Naufraghi in porto/Capitolo XII
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XII.
L’indomani verso le dieci cominciarono in chiesa le funzioni religiose. Cominciavano così tardi perchè s’era dovuto aspettare l’arrivo di un giovine sacerdote nuorese, amico del prete Elias, che veniva per fare, gratis, un panegirico al popolo di Orlei. Questo panegirico costituiva un grande avvenimento: quindi alle dieci la chiesetta era gremita di una folla variopinta. Già la chiesa per sè stessa vibrava dei più vivi colori: fasce d’un turchino stridente solcavano le pareti rosee; il pulpito era in legno giallo, i santi, nelle nicchie rosee, splendevano biondi e rossi come pomi maturi. Solo San Costantino, il santo Protettore, vestito da guerriero, aveva un viso bruno e severo; e nel paese esisteva la leggenda che quest’antica statua, alla quale si attribuivano molti miracoli, era stata scolpita da San Nicodemo.
Dalla porta spalancata su uno sfondo d’azzurro abbagliante penetrava un torrente di luce che passava sulla folla inondandola di un pulviscolo luminoso. In fondo, l’altare restava quasi scuro, nonostante un’M di ceri ardenti, le cui fiammelle immobili parevano freccie d’oro fissato su bastoni di legno bianco. Prete Elias celebrava la messa; ed il suo piccolo amico, in camice di merletto, e con un visetto bruno da bambino furbo, cantava a gola spiegata. Il popolo si meravigliava che il piccolo prete cantasse pur dovendo far la predica; molti erano venuti apposta per sentirlo, e tutti, poi, a dir la verità, ascoltavano la messa con poca divozione, chiacchierando e guardandosi curiosamente a vicenda. Bisogna però aggiungere che un caldo soffocante e innumerevoli invisibili insetti molestavano la folla. D’un tratto prete Elias, dopo aver cantato il Vangelo, volse al popolo il viso pallido e tranquillo, e le sue labbra si mossero.
Giusto in quel momento apparve sull’azzurro fiammante della porta la figura di Giacobbe Dejas. Il suo viso satirico aveva un’espressione di trionfo.
Nel vedere che il sacerdote parlava, si fermò sul limitare della porta, con la lunga berretta nera fra le mani; ma non sentì nulla. Allora si avanzò e domandò a bassa voce ad un vecchio:
— Cosa ha detto?
— Io non ho sentito, — rispose il vecchio irritato. — Fanno chiasso come si trovassero in piazza.
Un giovine si volse, guardò Giacobbe, e nel vederlo vestito a nuovo, pulito, trionfante, sorrise maliziosamente.
— Ecco, — disse, — credo che prete Elias abbia detto che l’altro prete ora fa il panegirico.
— L’hai sentito tu? — chiese il vecchio irritato.
— Io non ho sentito niente.
Giacobbe andò avanti, ficcandosi fra gli uomini, che si voltavano a guardarlo. Un gran silenzio si fece nella folla: gli uomini si ritirarono verso le pareti; le donne sedettero per terra. E nel mezzo della chiesa, nel fiume di luce perlata che la attraversava, apparve una specie di letto di legno azzurro, vigilato da quattro angioletti rosei con le ali verdi che parevano quattro farfalle. Entro il letto, sopra cuscini di broccato, posava distesa una piccola Madonna con gli occhi chiusi. Anelli d’oro, orecchini e collane brillavano sul suo vestito di raso bianco. Era l’Assunta.
Sul pulpito apparve il visetto bronzino e furbo del piccolo prete. Giacobbe Dejas lo guardò fisso, poi si volse di fianco, tendendo l’orecchio destro per sentir meglio.
— Abitanti di Orlei, fratelli e sorelle, — disse una voce infantile ma sonora, — chiamato a farvi un piccolo discorso in questo giorno solenne io...
A Giacobbe piacque questo esordio, ma poichè ci sentiva benissimo anche senza tendere l’orecchio, tornò a voltarsi e cominciò a esaminar la gente ed a parlar fra sè, pur non perdendo una parola della predica.
