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Giovanna ebbe paura che la suocera la sgridasse (aveva sempre paura di questo); e si protese per raccogliere i chicchi del grano, lamentandosi
— Come sono fastidiose!
— Ah, davvero, sono tanto fastidiose, — disse zia Martina con voce dolce: — no, non allungarti così, figlia mia, ti farà male. Vengo io.
Infatti lasciò il fuso, e raccolse chicco per chicco tutto il grano sparso, mentre una gallina piluccava la lana della conocchia.
— Che tu sii spelata! — gridò la vecchia, accorgendosene: e la fece allontanare, mentre le altre galline procuravano di aiutarla nella raccolta dei chicchi.
Giovanna vagliava il grano, a capo chino, muta, assorta.
Dal portico si scorgeva lo spiazzo deserto, la casetta di zia Bachisia livida nella luce grigia vivissima del pomeriggio nuvoloso, un lembo di paese deserto, i campi gialli deserti, l’orizzonte di metallo.
Nuvole sopra nuvole gravavano sul cielo, spandendo un gran caldo e una quiete troppo intensa. Davanti al portico passò un ragazzo alto e scalzo, che conduceva due piccoli buoi neri: poi una donnina, scalza anch’essa, che guardò Giovanna con due grandi occhi chiari; poi un cane bianco e grasso, col muso per terra: niente altro interruppe il silenzio, l’afa grave e minacciosa.