Naufraghi in porto/Capitolo XI
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XI.
Era la vigilia dell’Assunzione; un mercoledì caldissimo e nuvoloso.
Zia Martina filava sotto il portico, e Giovanna, incinta, mondava il grano. Mentre di solito per questa faccenda occorrono due donne, ella doveva compierla da sola, rimescolando il grano nel vaglio per toglierne le pietruzze, e poi mondandolo attentamente sopra una tavoletta posata entro un canestro. Giovanna sedeva per terra, davanti al canestro, con a fianco una corba piena di grano color d’oro polveroso: invece d’ingrossarsi, la «moglie dei due mariti», come la chiamavano in paese, s’era dimagrita: aveva il naso un po’ gonfio e rosso, gli occhi cerchiati, e il labbro inferiore sporgente pieno di disgusto. Alcune galline arruffate, che di tanto in tanto starnazzavano lasciando per terra molte piume, assediavano il canestro arrivando talvolta a ficcarvi il becco. Giovanna gridava e imprecava per allontanarle, ed esse scappavano; ma attente, pronte, con una zampa sollevata, a tornare all’assalto appena la giovine si distraeva.
Ed ella si distraeva spesso: aveva gli occhi tristi, o piuttosto indifferenti, come di persona egoista che pensa soltanto ai suoi malanni. Caschi il mondo, ella non può occuparsi che di sè e delle proprie cure. Era anche scalza e discretamente sudicia, perchè zia Martina lesinava il sapone.
Le due donne non parlavano, ma zia Martina teneva d’occhio Giovanna, e quando questa non arrivava a tempo a scacciar le galline, era la vecchia che gridava per allontanarle.
Una volta una delle moleste bestiole ardì salire sull’orlo della corba e piluccarvi dentro.
— Ah! aaahi! — gridò zia Martina; Giovanna si volse bruscamente, la gallina starnazzò e volò via sollevando un piccolo nembo di grano.
Giovanna ebbe paura che la suocera la sgridasse (aveva sempre paura di questo); e si protese per raccogliere i chicchi del grano, lamentandosi
— Come sono fastidiose!
— Ah, davvero, sono tanto fastidiose, — disse zia Martina con voce dolce: — no, non allungarti così, figlia mia, ti farà male. Vengo io.
Infatti lasciò il fuso, e raccolse chicco per chicco tutto il grano sparso, mentre una gallina piluccava la lana della conocchia.
— Che tu sii spelata! — gridò la vecchia, accorgendosene: e la fece allontanare, mentre le altre galline procuravano di aiutarla nella raccolta dei chicchi.
Giovanna vagliava il grano, a capo chino, muta, assorta.
Dal portico si scorgeva lo spiazzo deserto, la casetta di zia Bachisia livida nella luce grigia vivissima del pomeriggio nuvoloso, un lembo di paese deserto, i campi gialli deserti, l’orizzonte di metallo.
Nuvole sopra nuvole gravavano sul cielo, spandendo un gran caldo e una quiete troppo intensa. Davanti al portico passò un ragazzo alto e scalzo, che conduceva due piccoli buoi neri: poi una donnina, scalza anch’essa, che guardò Giovanna con due grandi occhi chiari; poi un cane bianco e grasso, col muso per terra: niente altro interruppe il silenzio, l’afa grave e minacciosa.
Giovanna vagliava e mondava il grano sempre più lentamente; si sentiva stanca, aveva fame ma non di vivande, aveva sete ma non d’acqua; provava un bisogno fisico inesprimibile di qualche cosa d’introvabile.
Finito il suo lavoro si alzò e scosse le vesti, si chinò e cominciò a rimettere il grano dal canestro nella corba.
Lascia, lascia, — disse premurosamente zia Martina — ti farà male.
E non le permise neppure di portare il grano alla macina (una mola, girata da un asinello, che macinava un ettolitro di grano ogni quattro giorni), ma ci andò lei: rimasta sola Giovanna entrò nella cucina, si guardò attorno, frugò qua e là: nulla, nulla, non frutta, non vino, non un sorso di liquore che potesse saziare la brama inesprimibile che la tormentava. C’era solo un po’ di caffè ed ella lo scaldò mettendovi dentro un pezzetto di zucchero che teneva in saccoccia: poi ricoprì con cura il fuoco.
Ma quel po’ di bevanda calda parve aumentarle la sete: ed ella avrebbe voluto bere un liquore fresco e dolce, che non aveva bevuto mai, che non berrebbe mai. Un’ira sorda e muta la prese; i suoi occhi si animarono. Andò verso l’uscio della dispensa e lo scosse, sebbene lo sapesse chiuso a chiave, e con le labbra un po’ livide mormorò un’imprecazione.