— Ecco là Isidoro Pane; che il diavolo gli tiri le orecchie, è vestito di nuovo anche lui. Che pensi anche lui ad ammogliarsi? Eh, oh! Quel giovinetto rosso, là in fondo, ha riso di me, vedendomi allegro e vestito di nuovo, perchè si dice che io voglia prender moglie. Ebbene, e se la voglio prendere? Che vi importa, cani rognosi? Non la posso prendere? Ho una casa, adesso, e del bestiame. Ed anche voi avete del bestiame, ma soltanto in testa. Eh, eh! Mia sorella morrà senza eredi, che Dio la benedica, eccola là; è piccola e rosea e lucente come una pupattola. Chi direbbe che è più vecchia di me? Essa vuole che io mi sposi. Sta benissimo, mi ammoglierò; ma con chi? lo sono di difficile contentatura; eppoi ho paura. Ecco là il mio giovine padrone, eccolo là, col suo viso di peccato mortale. Che viene a fare qui? Perchè non lo bastonano? Perchè non lo cacciano via come un cane? Ed anche quell’uccello rapace di sua madre, la vecchia cavalla, è lì, è lì! Perchè non li cacciano via?
«— Ah, — pensò poi, — è giusto; se si dovessero cacciare via tutti coloro che hanno peccato, la chiesa resterebbe vuota. Ma quelli lì! Ah, quelli lì! Io li odio, io li bastonerei a sangue. Eppure io non sono cattivo, ecco, oggi son tornato tardi perchè prima ho riparato i danni che l’acquazzone di ieri sera ha recato all’ovile. Poi son tornato: trovo Giovanna che prepara il pranzo: è sporca, sofferente, melanconica. Per lei non c’è festa. Madre e figlio sono usciti: ella, la serva, rimane in casa e lavora. Ben ti sta, crepa, donna perduta! Eppure mi fa pietà quella donna, ecco, che Dio mi assista, mi fa pietà. Io le ho detto delle male parole: ella non rispose. Eppure, dopo tutto, essa è la padrona ed io il servo. Uccellino di primavera, che colpa ne ho io se ti insulto? Non ti posso vedere, eppure mi fai pietà, ecco tutto. Oh, ascoltiamo ciò che predica questo prete che sembra un passero. Sì, un passero che canta sul nido, eccolo là.
— Fratelli, sorelle carissimi, — con quel molle dialetto logudorese che somiglia allo spagnuolo, diceva il giovinetto sacerdote agitando le piccole mani pallide, — la fede in Nostra Signora è la più sublime ed ideale delle fedi. Ella, la soavissima donna, figlia, sposa e madre di Nostro Signore, salì al cielo, radiosa e fragrante come una nuvola di rose, e siede gloriosa fra gli angeli e i serafini...
— Ecco là prete Elias, — pensava Giacobbe, volgendo verso l’altare i suoi occhietti obliqui che nella luminosità della chiesetta parevano di metallo, — eccolo là con le mani giunte, eccolo là quel prete di latte cagliato. Egli non sa far altro che predicar la bontà; eppure egli possiede i libri sacri e potrebbe fulminare la gente. Ah, se egli avesse minacciato Giovanna Era! Pare che egli sogni, adesso...
— ... nessuno mai disse di non aver ottenuto la grazia chiesta con vera fede a Nostra Signora Santissima. Ella, il giglio delle valli, la mistica rosa di Gerico... — proseguiva il piccolo predicatore, sporgendosi dal pulpito giallo.
— Non conclude niente, — pensò Giacobbe.
E la gente cominciava a stancarsi; le donne sparse per terra come ranuncoli e papaveri, s’agitavano, volgevano indietro la testa, non davano più ascolto; il giovine prete capì e terminò la predica benedicendo quel popolo di pastori che aveva ascoltato la parola, di Dio pensando ai propri affari ed a quelli degli altri.
Allora prete Elias si scosse dal suo sogno e riprese la celebrazione della messa. Solo lui, e Isidoro Pane, avevano ascoltato intensamente la predica; e finita la messa il pescatore cominciò a cantar le laudi con la sua voce sonora, che sembrava un torrente d’acqua limpida, fra balze solitarie rosee di fiori di musco.
