, per il suo onomastico, di egualmente belli.
Ma sua cugina Eva faceva dei cenni all’Amelia per dirle che non era vero niente, che neppur ci pensavano.
Intanto Gilda si trovava nella massima angustia. Quel pubblico, ch’ella sentiva rumoreggiare, la empiva di terrore. Avendo parte nella prima scena il direttore le aveva ordinato di uscire dal camerino e di tenersi pronta. Ella tremava in tutto il suo corpo.
Che sciocchezza aveva commessa!
All’ultimo momento, come illuminata da una luce improvvisa, ella aveva compreso che la sua ispirazione di mettersi a recitare, era stata una cattiva ispirazione. Invece di fuggire la vergogna e il disonore, come si era immaginata, non avrebbe fatto che aggiungervi la notorietà. E a poco a poco, questa stessa notorietà avrebbe allontanato da lei Giovanni, che aveva tanta paura di ogni scandalo, di ogni chiasso. Intanto già non era venuto da Roma quella sera, come lo aveva promesso! Invece le aveva scritto e le aveva mandato un braccialetto d’oro ornato di perle fini.
Credeva egli di consolarla con quel dono? Di farle sentir meno forte il dolore della sua lontananza? Dio santo! di già?... Ahi perchè non era venuto? La lettera diceva «impegni indeclinabili», «lavori urgenti.» Forse era vero: ella non poteva giudicarne. Pur troppo, la politica non l’aveva mai interessata. Soltanto dacchè Giovanni era deputato si era messa a leggere i lunghi articoli di fondo di tre o quattro giornali, e i resoconti della Camera.
Ma, per quanto si sforzasse, non riesciva mai a capir bene. La sua fantasia si impazientava di quelle aridezze: la sua intelligenza si smarriva in quei ragionamenti sottili, pieni di sottintesi e di contraddizioni. Poteva darsi dunque ch’egli le dicesse la verità, che lavori urgenti, di una grande responsabilità, lo tenessero laggiù: ma ella era tanto triste che non poteva vincere i suoi cattivi presentimenti.
— Coraggio! — le disse il direttore vedendola così pallida e abbattuta. — Non vuol mettersi il rossetto?
Ella crollò il capo.
— Oh! non ne ha bisogno — disse Girotti — quando sentirà il caldo dei lumi, si animerà subito. Beva queste intanto: è chartreuse, le farà bene.
Gilda bevve senza esitare. Giunta a quel punto e non potendo più retrocedere, sentiva realmente il bisogno di ricorrere a una forza artificiale.
Rodio la invitò a guardare la platea da una apertura del sipario.
— Vede quanta gente? Si rallegri, la maggior parte dei signori sono venuti per vederla. Guardi come discorrono, come sono eccitati. Hanno già l’entusiasmo addosso prima di averla veduta. Che sarà poi quando la vedranno!...
— Mi fischieranno, disse Gilda, che guardava quel fitto di teste, senza discernere nessuna fisonomia.
— No, applaudiranno, rispose Rodio, sarà un trionfo: potrei scommettere.
Ma Gilda non lo ascoltava più. Aveva riconosciuto una quantità di persone, di quelle che frequentavano casa Pianosi, tutti i banchieri, tutti gli amici di Giovanni, perfino il conte Vimercati, perfino Rosina Minelli con suo marito e i suoi bimbi, su in galleria! Improvvisamente vide Amelia Carderelli, che si era levata in piedi un momento e indovinò le altre due.
— Anche loro! pensò.
Si sentiva una grande angoscia, un vero spavento.
Le venne in mente di guardare se c’era il dottor Rambaldi: quello l’avrebbe confortata, quello era un amico. Ma lo cercò invano.
— Egli non ha tempo, pensò: ma certo mi compiange.
— Non la elettrizza la vista del pubblico? — domandò Girotti avvicinandosele.
Ella si consultò un momento.
No. Non le pareva. Quello che provava era solamente una gran paura.
— Mi dispiace, disse l’attore, vuol dire che non ha la vera vocazione per il teatro.
— Non si può dire ancora, osservò Villa del Ferro che aveva sentito: può essere che la elettrizzino gli applausi. Ma andiamo a posto, a momenti s’alza il sipario.
L’orchestrina aveva finito il pezzo, il buttafuori aveva dato il segnale. La platea si raccoglieva in un bisbiglio di aspettazione.
Appena alzata la tela, Gilda in piedi fra le quinte intonò la barcarola: «Voga, Voga,» ecc.
Era un’aria dolce, semplice, piena di affetto.
