Naufraghi in porto/Capitolo X
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X.
L’indomani, come in un giorno lontano, Giovanna fu la prima a svegliarsi, mentre zia Bachisia dormiva ancora di un sonno tranquillo.
L’alba invernale, fredda ma nitida, biancheggiava dietro i vetri appannati. Giovanna, che la sera prima s’era addormentata alquanto triste, più seccata che turbata per le osservazioni di zia Porredda, guardò i vetri e si sentì allegra: indovinava una bella giornata e quindi un buon viaggio.
Sì, la sera prima s’era addormentata un po’ triste pensando a Costantino, all’eternità, al suo bambino morto, a tante altre cose melanconiche.
— Il mio cuore non è cattivo — pensava — e Dio vede il cuore, e giudica più le intenzioni che le azioni. Io ho pensato a tutto, a tutto. Io ho voluto bene a Costantino ed ho pianto finchè ho avuto lagrime. Ora non ne ho più: ora io penso che egli non tornerà mai; o tornerà quando saremo vecchi, e non posso piangere più. Che colpa ne ho io se non posso piangere più, pensando a lui? D’altronde sono una creatura di carne e d’ossa, come tutte le altre; sono povera, soggetta alle tentazioni ed al peccato. E per sfuggire le une e l’altro prendo il posto che Dio mi assegna. Sì, zia Porredda mia, io penso all’eternità, ed è per salvarmi l’anima che faccio quello che faccio... No, io non sono cattiva; il mio cuore non è cattivo.
Quasi quasi pensava che il suo cuore era buono e generoso, o almeno, se precisamente non pensava così nella profondità sincera della sua coscienza, — dalla quale sgorgava quel senso di tristezza che la avvolgeva, — lo pensava con la mente calcolatrice. Così, confortata, si addormentò.
Adesso l’alba nitida batteva sui vetri della camera ospitale le sue grandi ali diafane, e Giovanna pensò al sole e si rallegrò.
Anche la vecchia si svegliò e guardò subito i vetri.
— Ah, farà una bella giornata! — disse soddisfatta.
Si alzarono. Zia Porredda era già in cucina; cortese e premurosa servì il caffè alle ospiti, e le aiutò a sellare il cavallo. Pareva non ricordasse il discorso della sera prima, ma appena le due donne furono partite fece in aria un piccolo segno di croce; le sembrava che con loro andasse via il peccato mortale.
— Alla buon’ora. Buon viaggio, e il Signore vi aiuti — disse, chiudendo il portone.
Questa volta le Era viaggiavano sole; dovevano scendere la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi salire le montagne i cui picchi coperti di neve, d’un bianco metallico, si disegnavano crudamente sull’orizzonte.
Faceva freddo; non spirava vento, ma l’aria era tagliente, e un silenzio indescrivibile regnava nella grande vallata selvaggia, accresciuto, anzichè rotto, dalla voce monotona di qualche torrente. L’erba invernale, corta e d’un verde intenso, incipriata di brina, copriva le chine di qua e di là dei sottili sentieri bruni; il musco umido odorava sulle roccie: una freschezza selvaggia ringiovaniva la valle; ma i radi alberi contorti e brulli sorgevano, di tratto in tratto, come eremiti nudi, esposti per penitenza al freddo e alla luce dell’aurora. Nei seminati la terra era nera, umida; e la linea delle muriccie coperte di musco saliva e scendeva serpeggiando come un enorme verme verde. Cammina, cammina, le due donne, con le mani, il viso e i piedi gelati, attraversarono il torrente; in un guado ove l’acqua passava larga, bassa e silenziosa: poi risalirono la valle e cominciarono a salire la montagna. Il sole era spuntato, vivido ma freddo, e le montagne della costa apparivano azzurre sul cielo d’oro: il vento, adesso, passava fra le basse macchie, recando un odore di roccie umide.
Le due donne viaggiavano silenziose: in un avvallamento ombreggiato dalle cime sovrastanti, candide di brina, incontrarono solo un uomo di Bitti che viaggiava a piedi: si salutarono, sebbene sconosciuti, e passarono oltre.