Il giovine predicatore ascoltava estatico quella voce sonora e intonata, e la figura di Isidoro, di quel vecchio dalla lunga barba e dagli occhi dolci, col rosario d'osso intrecciato alle dita nodose, gli ricordava certe figure di pellegrini del Both che egli aveva veduto a Roma.
Lo volle conoscere, e prete Elias fermò il pescatore all’uscita della chiesa. Giacobbe guardava: e nel vedere l’amico fermo coi sacerdoti ne provava un’invidia da non dirsi. Lo attese in mezzo alla piazza e gli domandò:
— Che una palla vi trapassi le ghette, cosa vi hanno detto quelli lì?
— Mi volevano a pranzo con loro, — disse Isidoro non senza una certa vanità.
— Ah, vi volevano a pranzo con loro? Uccellino di primavera, siete diventato un personaggio, a quanto pare! Ecco, venite con me...
— Dai Dejas?... Mai! — disse Isidoro, spaventato.
— No; oggi io non mangio le patate di quelle pelli del diavolo. No. Io mangio in casa mia! Venite.
Lo portò a casa della sorella. Era mezzogiorno passato: il sole bruciava le stradicciuole dove il fango s’era asciugato; gli alberi svaporavano sull’azzurro ardente del cielo e degli sfondi selvaggi. La gente tornava a casa; il passo pesante dei pastori risonava sui ciottoli, i bimbi vestiti a festa guardavano dai muricciuoli; dalle porte spalancate si scorgevano interni scuri di cucine dove rilucevano come grandi medaglioni le casseruole di rame. Spire di fumo giallognolo serpeggiavano nell’aria limpida: la musica straziante di un organetto usciva a tratti da un cortile, di solito disabitato, e pareva sgorgasse di sotterra, suonata da qualche vecchia fata melanconica.
Tutto il paesetto aveva una insolita aria di festa, eppure quell’aria di festa, quelle porticine spalancate, quelle spire di fumo, quei bimbi impacciati nei vestitini nuovi, quel suono d’organetto, le casette senz’ombra, in quell’ora di luce ardente, avevano qualche cosa di supremamente triste.
Giacobbe condusse il pescatore dalla sorella, e pranzarono assieme. La donnina, vedova e senza figli, adorava il fratello, anzi lo chiamava ancora «fratellino mio». Del resto ella amava «tutto il suo prossimo,» e i suoi occhi, un po’ obliqui, di colore incerto, liquidi e puri come due piccolissimi laghi illuminati dalla luna, parevano gli occhi di un bimbo lattante. Ella non ignorava il male, ma si spaventava al solo pensiero che gli uomini potessero commetterlo. Uno dei suoi più grandi dispiaceri era stato il nuovo matrimonio di Giovanna, un po’ sua figliuola di latte, alla quale tuttavia aveva prestato i denari per il corredo. Suo fratello si burlava sempre di lei.
— Ecco il nostro amico Isidoro che vuol prendere moglie: è venuto per consigliarsi con te, — le disse.
— Che tu sii benedetto, Isidoro Pane, è vero che vuoi ammogliarti?
— Andate là! Andate là! — rispose bonariamente il pescatore.
— Ah, voi non volete ammogliarvi? — gridò Giacobbe, strappando coi denti ancora forti un morso dalla fetta d’arrosto che teneva con ambe le mani. — Siete un animale immondo. Ecco, germana mia, egli ha delle amanti.
— Questo non lo credo.
— Che tu mi veda in cielo se mento. Sì, egli ha delle amanti che gli succhiano il sangue...
La donna e Isidoro risero, un riso di creature innocenti; poichè Giacobbe accennava alle sanguisughe.
Il servo cominciò a tagliuzzare la carne col suo coltello affilato, tenendola fra i denti e la mano sinistra, e disse che sembrava l’orecchia del diavolo tanto era dura. E quei due, ora che avevano cominciato, ridevano per ogni piccola cosa. Giacobbe, però, non rideva: non sapeva perchè, ma il suo buon umore di poco prima era scomparso.