Poi uscì, così scalza come era, attraversò lo spiazzo a passi silenziosi, chiamò la madre.
— Vieni — disse zia Bachisia dall’interno della cucina.
— Non posso. La casa è sola.
Allora zia Bachisia uscì, guardò il cielo e disse:
— Stanotte piove: ci sarà un uragano.
Ebbene, che piombino tutti i fulmini del cielo! — disse Giovanna con voce rude: poi aggiunse: — ma sia salvo quello che io porto in seno...
— Ah! tu sei di malumore, anima mia! Dove è andata la strega? Ho veduto che mondavi il grano.
— È andata a portarlo alla macina. Ha avuto paura di lasciare andar me: temeva gliene rubassi.
— Abbi pazienza, figlia. Non sarà così.
— Oh, è così, è così! Io non ne posso più. Che vita è questa? Ella ha il miele sulle labbra e il pungolo in mano. «Lavora, lavora, lavora!» E mi incalza come un bue da tiro. E pane d’orzo, ed acqua e sudiciume, e buio di sera, e piedi scalzi quanto ne voglio.
Zia Bachisia l’ascoltava impotente a consolarla: d’altronde quelle lamentazioni erano affare d’ogni giorno. Oh, anche lei, zia Bachisia, era ben scornata: ora doveva lavorare più di prima, ma non si doleva di ciò; solo le dispiaceva lo stato veramente miserando di Giovanna.
— Abbi pazienza, abbi pazienza, anima mia; verranno tempi migliori, l’avvenire non te lo ruba nessuno.
— Ah, che importa? Sarò vecchia, allora, se prima non muoio di rabbia. A che serve star bene quando si è vecchi? Allora non si gode più nulla.
— Eh, no, anima mia, — disse l’altra, con occhi furbi, verdi come due lucciole di notte. — Io godrei bene anche adesso. Eh, eh, star senza far nulla; mangiare carne arrosto, pane molle, trote, anguille; bere vino bianco e rosolio e cioccolata....
— Finitela! — gridò Giovanna con spasimo; e raccontò come non aveva trovato nulla da soddisfare la sua indicibile brama.
— Abbi pazienza: è causa del tuo stato: anche se tu trovassi le cose più buone del mondo ed i liquori che beve il re non ti sentiresti soddisfatta.
Giovanna guardava sempre verso il portico, con occhi tristi e con la bocca piena di disgusto.
— Stanotte pioverà, — ripetè la madre.
— Lasciate che piova, dunque.
— Brontu tornerà?
— Sì, tornerà; e stasera glielo voglio dire; ah, sì, glielo voglio dire.
— Che gli vuoi dire tu, anima mia?
— Gli voglio dire che non ne posso più, che se mi ha preso per fargli la serva e null’altro, si è ingannato, e che.... e che....
— Tu non gli dirai niente! — esclamò con energia la vecchia. — Lascialo in pace; anche lui lavora, anche lui vive come un servo; perchè vuoi tormentarlo? Egli potrebbe cacciarti via, sposare un’altra donna. Abbi pazienza, finchè non arriva questa benedetta legge. Allora sarai tu la padrona...
Giovanna tremò di spasimo, si raddolcì, le vennero le lagrime agli occhi.
— Egli non è cattivo, — disse, — ma si ubriaca sempre, puzza d’acquavite come un lambicco, e mi rivolta lo stomaco. E poi si arrabbia senza ragione. Ah, è schifoso, è veramente schifoso. Ebbene, sì, era meglio.... ah, era....
— Ebbene, cosa era meglio? — gridò fieramente zia Bachisia.
— Niente.
Sempre così. Giovanna ricordava Costantino, così buono, bello, pulito e gentile, e rimpiangeva il passato. Una tristezza profonda, più amara della morte, le avvolgeva l’anima: e il pensiero della maternità non leniva, anzi accresceva mostruosamente il suo dolore.
La sera calava, grave e grigia; il cielo pareva una vòlta di granito; non un filo di vento interrompeva la quiete afosa.