Zia Bachisia pensava a zia Martina e alla soddisfazione che la vecchia avara proverebbe nel vedere il corredo di Giovanna: e Giovanna, pensava a Brontu ed alle cose curiose che egli diceva quando era ubriaco; ma entrambe, quando videro la chiesa di San Francesco, bianca al sole, adagiata a mezza china fra le macchie lucenti, pensarono a Costantino e dissero un’Ave-Maria per lui. Arrivarono poco dopo mezzogiorno. Ad Orlei, nella cerchia dei campi umidi, sotto l’alito gelato delle grandi sfingi fasciate da bende di neve, il freddo era più intenso che a Nuoro, e il sole riusciva appena a riscaldare l’erba dei viottoli melanconici. I tetti erano rugginosi, ed alcuni coperti di gramigne; i muri neri di umido, gli alberi nudi, resi rossastri dal freddo; qualche spira di fumo livido saliva sul cielo chiaro, d’una solitudine infinita. Come sempre, il paesetto taceva e sembrava deserto, abbandonato; sui muri apriva le sue piccole coppe di carne verde l’ombelico di Venere; le lucertoline screziate si godevano il sole, le lumache e gli scarafaggi lucenti salivano di pietra in pietra.
Zia Martina filava sotto il portico, dove penetrava il sole: nel veder tornare le sue vicine fu assalita dalla smania di sapere che cosa recavano dentro la bisaccia, ma non si mosse e rispose contegnosa al loro saluto.
Verso sera rientrò Brontu, che ogni tre giorni visitava la fidanzata, e la madre volle accompagnarlo, curiosa di sapere che cosa le Era avevano portato da Nuoro.
Un magro fuoco di legno di ginepro ardeva nel focolare di zia Bachisia, gettando lunghi sprazzi di chiarore rossastro sul pavimento e le pareti terrose della cucina. Giovanna voleva accendere la candela, ma i Dejas glielo impedirono: zia Martina per istinto, Brontu perchè così nella penombra poteva meglio guardare la fidanzata.
Era mirabile il contegno di Giovanna davanti alla futura suocera ed a Brontu; ella si faceva tenera, dolce, la sua voce pareva quella d’una bimba, pur pronunziando parole savie e profonde; lo sguardo si velava, le lunghe ciglia s’abbassavano; ella sembrava una fanciulla di quindici anni, innocente e buona; e tutto questo non per voluta finzione, ma per istinto. Brontu ne era pazzamente innamorato, tanto che quando s’ubriacava, correva da lei, s’inginocchiava, e cantava certe preghiere puerili imparate nella sua infanzia. Poi piangeva perchè si accorgeva di essere ubriaco, e giurava che non avrebbe bevuto mai più in vita sua.
Quella sera era perfettamente sano, e parlava tranquillo, avvolgendo Giovanna con un continuo sguardo appassionato. Sorrideva, e i suoi denti splendevano al riflesso del fuoco.
Zia Bachisia cominciò a raccontare le avventure del viaggio; parlò dell’avvocato, delle ali che usavano le signore, della cucina dei Porru, dell’uomo sconosciuto incontrato per strada; ma non riferì la discussione avuta con zia Porredda nè parlò delle compre fatte, sebbene indovinasse la smania e la curiosità di zia Martina, e ardesse anch’essa dal desiderio di mostrare le belle cose acquistate.
— E tu cosa dici, Giovanna? — domandò Brontu, frugando il fuoco col suo bastone. — Sei pensierosa stasera: che hai?
— Sono stanca — ella rispose; e improvvisamente domandò notizie di Giacobbe Dejas.
— Quel matto? Mi tormenta di continuo. In verità, finirò col dargli una pedata. Già egli non ha più bisogno di fare il servo.
— Io non so — disse zia Bachisia — prima era un uomo tanto allegro; ora ha casa, bestiame, e dicono che stia per prender moglie anche lui, ma è d’un umore!... Voi sapete che voleva bastonarci.
— Qui non è più tornato?
— Mai più.
— E neppure Isidoro Pane — disse Giovanna con voce sorda.
— Mi pareva di averlo veduto ieri passare di qui... — osservò zia Martina. Giovanna sollevò vivamente la testa, ma non parlò; mentre Brontu esclamava ridendo:
— Voi non avete bisogno delle sue sanguisughe...
— Ebbene — chiese zia Martina, dopo un breve silenzio — non mi avete portato nessun regalo da Nuoro? Lo fate ben sospirare!