— Dopo vi condurrò a vedere il mio palazzo: fra giorni sarà finito e se volessi affittarlo avrei già gli inquilini. Ma io non l’affitto. No: andrò ad abitarlo io.
— Tu lascerai il servizio, dunque?
— Io lascerò il servizio, sì. Fra poco. Ho lavorato abbastanza. Sono quarant’anni che lavoro, sapete? Sì, quarant’anni. Nessuno dirà che ho rubato i denari coi quali vivrò la vecchiaia.
— Tu ti ammoglierai?
— Poh, chi mi vuole? Io stesso sputerei in faccia la donna giovine che mi accettasse. E vecchie non ne voglio, no. Bevete, Isidoro Pane.
— Tu mi farai ubriacare! Ebbene, sì, è festa. Alla salute degli sposi.
— Di quali sposi?
— Di Giacobbe Dejas e di Bachisia Era! — disse il pescatore, che diventava allegro.
Giacobbe fece atto di gettarglisi sopra.
— Io vi accoppo! — gridò, con gli occhietti verdi d’ira.
— Ah! Ah! Ah! Assassino!
— Silenzio, sss... non son cose da dirsi, — disse zia Anna-Rosa.
Giacobbe bevette uno dopo l’altro due bicchieri di vino e cominciò a ridere un po’ forzatamente, guardando la sorella e il pescatore.
— Ecco, maritatevi voi due! Isidoro Pane, mia sorella è ricca; eppoi non vedi come è fresca? Sembra una bacca di rosa selvatica. Dicono che essa abbia trovato un’erba meravigliosa e ne faccia un decotto che tiene fresca la pelle.
— Che Dio ti benedica; tu sei così curioso! — disse la donnina.
— Sì, maritatevi lo voglio. Mia sorella è ricca. Ciò che è mio è suo, perchè io morrò prima di lei. Non so perchè, credo che morrò presto: credo che debbano ammazzarmi...
— Va là; è il vino che oggi comincia ad ammazzarti...
— Fratellino mio, cosa dici tu? Per le animuccie del Purgatorio, cosa dici tu? — esclamò atterrita la sorella.
— Tu non hai nemici, — osservò il pescatore.
— Eppoi perisce di ferro soltanto colui che di ferro ha ferito.
— Io ho ferito, — rispose Giacobbe, con accento grave, affondando la bocca in una fetta d’anguria: — quante creature innocenti! Ah, voi non capite? Pecore e agnelli! — poi sollevò il viso, rorido del roseo sangue dell’anguria, e rise.
Dopo andarono a veder la casa nuova: era ad un piano, oltre il terreno; in tutto quattro camere vastissime, una cucina e una stalla: ma ciò bastava perchè Giacobbe, e tutti quelli del paese, la chiamassero palazzo.
— Ecco questo, ecco quell’altro, — diceva Giacobbe, additando ogni buco; ed il suo viso liscio, senza sopracciglia, ridiventava gioviale.
— Prendetevi mia sorella per moglie, — ripeteva. Questa casa sarà sua...
— Tu mi deridi, — rispose il pescatore; — perchè sono povero tu mi deridi.
Egli camminava timidamente sul pavimento di legno; Giacobbe invece batteva il tacco ferrato, compiacendosi a destar l’eco nelle grandi stanze vuote, odorose di calce fresca.
Dalle finestre i cui davanzali di pietra ardevano al sole si vedeva tutto il paesetto, bruno come un mucchio di carboni spenti, sotto il velo verde degli alberi, la pianura gialla, le grandi sfingi d’un grigio violaceo dritte sul cielo ardente. La campana della chiesetta suonava, suonava, e nella quiete del meriggio azzurro e ardente, quel suono saltellante, fra di pietra e di metallo, pareva venir di lontano, dal cuore di quelle sfingi, dove un gigante tagliapietre lavorava annoiato e sonnolento.