Improvvisamente, ella dimenticò il pubblico e con esso la paura e le ripugnanze che la tormentavano.
Le parve di essere sola, lontano dal teatro, di parlare al suo Giovanni, da lontano, senza vederlo ma certa di essere udita da lui. La sua voce s’innalzò trasportata dall’impeto del sentimento, con uno slancio di invocazione, con una effusione di amore, che fece passare un brivido nell’uditorio. Quella semplice melodia così trasformata da un soffio potente di passione, da una ispirazione artistica delle più complete, le bastò a esprimere tutte le angosce, tutte le speranze che aveva nell’anima.
L’ultima frase scoppiò come un grido di dolore, si prolungò come un lamento dolcissimo e mori in un sospiro.
Il pubblico, sbalordito e commosso, rimase ancora un momento in ascolto, trattenendo il fiato, come s’ella avesse dovuto ricominciare, poi scoppiò in un applauso fragoroso, interminabile.
Tutti in piedi, volevano vederla; domandavano il bis, insensatamente. Ella non voleva presentarsi: quasi non capiva, mentre Clelio Arrisi, eccitato dal suo trionfo e dal sentimento di cui ella aveva dato prova, le diceva le più pazze cose.
Due degli attori che erano in scena la trascinarono fuori, come trasognata. Vedendola così bella, con quel costumino che disegnava le sue forme pure, col viso pallido e lo sguardo pieno della passione e del sentimento che aveva messo nel suo canto, il pubblico si esaltò più di prima.
Rossi, scalmanati, le labbra mosse da un leggero tremito, gli occhi accesi dal desiderio, alcuni uomini stendevano le braccia verso di lei, come se avessero voluto portarsela via, emettendo dei piccoli gridi rauchi.
Il primo dei tre grandi mazzi preparati, comparve sul palcoscenico.
Gilda dovette presentarsi ancora una volta alla ribalta, per ringraziare i donatori. In realtà, ella non faceva che lasciarsi condurre dai suoi due colleghi, e quella sua aria smarrita, quella commozione delicata, ch’ella non riesciva a sormontare, la facevano apparire sempre più bella e desiderabile agli uomini.
In compenso ella disse abbastanza male tutta la sua parte in prosa. Si vergognava, era confusa, imbarazzatissima delle sue mani, senza brio, e sbagliava la pronuncia genovese.
Ma il pubblico l’ammirava ugualmente: oramai era montato, e qualunque cosa avesse detto o fatto, per quella sera, la avrebbe ammirata lo stesso.
Il notturnino cantato a due voci con Girotti, la rimise a posto. Ancora una volta ella si abbandonò alla corrente de’ suoi sentimenti, alla ispirazione dell’anima sua e ottenne il medesimo effetto straordinario con una semplice cantilena.
Alla fine dell’ultima quartina, che suona così dolce,
Nella bruna mia barchetta |
il palcoscenico si trovò pieno di fiori, e il pubblico non si stancava di applaudire per vederla e rivederla ancora.
Forse in fondo in fondo, non tutti quei signori erano contenti di avere scoperto in lei una intelligenza capace d’intendere l’arte, un’anima delicata e sensibile.
Un’anima può essere molto imbarazzante in certe circostanze; e molti di quelli che aspiravano a raccogliere quando che fosse l’eredità amorosa del banchiere Pianosi, avrebbero forse preferito che ella fosse una di quelle creature belle, ma senza alcun valore morale, che sembrano messe al mondo con l’unica missione di divertire il sesso forte.
Ma, in certi casi, è vero che i più trascinano i meno; così questa volta l’entusiasmo generale non poteva a meno di soffocare con la sua gran voce, le piccole considerazioni egoistiche dei più impenitenti.
Quando il sipario fu calato, molte persone che volevano congratularsi con la giovane, domandarono di salire sul palcoscenico.
Ma Villa del Ferro l’aveva ajutata a scappare a tempo, e diceva a tutti che la signorina Mauri era stanca e pregava i signori a volerla scusare.
D’altra parte, la compagnia si preparava alla recita di una terza commedia, bisognava cambiar la scena, il posto era ristretto.
I signori capirono e si ritirarono, brontolando un poco. I più incaponiti andarono ad aspettarla nell’atrio, per salutarla al suo passaggio.
Intanto, andando al suo camerino, Gilda ebbe una gradita sorpresa; mistress Thionny l’aspettava nel corridoio. Si era presentata come una parente, e l’avevano mandata là. Entrarono insieme nel camerino e si chiusero dentro. Gilda era tutta commossa, tutta presa dal piacere di rivedere la sua vecchia amica; ma non poteva vincere un senso di vergogna, che le faceva tenere gli occhi bassi, in mezzo a quegli enormi mazzi di fiori, sotto ai quali sparivano completamente i due divanetti e la toelette, unico mobilio del camerino.