Le due donne, che infatti avevano comprato per lei un grembiale, finsero sorpresa e mortificazione.
— Ah, davvero, non ci siamo ricordate... Ah, davvero!...
Zia Bachisia rise, con uno strillo da falco, ma tosto ridiventò seria poichè Giovanna non usciva dalla sua melanconia.
— No, non ci siamo ricordate. Ma Giovanna vi farà vedere qualche cosa che abbiamo comprato...
Giovanna si alzò, accese la candela e andò nella camera attigua. Brontu la seguì con gli occhi ardenti, zia Martina capì che ella andava a prendere il regalo. Passarono alcuni minuti e Giovanna non tornava.
— Che fa di là? — chiese Brontu.
— Chi lo sa?
Passò un altro minuto.
— Io vado a vedere — egli disse alzandosi.
— No, no, che fai? — disse zia Bachisia, ma così debolmente che zia Martina si sdegnò e richiamò il figlio con degli energici:
— Zsss... Zsss...
Ma egli andò oltre, in punta di piedi. Giovanna, dritta davanti al cassetto aperto, rileggeva una lettera che, rientrando dal viaggio, madre e figlia avevano trovato sotto la porta, introdotta dalla fessura durante la loro assenza. Era una lettera straziante di Costantino: coi suoi rozzi e semplici caratteri egli supplicava Giovanna per l’ultima volta di non fare quanto ella stava per fare. Le ricordava i giorni lontani del loro amore, le prometteva il ritorno, le giurava la sua innocenza. «Se non vuoi aver pietà di me — concludeva — abbi pietà di te stessa, dell’anima tua; pensa al peccato mortale, pensa all’eternità.»
Ah, le stesse parole di zia Porredda, le stesse!
La lettera doveva averla introdotta zio Isidoro, giacchè Giovanna, da lungo tempo non riceveva più direttamente notizie del condannato. Le lagrime le velavano gli occhi: e chi sa? forse ella si turbava più al ricordo del passato che al pensiero dell’eterno avvenire. D’un tratto sentì l’uscio girare lievemente ed una persona entrare furtiva; si chinò rapida, fingendo di frugare dentro il cassetto, con le mani tremanti e gli occhi velati.
Brontu le fu dietro, a braccia aperte, la cinse per le spalle, ed ella tremò tutta.
— Che fai, che fai? — egli mormorò con voce turbata.
— Ah, cerco... cerco... il grembiale per tua madre. Non so dove l’abbia messo! Lasciami! Lasciami! — ella disse cercando di liberarsi dalle braccia che la stringevano; ma volgendosi vide i denti di Brontu luccicare fra le labbra sorridenti rosse e lucide come ciliegie, e chiuse gli occhi come per sfuggire alla tentazione di baciarlo: ma subito sentì la mano di lui dietro la testa, e quelle labbra ardenti come il fuoco si posarono sulle sue.
— Ah, noi non pensiamo all eternità... — disse con voce ansante, appena egli l’ebbe baciata.
Ma poco dopo, ritornati in cucina, ella cominciò a ridere con un riso fresco e puro di giovinetta, mentre Brontu la guardava con l’aria speciale che prendeva quando era ubriaco.
L’inverno passò. Gli amici di Costantino non cessarono un momento di intrigare e lottare perchè il maledetto matrimonio non si compisse. Invano. In quell’occasione i Dejas e le Era sembravano gente fatata; erano invulnerabili, non si lasciavano scuotere nè da preghiere, nè da minaccie, nè da pettegolezzi.