— Perchè dunque non volete sposare mia sorella? — riprese Giacobbe, affacciato goffamente a un davanzale. — Questa casa sarà sua, questa sarà la camera da dormire; qui, in questa finestra, vi potrete affacciare, uccellino di primavera, potrete fumare la pipa...
— Io non fumo. Lasciami in pace. — disse Isidoro con impazienza, poichè le parole del servo cominciavano a fargli male. E s’appoggiò anche lui alla finestra.
— Io non scherzo, vecchia lucertola, — proruppe Giacobbe. — Ma voi siete così pezzente che non potete neppure pensare che io non scherzo.
— Senti, — disse Isidoro, — oggi tu mi hai dato da mangiare, e per così poco vuoi spassarti alle mie spalle. Ebbene, lasciami tranquillo, se vuoi che io ti resti grato.
Giacobbe lo guardò fisso, si mise ancora a ridere, poi disse:
— Andiamo a bere, adesso.
Uscirono: Giacobbe s’avviò alla bettola, ma Isidoro non volle seguirlo, anche perchè doveva recarsi in chiesa.
Nella bettola il servo trovò Brontu ed altri che giocavano alla morra con le braccia tese nervosamente, gridando i numeri con quanto fiato avevano in gola.
Molto prima delle cinque, ora nella quale doveva cominciare la processione, tutti erano ubriachi. Giacobbe lo era più di tutti; pure s’arrogò il diritto di prendere sottobraccio il padrone, sembrandogli che Brontu dovesse di momento in momento cadere. Poi invitò tutti quelli che si trovavano nella bettola ad andare nel suo palazzo per veder la processione.
E così le grandi stanze vuote risonarono di voci rauche, di risate incoscienti e di passi malfermi; le finestre si spalancarono e si riempirono dei visi barbuti, rossi, selvaggi.
Giacobbe e Brontu s’affacciarono alla finestra dove s’era appoggiato il pescatore: il sole era calato, ma il davanzale restava caldo; e sotto, e davanti, la visione del paesetto, della pianura e delle montagne, appariva solcata da ombre sempre più violacee.
— Cu cu — gridò Brontu, arrotondando e sporgendo gli occhi.
Tutti lo imitarono, gridando a chi più poteva; la strada si popolò di curiosi, ed in breve una battaglia di pietruzze, di sputi e di male parole infuriò fra gli ubriachi delle finestre e gli ubriachi della via. Ma improvvisamente si fece silenzio. S’udiva una cantilena grave e melanconica avvicinarsi: ed ecco una doppia fila di fantasmi candidi apparve in fondo alla strada, e sull’aria azzurra brillò una croce d’argento.
Gli uomini della strada si attaccarono in fila al muro, i visi delle finestre si abbassarono; tutti gli astanti si tolsero la berretta.
Uno dei confratelli vestiti di bianco — per lo più erano ragazzi, ai quali, finita la processione, si davano tre soldi e una fetta d’anguria, — picchiò alla porta della casa nuova e passò oltre. Gli altri, che venivano dietro, lo imitarono.
— Che voi siate maledetti, disse Giacobbe, sporgendosi dalla finestra, — maleducati; E vanno alla processione! — E voleva sputare su di loro, ma Brontu gli disse che non conveniva.
Ed ecco lo stendardo di broccato verdolino con cento nastri variopinti e il bastone dorato: ed ecco, vigilata dai piccoli angeli verdi, la Madonnina Assunta nel suo letto portatile, con gli occhi chiusi, con la veste coperta di collane e d’anelli che parevano collane ed anelli dell’età del bronzo.
Ai quattro lati camminavano, oltre i portatori, quattro uomini in tunica bianca, con quattro bambini in braccio vestiti da angioletti, quattro graziose creature, due bionde e due brune, che chiacchieravano fra di loro, gridando per intendersi. Uno, solleticato sotto il ginocchio dall’uomo che lo portava, rideva contorcendosi, con un’ala penzoloni.
Giacobbe, Brontu e i compagni piegarono le ginocchia e si fecero il segno della croce, guardando con tenerezza i quattro bambini. E anche i quattro bambini guardarono in su; uno riconobbe un suo zio alla finestra e gli gittò un confetto rosso che ricadde sulla strada.
