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Giovanna vagliava e mondava il grano sempre più lentamente; si sentiva stanca, aveva fame ma non di vivande, aveva sete ma non d’acqua; provava un bisogno fisico inesprimibile di qualche cosa d’introvabile.
Finito il suo lavoro si alzò e scosse le vesti, si chinò e cominciò a rimettere il grano dal canestro nella corba.
Lascia, lascia, — disse premurosamente zia Martina — ti farà male.
E non le permise neppure di portare il grano alla macina (una mola, girata da un asinello, che macinava un ettolitro di grano ogni quattro giorni), ma ci andò lei: rimasta sola Giovanna entrò nella cucina, si guardò attorno, frugò qua e là: nulla, nulla, non frutta, non vino, non un sorso di liquore che potesse saziare la brama inesprimibile che la tormentava. C’era solo un po’ di caffè ed ella lo scaldò mettendovi dentro un pezzetto di zucchero che teneva in saccoccia: poi ricoprì con cura il fuoco.
Ma quel po’ di bevanda calda parve aumentarle la sete: ed ella avrebbe voluto bere un liquore fresco e dolce, che non aveva bevuto mai, che non berrebbe mai. Un’ira sorda e muta la prese; i suoi occhi si animarono. Andò verso l’uscio della dispensa e lo scosse, sebbene lo sapesse chiuso a chiave, e con le labbra un po’ livide mormorò un’imprecazione.
Poi uscì, così scalza come era, attraversò lo spiazzo a passi silenziosi, chiamò la madre.
— Vieni — disse zia Bachisia dall’interno della cucina.