Il sindaco, anche il sindaco, un pastore che tutti rassomigliavano a Napoleone, tanto era pallido e fiero, contrariava quel matrimonio del diavolo; e quando incontrava Giovanna o Brontu sputava per terra con disprezzo. La gente minacciava scandali. Finché s’era parlato dell’amoreggiamento di Brontu e Giovanna, la gente aveva mormorato, ma in fondo, s’era compiaciuta di aver uno scandalo sul quale intrattenersi; finchè s’era trattato d’un matrimonio che sembrava impossibile, la gente aveva riso, anche nella speranza che Brontu si burlasse delle Era: e adesso la gente non avrebbe forse detto più nulla nè avrebbe più riso se Brontu e Giovanna si fossero uniti così, in peccato mortale (caso nè primo nè ultimo: e Giovanna poteva scusarsi, data la sua gioventù e la sua povertà), ma sposarsi, una donna che aveva già marito, sposarsi! questo la gente non poteva sopportarlo; e qualcuno minacciava di fare scandalo, di gittar pietre, di fischiare, di bastonare gli sposi il giorno delle nozze. Ed essi lo sapevano: Brontu si arrabbiava, zia Bachisia diceva «lasciate fare a me» e zia Malthina sollevava la testa come un puledro che sente l’odor della polvere da sparo. Ah, lei voleva combattere e vincere; lei si sentiva invecchiare, era stanca di lavorare e voleva in casa una serva gratis. Giovanna le piaceva, e Brontu doveva prenderla. E che la gente schiantasse d’invidia.
Il fatto è che nessuno sapeva dove e da chi le nozze sarebbero celebrate: si diceva in una chiesa di campagna, da un prete ubriacone al quale Brontu avrebbe regalato un paio di buoi. E su questo particolare si rideva molto, alle spalle non si sa bene di chi: se del primo o del secondo marito.
Una sera zio Isidoro Pane lavorava nella sua catapecchia, alla luce viva d’un gran fuoco. Almeno un gran fuoco zio Isidoro poteva permettersi, giacchè le legna le portava lui stesso dai campi, dalle rive del fiume, dal bosco. Durante l’inverno egli intesseva corde di pelo di cavallo: sapeva far di tutto, cuciva, filava, cucinava (quando aveva di che), rattoppava le scarpe: eppure non usciva mai di miseria.
D’un tratto s’aprì la porta: nel vano apparve un lembo di notte marzolina, chiara ma velata, e Giacobbe Dejas venne a sedersi silenzioso accanto al fuoco.
La cucina del pescatore pareva un quadretto fiammingo, con le figure nitide nella luce rossa che profilava gli oggetti lasciando nero lo sfondo: e in quello sfondo nero si scorgeva una tela di ragno, cinerea, col ragno nel mezzo; nell’angolo del focolare un’ampolla di vetro colma d’acqua fino al collo, con dentro le sanguisughe nere nuotanti; un cestino giallo appeso al muro, e poi le figure dei due uomini, e la corda di pelo nero sfrangiata fra le dita scarne e rossastre del vecchio pescatore.
— Ed ora come si fa? — chiese Giacobbe.
— Come si fa? Come si fa? — ripetè l’altro.
— Io non lo so.
— Hanno fatto le cose per bene; — riprese Giacobbe e pareva parlasse a sè stesso; — è tutto fatto, proprio tutto! L’ubriacone oggi non è venuto neppure all’ovile: anch’io son ritornato in paese. Ebbene, che gliele rubino pure, le pecore, io me ne infischio. Sono venuto: bisogna fare qualche cosa, Isidoro Pane. Ehi, Isidoro Pane, lasciate la vostra corda ed ascoltatemi. Bisogna... fare... qualche cosa... Avete inteso?
— Ho inteso. Che possiamo fare? Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare. Abbiamo gridato, pregato, minacciato. Si è intromesso il Sindaco, il segretario, prete Elias.
— Bello quel prete Elias! Che ha fatto lui? Ha predicato, ma con lo zucchero. Lui, lui doveva minacciare; doveva dire: io prenderò i libri santi e vi maledirò, vi scomunicherò; voi non vi sazierete mai d’acqua, nè di pane, nè d’altra cosa; voi vivrete l’inferno in vita. — Vedevate allora l’effetto; ma no, prete Elias è uno stupido, è un prete di latte cagliato, non ha fatto il suo dovere. Non nominatelo o mi arrabbio.
Isidoro lasciò la corda.
— È inutile che tu t’arrabbi. Prete Elias non doveva minacciare e non ha minacciato. Ma credi pure, la scomunica cadrà lo stesso su quella casa.
— Ah, io me ne andrò via, sì, me ne andrò via; non voglio più quel pane maledetto! — disse Giacobbe, e tutta la sua faccia espresse un amaro raccapriccio. — Ma prima voglio prendermi il gusto di bastonare gli sposi del diavolo.