Prete Elias ed il piccolo sacerdote nuorese, vestiti di broccato e di merletti, pallidi e belli al riflesso delle stoffe preziose che indossavano, con le mani giunte e il viso composto, cantavano in latino.
— Che il diavolo ti fori la saccoccia, ecco quell’immondezza di Isidoro Pane, — disse Giacobbe, agitandosi — ecco, sembra il padrone della processione! Io gli sputo sopra.
— Ferma! — impose Brontu.
Giacobbe raschiò per richiamare l’attenzione del pescatore, ma Isidoro non sollevò neppure gli occhi: intonava le preghiere, e la folla che rispondeva ad una sola voce pareva lo seguisse come il gregge il suo pastore.
Uomini col capo scoperto, teste calve lucide di sudore, capelli neri unti, capelli neri ricciuti e lanosi, — teste di donne coperte da grandi fazzoletti di lana fiorili, macchie gialle e rosse, chiazze verdi, — il candore delle camicie sui petti delle donne, — visi rosei, — mani rosee, — occhi scintillanti, — labbra che si muovevano, — poi un vecchio zoppo, — una donna con due bambine, — tre vecchie, — un fanciullo con un fiore giallo in bocca, — riempirono la strada, — s’allontanarono, — dileguarono coll’ondulare melanconico e grave del canto religioso. Un gatto mostrò le sue zampine, poi sporse il visetto bianco dai grandi occhi azzurri, poi saltò sul muro in faccia alla casa di Giacobbe.
— Troppo tardi! — gli disse Brontu, facendogli un cenno di saluto.
Tutti ricominciarono a ridere e urlare: Giacobbe li pregò di andarsene, e poichè gli amici non obbedivano, finse di scacciarli con un bastone sporco di calce. Allora quegli uomini neri, robusti, selvaggi, cominciarono a correre di qua e di là per le stanze, per la scala, spingendosi per le spalle, rotolando, gridando, ridendo come bambini; e proseguirono il giuoco anche nella strada, dopo che Giacobbe ebbe chiuso a chiave la porta del palazzo: poi, tutti assieme, ritornarono nella bettola.
Brontu ed il servo rientrarono a casa sull’imbrunire, sostenendosi a vicenda.
Zia Martina stava nel portico, sola, con le mani sotto il grembiule: recitava il rosario. Nel vedere i due uomini non si mosse, non disse nulla, ma scosse leggermente il capo stringendo le labbra come per dire:
— Siete belli davvero!
— Dov’è Giovanna? — gridò Bronlu.
— È da sua madre.
— Ah, da sua madre? Dalla vecchia arpia? È sempre là, maledetta!
— Non gridare, figlio mio!
— Io grido, perchè sono in casa mia! — egli urlò. E voltosi verso lo spiazzo cominciò a gridare: — Giovanna! Giovanna!
Giovanna apparve subito sulla porta della casetta e si avviò attraverso lo spiazzo con un’aria spaventata; ma a misura che si avvicinava, il suo viso prendeva un’espressione di sprezzo e di disgusto.
Giunta davanti ai due uomini li guardò con uno sguardo d’odio: Giacobbe rideva fra sè e sè; Bronlu aveva le orecchie rosse per l’ira.
— Che hai? una colica? — disse Giovanna.
— Può darsi che gli venga più tardi! — esclamò Giacobbe.
Brontu mosse le labbra, ma non riuscì a dir parola, e l’ira gli passò come era venuta, senza ragione.
— Ecco, ti voglio con me... — balbettò, — oggi non ci siamo veduti per nulla... Cosa facevi da tua madre? Chi c’era?
— Nessuno, per l’anima mia! Chi vuoi che venga da noi? — diss’ella con pungente amarezza.
— Può venire San Costantino... aaa daarvi unaaa poesiaaa... — canterellò Giacobbe, con le labbra umide di bava. — Ah, tu non l’hai veduto, San Costantino? Ebbene, ecco come è pazzo Isidoro Pane: non la vuole... non la vuole... eeee...