Giovanna andò a sedersi sulle pietre sotto il mandorlo immobile, e la madre le si mise accanto; per un po’ tacquero, poi la giovine disse, come proseguendo un discorso:
— Sì, certo, come nei primi tempi della condanna. Come allora io sogno ogni notte il suo ritorno e, cosa curiosa, non ho mai paura, sebbene Giacobbe Dejas dica che se Costantino ritorna mi ammazza o mi fa mettere in carcere assieme con Brontu. Non so, il cuore mi dice ch’egli tornerà davvero; prima non ci credevo, ma ora ci credo. Oh, è inutile che mi guardiate così. Vi faccio forse qualche rimprovero? No, no, no. Io, piuttosto, dovrei temere i vostri rimproveri. Che godete voi del mio stato? Nulla; voi non venite più neppure a trovarmi in quella casa — e sporgeva il labbro per indicar la casa bianca, — perchè mia suocera ha paura che voi portiate via la polvere coi piedi. Io non vi posso dar nulla. Nulla, capite, nulla, neppure il mio lavoro. Tutto è chiuso. Io sono la serva.
— Ma io non voglio nulla, cuore mio. Perchè ti addolori per queste sciocchezze? Io non ho bisogno di nulla, — disse zia Bachisia con voce dolce. — Non pensare a me. Mi affligge solo il debito verso Anna Rosa Dejas. Io non riuscirò mai a pagarlo; ma ella avrà pazienza.
Giovanna arrossì di stizza, si torse le mani e alzò la voce.
— Sì, questo io voglio dire stasera, a quell’animale immondo; gli dirò: pagate almeno gli stracci che io indosso: pagateli, pagateli, che una palla vi trapassi il cuore.
— Non alzar la voce, non arrabbiarti, anima mia. È inutile, vedi, arrabbiarti. Perchè arrabbiarti? Egli potrebbe cacciarti via.
— Ebbene, che egli mi cacci pur via. È meglio. Almeno lavorerò per me, per voi, non per quella gente maledetta. Ah, eccola che ritorna! — disse poi, abbassando la voce, poichè la figura nera di zia Martina appariva sullo sfondo livido dello spiazzo. — Ora mi sgriderà perchè ho lasciato la casa sola: ella ha paura che le rubino i denari. Ella ne ha tanti, e non li conosce neppure; non distingue i biglietti, neppure le monete. Ha dieci mila lire, sì, mille scudi...
— No, anima mia, duemila.
— Ebbene, duemila scudi nascosti. Ed io non un sorso di bevanda che mi rinfreschi, che mi tolga questo ardore che ho dentro.
— Saranno tutti tuoi, diceva zia Bachisia, — abbi pazienza, sta attenta, quando gli angeli verranno a portarla in paradiso, e saranno tutti tuoi.
Giovanna tossì, si graffiò la nuca, e riprese con cupo ardore:
— Che mi caccino pure, non me ne importa. Ecco, il segretario comunale, quel mezzo prete, dice che io sono la vera moglie di Brontu, ma a me sembra di viver con lui in peccato mortale. Ricordate come ci siamo sposati? Di nascosto, al buio, senza un cane, senza dolci, senza niente. Giacobbe Dejas, che egli sia strozzato, rideva e diceva: «ora viene il bello». Ed il bello e venuto.
— Senti, — disse zia Bachisia, con voce bassa ma energica, — tu sei sempre matta. In fede mia, tu lo sei stata sempre e lo sarai sempre.... Perchè ti disperi? Per delle sciocchezze. Tutte le nuore povere devono vivere come vivi tu. Verrà anche per te il tempo della raccolta: abbi pazienza, sii obbediente, vedrai che tutto passerà. D’altronde, vedrai che appena nascerà il bambino le cose muteranno.
— Non muteranno affatto. E almeno, almeno... non avessi fatto dei figli! Essi mi legheranno a questa pietra che mi trascina e mi schiaccia. Ebbene, volete sentirlo? Il mio vero marito è Costantino Ledda...
— Tu vacilli, anima mia! Taci, o io ti turo la bocca...,
— ... e se anche torna io non potrò riunirmi a lui perchè avrò dei figliuoli...
— E io ti turo la bocca! — ripetè zia Bachisia, fremente, alzandosi in piedi: e tese la mano, come per eseguire l’atto: ma non ce ne fu bisogno, perchè Giovanna vide la suocera attraversare lo spiazzo, e tacque.
Zia Martina camminava e filava, e s’avvicinò lentamente alle due donne.
— Al fresco? — disse, guardando sempre il suo fuso girante.
— Bel fresco! Si muore dal caldo. Ah, stanotte però pioverà, — rispose zia Bachisia.
— Pioverà certo. Purchè non tuoni: io ho tanta paura dei tuoni. Il diavolo scarica i suoi sacchi di noci, allora. Speriamo che Brontu torni presto. Che faremo da cena, Giovanna?
— Ciò che volete.
— Tu stai lì? Non ti farà male? Forse ti farà male.
— Che volete che mi faccia?
