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— Ah, come mi fate arrabbiare! — gridò Giacobbe, movendosi per la stamberga come una belva rinchiusa. — Domando se c’è un rimedio e voi mi rispondete così, come uno sciocco. Ah, io vado e strangolo Bachisia Era, ecco tutto!

E andò via come era venuto, senza salutare, arrabbiato sul serio; zio Isidoro non sollevò neppure la testa; solo, dopo qualche istante, avendo Giacobbe lasciato la porta aperta, s’alzò per chiuderla e s’affacciò al limitare.

La notte di marzo era tiepida, lunare, ma velata. Si sentiva già una fragranza umida di vegetazione rinascente: intorno alla catapecchia del vecchio le siepi e le piante selvatiche parevano addormentate in quella luce misteriosa di luna invisibile; sullo sfondo dell’orizzonte, tra vapori lattei diffusi, serpeggiava una linea sottile di cielo limpido che sembrava un fiume azzurro, in una pianura sabbiosa, con qualche fuoco notturno sulle rive.

Isidoro chiuse la porta e tornò a lavorare, sospirando.

XI.


Era la vigilia dell’Assunzione; un mercoledì caldissimo e nuvoloso.

Zia Martina filava sotto il portico, e Giovanna, incinta, mondava il grano. Mentre di solito per questa faccenda occorrono due donne, ella doveva compierla da sola, rimescolando il grano nel vaglio per toglierne le pietruzze, e poi