L’inglese invece aveva portato con sè tutto l’eccitamento della folla, in mezzo a cui si era trovata, su nella galleria, e non finiva di lodarla. Le pareva tanto elegante, tanto bella, tanto artista.
Oh! se il professore Rachelli fosse stato là, come sarebbe stato felice di vederla nel suo trionfo come l’avrebbe adorata! E si metteva a raccontare del buon professore, dell’affetto sincero che ella gli aveva ispirato, dei discorsi gentili, poetici, dei bei progetti ch’egli faceva tutti i giorni mentre l’aspettavano.
Gilda ascoltava un po’ distratta, con gli occhi fissati sopra una grande camelia bianca, che non vedeva, sorridendo vagamente.
— Ora — ripigliava mistress Thionny — gli scriverò che non siete venuta perchè vi preparavate a questa trasformazione artistica e volevate farci una bella sorpresa. Lui sarà contento, si rallegrerà del vostro successo, perchè non è punto egoista, lui, come certi uomini....
Poi tutto a un tratto:
— Ma voi, che cosa avete? Non mi sembrate contenta, come dovreste essere. Avete dei dispiaceri?
Gilda crollava il capo e cercava di allontanare da sè l’attenzione della sua amica, interrogandola su i motivi di quel viaggio verso il Nord, in quella stagione così poco propizia.
Mistress Thionny la guardava stupita e rispondeva succintamente.
Era richiamata in Inghilterra dalla morte di un parente e da una contestazione testamentaria; dovendo restar molto tempo lontana non aveva voluto partire senza salutarla. Veramente aveva qualche speranza di condurla con sè in Inghilterra; ma dacchè aveva letto nei giornali che ella si era data al teatro, e specialmente dacchè l’aveva sentita cantare, non poteva più credere...
— Oh! se non fosse che per il teatro!... — sospirò Gilda senza riflettere.
L’inglese spalancò gli occhi e alzò il mento, tutta eccitata dalla curiosità.
— Vi è un romanzetto dunque? — domandò facendosi più vicina alla giovine e cingendole la vita con un braccio: — un romanzetto sentimentale?
— Le racconterò a casa; ora bisogna che ce ne andiamo.
Svestì in fretta il costume e si mise il sue abito di seta grigia, la pelliccia e il cappello a larghe tese.
Nell’atrio dovette fermarsi a salutare i più ostinati ammiratori, mentre due facchini e il portaceste — suo padre — la seguivano coi mazzi, che furono collocati nella vettura.
Poco dopo erano a casa, nel salottino tepente e profumato, dove la servetta svizzera, col suo grembiulino bianco, serviva il the e alla sua padroncina un biglietto scritto col lapis. Era zia Caterina che si scusava di non i essere andata in teatro, per la gran paura di trovarsi presente a un fiasco, e domandava pronte notizie.
L’inglese rideva, ascoltava, gustava l’eccellente the si guardava intorno, almanaccando sulla posizione della giovane, leggermente combattuta fra i suoi entusiasmi romantici e l’influenza indistruttibile delle idee sociali. Chi aveva dato tutto quel lusso alla povera istitutrice? Non certo il teatro, dove non aveva fatto che esordire!
Gilda a sua volta era imbarazzata, indovinando una parte dei pensieri della signora. Avrebbe fatto meglio a dirle tutto prima.... Ma doveva proprio in dirle tutto?... E il pensiero di fingere, ai dissimulare almeno una parte della verità, si presentava spontaneamente al suo spirito.
— Sicchè, questo romanzo?... domandò Mistress Thionny, non temendosi più, quando la servetta si fu ritirata.
— Si tratta di un signore, mi pare? domandò ancora vedendo che Gilda rimaneva imbarazzata.
— .... Sì, rispose questa; ma però è un amore serio.... si affrettò a soggiungere.
— .... Oh! non ne dubito, cara! Vi sposerà, non è vero?....
— .... Appena potrà....
— Ah! ho capito, ho capito — disse la vecchia con l’animo sollevato da un peso: — vi sono delle contrarietà nella famiglia.... l’innamorato è giovine.... bisogna aspettare che raggiunga la sua maggiorità.... casi comuni, e molto accettati, anche in Inghilterra. Siete fidanzata, egli vi ha dato la sua parola di onore, e vi sposerete appena egli potrà fare la sua volontà.... Sarà un gentiluomo, immagino, di quelli che non mancano alla parola?