— L’aria della sera è sempre nociva. È meglio star dentro; così, intanto preparerai da cena. Ci son delle uova, figliuola mia, uova e pomidoro. Ebbene, preparale per te e per tuo marito; io non ho appetito. Ah, davvero, — proseguì, rivolta a zia Bachisia, — non ho appetito, tutti questi giorni. È il tempo, forse.
— È il diavolo che ti fori la schiena: è l’avarizia che non ti permette di mangiare, — pensò l’altra. Giovanna taceva e non si muoveva, assorta in un cupo sogno.
— Domani avremo il panegirico, dunque, alle undici: è un’ora incomoda, in verità. Ci andrai tu, Giovanna? Gli altri anni lo facevano alle dieci.
— Io non andrò, — rispose Giovanna con voce monotona. Adesso ella si vergognava di andare in chiesa.
— Sì, a quell’ora fa assai caldo; è meglio che tu non vada. Ma, se non mi inganno, piove, — disse poi zia Martina, e tese la mano. Una grossa goccia d’acqua sporca cadde e si sparse sul dorso livido della sua mano. Subito altre goccie caddero sul mandorlo immobile e per terra, scavando piccole buche nella rena dello spiazzo. Eppure il cielo parve rischiararsi, d’uno splendore giallognolo: sullo sfondo delle nuvole grigie passava una grande nuvola gialla che pareva una enorme spugna pregna d’acqua.
Le donne si ritirarono, e subito cominciò a piovere dirottamente, ma una pioggia dritta, sonora, d’una violenza solenne, senza vento nè tuoni; durò solo dieci minuti, ma allagò tutto il paese.
— Oh Dio, o San Costantino, o Santissima Assunzione! — gemeva zia Martina. — Se Brontu è per via s’inzupperà come un pulcino.
E guardava disperatamente il cielo, ma non smetteva di filare, mentre Giovanna cominciava a preparare la cena. Nell’ascoltare il fragore della pioggia anche lei si sentiva inquieta, non per il marito, ma per qualche cosa di indefinibile come un pericolo ignoto. D’un tratto il chiarore giallo che aveva accompagnato l’acquazzone si fuse con una luce azzurrognola che veniva dall’occidente: la pioggia cessò di botto, le nuvole s’aprirono, si divisero, se ne andarono, le une sulle altre, le une dietro le altre, come gente che si disperde dopo una grande riunione in piazza: per l’aria rinfrescata si diffuse un bagliore glauco, un odore di terra e di erbe secche bagnate, e risonarono canti di galli che credevano fosse l’alba. Poi silenzio. Zia Martina filava sempre nel portico, nera sullo sfondo glauco del crepuscolo; Giovanna accendeva il fuoco, curva sul focolare, quando sentì un nitrito venire per l’aria con un tremore che le si comunicò stranamente: tremando ella si sollevò e guardò fuori. Brontu tornava ed ella aveva paura; di che? di tutto e di niente.
Nella casetta di zia Bachisia s’era acceso un punto giallo, e si vedeva la vecchia ricacciar con una scopa di ginestra l’acqua che aveva inondato il limitare. L’orizzonte, dietro i campi giallognoli, pareva una linea di mare, verde, tranquillo; e su tutte le cose, anche sull’orizzonte, dominava il mandorlo stillante acqua. A fianco del mandorlo, all’ultimo barlume del giorno, apparve Brontu sul suo cavallo; entrambi, cavallo e cavaliere, neri, fumanti, lenti, come gonfiati e resi pesanti dell’acqua che li inzuppava.
Le due donne uscirono sullo spiazzo, dando in esclamazioni di dolore, ma di un dolore forse un po’ ironico. L’uomo, però, non parve badare a loro.
— Diavolo, diavolo, — mormorava. Trasse il piede dalla staffa, lo sollevò. — Diavolo, diavolo, al diavolo chi ti ha cotto... — E fu giù di sella, — tutto bagnato. — Ecco, arrangiatevi, — disse irosamente, avviandosi alla cucina. Le due donne dovettero scaricare il cavallo, poi Giovanna rientrò e subito Bronlu chiese da bere, per asciugarsi.
— Cambiati, — ella disse.
Ma egli non voleva mutarsi le vesti; voleva soltanto bere per asciugarsi; e si arrabbiò perchè Giovanna insisteva. Poi finì col fare tutto ciò che essa volle; si cambiò, non bevette, e in attesa della cena si asciugò accuratamente i capelli con uno straccio e li pettinò.