— Zitto tu! — disse zia Martina — Ed intanto l’ovile rimane abbandonato! Così tu fai gli affari del padrone? Ah, razza maledetta! Ladroni! — Giacobbe si alzò, pallido, rigido: Giovanna ebbe paura che egli si gettasse contro la vecchia, e le si pose davanti.
Giacobbe tornò a sedersi, senza aprir bocca; ma aveva destato tale terrore in Giovanna, che essa rimase vicino alla suocera in alto di difesa.
Allora toccò a Brontu prendersela con la madre.
— Che modi son questi? Voi trattate la gente come... come... fossero bestie... tutti bestie... Oggi, oggi, sì, oggi era festa. E se colui s’è voluto ubriacare? Cosa ve ne importa?
— Io sono ubriaco di veleno! — disse Giacobbe.
— Sì, di veleno! E anch’io! — riprese Brontu. — Oramai sono stufo; sono stufo di madri, di mogli, di tutto, ecco. Io me ne vado, ecco. Vado a stare nel suo palazzo. Dopo tutto siamo parenti, e... e...
— E dillo dunque! — urlò Giacobbe, — Tu conti sulla mia eredità! Ah! Ah! Eh! Oh!
Ricominciò a ridere, un riso urlante, per dir così, che destava orrore. Ed anche Brontu si mise a ridere; e voleva imitare il servo ma il suo sghignazzare pareva l’urlo d’una bestia allegra nel mese di maggio.
Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che si rivoltava ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.
Zia Marina s’alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò la cena.
Cenarono tutti assieme, e per un po’ stettero tranquilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva veduto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva; poi volle accarezzare la moglie.
Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa passava più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s’era neppure cambiata di vesti; e nel solo momento che s’era permessa di recarsi dalla madre, l’avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.
Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch’era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu.
— Perchè ridi, cane rognoso?
— Potrei risponderti che la tua rogna è molto ma molto peggiore della mia. Però... però... voglio dirti che rido... ecco... rido perchè ne ho voglia.
— Allora rido anch’io.
— Castigati!1 — disse Giovanna con disprezzo. — Fate schifo.
Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.
— Che hai? — domandò con voce sorda. — Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?
Giovanna diventò livida.
— Perchè? — disse con voce sibilante: — non basta che io sia la serva qui?
— Sì, la serva. Resta dunque la serva. Che vuoi altro, femmina?
Gli occhi obliqui di Giacobbe scintillavano. Giovanna si alzò, e dritta, livida, tragica, vuotò tutto il veleno che aveva nell’anima: insultò il marito e la suocera: li chiamò aguzzini, minacciò di andarsene, di ammazzarsi; maledisse l’ora in cui era entrata in quella casa, urlò rivelando il debito verso la sorella di Giacobbe.
Allora il servo ricominciò a ridere fra sè e sè, mormorando paroline di comico rimprovero contro la sorella: d’un tratto però tacque, cupo in viso: vedeva la figura nera di zia Bachisia apparire nel vano della porta.
Zia Bachisia aveva sentito la figlia urlare nel silenzio della notte serena, ed era venuta.
— Ecco, — disse zia Martina, perfettamente calma, — vostra figlia diventa matta, a quanto pare.
Brontu, rientrato in sè, annaspava l’aria e faceva cenni alla suorera perchè si avanzasse e calmasse Giovanna; e zia Bachisia sì avanzò; ma ecco Giacobbe saltar in piedi, tutto d’un pezzo, col viso contratto come una maschera d’odio.
— Via di qui! — gridò puntando l’indice verso la porta.
— Sei tu il padrone? — chiese zia Bachisia, non senza ironia.
— Via di qui! — egli ripetè, e poichè zia Bachisia s’avanzava, le corse addosso.
Ella scappò: il servo uscì nel portico e sedette al posto di zia Martina, e volle ridere ancora; ma, cosa strana, invece di ridere si mise a piangere: un pianto convulso, senza lagrime.
Note
- ↑ Scemi.