— Tu sei matto, uccellino di primavera! — disse Isidoro con un sorriso accorato, imitando Giacobbe.
— Sì, sono matto. E quando fossi matto, a voi non dovrebbe importar nulla; ma anche voi non avete fatto niente per impedire questo sacrilegio. Ah, che cosa schifosa! Io ho perduto la mia allegria...
— Ed io sono invecchiato di dieci anni.
— .... la mia allegria; penso sempre a quello che Costantino dirà di noi che non abbiamo saputo impedire... È vero che egli è malato?
— Adesso no. Lo è stato. Ma, certo, soffre molto — disse zio Isidoro scuotendo il capo. Poi riprese ad intrecciare la corda, e mormorò:
— La scomunica... la scomunica....
— Io mi arrabbio talmente che mi vien la bava sulle labbra — riprese Giacobbe, alzando la voce — come i cani, sì, come i cani! Ah, no, non lascerò quella casa, a costo di crepare: voglio assistere alla scomunica che piomberà sopra di loro. Sì, Dio castiga in vita ed in morte, questo è certo; ed io voglio assistere al castigo. Ma che cosa lavorate voi?
— Una corda di pelo.
— Ah, una corda di pelo!
Tacquero. Giacobbe guardava la corda, e i suoi occhi nuotavano in un sogno di dolore e d’ira.
— A chi le vendete quelle corde?
— Le porto a Nuoro e ne vendo anche qui ai contadini che le adoperano per legare i buoi. Perchè la guardi così? Vorresti appiccarti?
— No, uccellino di primavera, vi appiccherete voi, se Dio vorrà. Dunque — riprese alzando la voce — pare che si siano già sposati.
Tacquero di nuovo: poi Isidoro disse:
— Chi lo sa? Io, vedi, spero invece che il matrimonio non si faccia. Spero in Dio, spero in un miracolo di San Costantino.
— Giusto, un miracolo! — disse l’altro, con voce ironica.
— E perchè no? Se, per esempio, in questi giorni venisse a morire il vero assassino di Basilio Ledda, e confessasse? Ecco che la condanna sarebbe nulla.
— Sì, giusto! In questi giorni! — rispose l’altro, sempre ironico. — Siete innocente come una creatura di tre anni, in fede di cristiano!
— Chi lo sa? O potrebbe venire scoperto.
— Sì, giusto! in questi giorni! Eppoi, cosa ne sappiamo noi? Chi potrebbe scoprirlo? Come?
— Chi! Io, tu, un altro...
— Siete innocente non come una creatura di tre anni, ma come una chiocciola prima che esca dal suo guscio. Come possiamo scoprirlo? E d’altronde, a parte tutto, ecco, siamo noi poi sicuri che non sia stato proprio Costantino?
— Ah, noi ne siamo sicuri! — disse Isidoro. — Tutti possiamo esserlo stati, fuorchè lui. Posso esserlo stato io, puoi esserlo stato tu....
Giacobbe s’alzò per andarsene.
— Che si potrebbe dunque fare?... C’è un rimedio?... Ditelo voi.
— .... Fuorchè lui! — ripeteva zio Isidoro, senza sollevare la testa. — Un rimedio c’è. Rimettersi nelle mani di Dio.
— Ah, come mi fate arrabbiare! — gridò Giacobbe, movendosi per la stamberga come una belva rinchiusa. — Domando se c’è un rimedio e voi mi rispondete così, come uno sciocco. Ah, io vado e strangolo Bachisia Era, ecco tutto!
E andò via come era venuto, senza salutare, arrabbiato sul serio; zio Isidoro non sollevò neppure la testa; solo, dopo qualche istante, avendo Giacobbe lasciato la porta aperta, s’alzò per chiuderla e s’affacciò al limitare.
La notte di marzo era tiepida, lunare, ma velata. Si sentiva già una fragranza umida di vegetazione rinascente: intorno alla catapecchia del vecchio le siepi e le piante selvatiche parevano addormentate in quella luce misteriosa di luna invisibile; sullo sfondo dell’orizzonte, tra vapori lattei diffusi, serpeggiava una linea sottile di cielo limpido che sembrava un fiume azzurro, in una pianura sabbiosa, con qualche fuoco notturno sulle rive.
Isidoro chiuse la porta e tornò a lavorare, sospirando.