— Che acqua, che acqua! — ripeteva. — Un mare addirittura. Ah, questa volta mi ha ben rammollito la crosta. (Fece una risatina.) Come va, Giovanna? Va bene, eh? Tanti saluti da Giacobbe Dejas. Egli ti può vedere come il fumo negli occhi.
— Tu dovresti frenargli la lingua, — disse zia Martina — Così tu sii buono a mangiare come sei buono a farti rispettare da queste immondezze di servi.
— Io gli frenerò altro che la lingua! Intanto stasera voleva ritornare. No, rimani lì e crepa. Tornerà domani mattina.
— Ah, domani mattina! Ma neppure domani mattina! Ah, figlio mio, tu ti lasci derubare impunemente. Sei buono a nulla.
— Dopo tutto, — diss’egli, alzando la voce, mentre continuava a pettinarsi, — domani è l’Assunzione, e Giacobbe è nostro parente. Finitela. Ecco, Giovanna, ora son bello.
Le sorrise, mostrando i denti. Era bello infatti, pulito, coi capelli lucenti. Giovanna si sentì intenerire; ed egli si mise a canterellare una canzonetta puerile che usano i bambini quando piove.
Proghe, proghe, |
Poi cenarono tutti lieti e contenti: zia Martina, con la scusa che non aveva appetito, mangiò pane, cipolle e formaggio, — cibo del quale, d’altronde, ella era ghiotta. Dopo cena Brontu volle che Giovanna uscisse con lui a far due passi, e andarono a zonzo, senza meta, per le viuzze deserte del paesetto: il cielo s’era fatto limpidissimo, qualche stella filante lanciava il suo filo d'oro sull’orizzonte di cristallo, e nell’aria ondeggiava l’odore delle macchie e delle pietre bagnate. Le viuzze erano piene di rena e di fango, ma Giovanna aveva le gonne cortissime e le scarpe così grosse che traevano un’eco metallica dalle pietre. Brontu se la prese sotto braccio e cominciò a raccontarle fandonie come usava spesso per divertirla.
— Zanchine (era uno dei contadini che lo servivano) ha trovato, sai che cosa ha trovato? Un bambino.
— Quando?
— Ma oggi, credo. Zanchine sta estirpando un lentischio quando sente gnuè, gnuè. Guarda. È un bambino di pochi giorni. Ciò poco male; ma ora viene il bello. Ecco una piccola nuvola avanzarsi per l’aria e piombare, ingrandendosi, su Zanchine e rapirgli il bambino. Era un’aquila... Sì, quest’aquila doveva aver rubato il bambino in qualche posto, lo aveva nascosto nella macchia, e vedendo Zanchine che prendeva la creatura è piombata, e...
— Va! — disse Giovanna. — Io non ti credo più.
— Che tu possa vedermi ricco se non è vero...
— Va! Va! Va! — ella ripetè un po’ irritata. Brontu sentì ch’ella, invece di divertirsi, diventava nervosa e le domandò se aveva fatto cattivi sogni. Ella ricordò il sogno avuto, e non rispose. Così giunsero di là dal paese, vicino alla casetta di Isidoro Pane. La luna s’affacciava come un grande viso d’oro sull’oriente d’un celeste argenteo; e la terra nera, gli alberi bagnati, le casette di schisto, le macchie e tutta la pianura selvaggia, fino alle ultime linee dell’orizzonte, brillavano come animati da un sorriso pieno di lagrime.
I due giovani passarono rasente alla casetta del pescatore, e sentirono la voce di Isidoro che cantava una laude sacra. Brontu si fermò.
— Andiamo, — disse Giovanna, tirandolo per il braccio.
— E aspetta! Anzi voglio battere a quella che sarebbe la sua porta.
— No! — ella disse, fremendo. — Andiamo, andiamo. Andiamo o ti lascio solo...
— Ah, è vero, tu ti sei bisticciata con lui. Ma io no. Io batto alla sua porta.
— Ed io me ne vado.
— Egli canta le laudi di San Costantino, quelle che gli diede il Santo in riva al fiume... ah, ah, eh! — disse Brontu raggiungendola. — È matto quel vecchio.
Ella sapeva chi aveva composto quelle laudi, e si sentì triste e irritata. Brontu la riprese sotto braccio, e ricominciò a raccontare frottole ed a scherzare: era di buon umore, ma doveva rider da solo perchè Giovanna taceva costanteniente.
Qualche persona che li vide passare, nel sentire gli scherzi ed il riso di Brontu pensò che, dopo tutto, Giovanna era una donna ben fortunata. Ed ella intanto pensava a Costantino.
Note
- ↑
Piove, piove
l’uva matura
e il fico....