— .... Oh! ne son certa! — disse Gilda con un filo di voce.
— Allora, state allegra: non c’è vergogna nella vostra posizione, siete fidanzata, siete artista, sarete felice, come io ho sempre sperato. Un momento ho avuto paura, lo confesso, pensando all’avvocatino Anselmi che vi faceva una corte così ostinata....
— Oh! — esclamò Gilda con un gesto di orrore,...
Finalmente anche quel supplizio ebbe termine: ella rimase sola fra quei bellissimi fiori muti testimoni del suo trionfo, che parevano guardarla malinconicamente dall’orlo della loro tomba, morituri già condannati.
Ella guardava dinanzi a sè senza pensare: provava uno stordimento, un senso di malessere, quasi di nausea. A poco a poco tutte le imagini della serata le si riaffacciarono. Rivide il pubblico curioso prima, plaudente poi; rivide le amiche, i conoscenti, quella strana vita del palcoscenico, sè stessa nel momento in cui si era messa a cantare e aveva dimenticato tutto il mondo esteriore.
Se tutto ciò fosse arrivato prima, chi sa che piacere le avrebbe fatto! Ora, niente. Ora, non aveva che amarezze nel cuore.
Se pure avesse potuto illudersi un istante, rallegrarsi, Mistress Thionny era giunta in tempo per impedirlo, per ridarle subito il sentimento pungente del suo stato reale; il sentimento sempre più distinto e pauroso della decadenza. Come aveva mentito! Come la menzogna si era fatta tenue e leggiera per insinuarsi sulle sue labbra!
Mentire. Era questa la legge: mentire sempre. Invano, ella si era messa deliberatamente in una posizione sociale delle più libere dal convenzionale dovere.
Ora capiva il suo inganno: la necessità della menzogna si attaccava a tutte le posizioni: se non si mentiva per noi, bisognava mentire per gli altri: per risparmiare un dispiacere a quelli che ci amavano. Questa volta aveva mentito delicatamente, paurosamente, perchè il suo cuore non aveva potuto resistere al pensiero di affliggere quella buona amica e di perdere la sua stima.
Ma forse non era lontano il tempo in cui avrebbe mentito sfacciatamente o tranquillamente, con la piena convinzione di esercitare un diritto, di valersi di un’arma di difesa; o con la coscienza di far bene.
Che ne sapeva lei del proprio avvenire? E d’altra parte, se tutti riconoscevano che la menzogna era necessaria: se la simulazione e la dissimulazione, disprezzate a parole, erano in realtà il fondamento del vivere sociale; che pretesa era la sua di ribellarsi? Chi era lei? Che forza aveva?
Non aveva forza; era debole. Si era messa nella battaglia e le mancava il braccio di ferro e il petto di bronzo del vero combattente. Tutta la sua forza era nell’amore; all’amore aveva fatto i più grandi sacrifici; per conservarsi l’amore, aveva cercato di appianare tutte le difficoltà all’uomo amato, e le aveva trattenuto dal mettersi in contraddizione con la società, lui che della società non poteva fare a meno. Questa non poteva essere stata un’azione bassa, un’azione volgare. La sua coscienza glie lo diceva. Eppure alla prima occasione, avea rinnegato sè stessa e l’amor suo. Dopo di avere offesa la legge sociale, e osato ribellarsi, lei, alle convenzionalità della morale, appena si era trovata di fronte a una persona cara e stimata la quale dava una grande importanza a una parte almeno di quella legge e di quelle convenzionalità, ella avea mentito vigliaccamente, come una miserabile.
Ma no, non doveva essere. Ella si irrigidiva contro la propria debolezza: si ribellava contro il fatto intimo, che l’aveva spinta a mentire. Quella menzogna le pesava, non forse tanto per sè stessa, ma perchè, nella sua visione penosa, le pareva il primo anello di una lunga catena di menzogne e di dissimulazioni.
Si alzò, trascinata da quella foga interna a cui non poteva resistere, e scrisse a Mistress Thionny:
- «Signora,
«Io l’ho ingannata; ma la mia coscienza non mi permette di rimanere sotto il peso di questa menzogna. Non sono fidanzata: non potrò mai essere sposa dell’uomo che amo. Se Ella crede conservarmi la sua stima e il suo affetto ugualmente, la ringrazierò in ginocchio; se no, i miei sentimenti di gratitudine e di rispetto verso di Lei, non muteranno per questo.
«Mi creda
«La sua affezionatissima |