Naufraghi in porto/Capitolo VII
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VII.
Ritornò l’estate.
— Come passa presto il tempo, — diceva zia Martina, filando sotto il portico. — Pare ieri che tu, Giacobbe, sei entrato al nostro servizio, ed eccoti lì che ritorni per rifare il contratto. Ah, come passa il tempo per noi poveri padroni! Tu hai messo da parte trenta scudi d’argento e cominci a fabbricarti una casa. Ed a noi che resta?
— Che una palla vi trapassi il fuso! Sapete parlar bene, voi. E il mio sudore, uccellino di primavera, il mio sudore conta niente? — rispose il servo, che ungeva col sevo una corda di cuojo.
— E ciò che mangi non lo conti? Ah, ciò tu non lo conti?
— Che vi mangino i corvi! — pensò Giacobbe, e avrebbe voluto imprecare ad alta voce, ma non osò. Odiava i padroni, la vecchia avara e il giovine collerico, che lo tormentava sempre col suo progetto di sposar Giovanna se essa faceva divorzio, — ma gli premeva di rinnovare il contratto e taceva.
Unta ben bene la corda, la attorcigliò, la appese in cucina, e domandò alla vecchia il permesso di recarsi a sbrigare un suo affaruccio.
— Va pure — ella disse a malincuore.
Mentre scendeva verso la casetta delle Era, il servo vide il piccolo Malthineddu che cavalcava un cavalluccio di canna, tutto tentennante nel suo guarnellino bianco sporco, con le gambe e le braccine ignude, dorate dal sole. Il servo si chinò, aprì le braccia e chiuse la strada al bambino.
— Dove andiamo? C’è il sole, non vedi? Ahi, ahi, viene Maria Petténa col suo pettine di fuoco, per rapirti e portarti dall’orco. Torna a casa.
— Nooo, noooo! — strillò il bambino, dibattendosi sulla sua cavalcatura.
— Ebbene, uccellino di primavera, — disse allora Giacobbe, abbassando la voce e con un occhio socchiuso accennando verso il portico. — Là c’è zia Malthina che per non mangiar pane mangia i bambini. La vedi?
Il piccino parve convinto, e si lasciò ricondurre a casa, ma ostinandosi a camminare sul suo cavallo di canna.
Giovanna cuciva dietro la porta: era grassa, rosea, fresca, come se niente di doloroso le fosse mai accaduto. I capelli lucenti e ondulati le bendavano la fronte graziosa. Nel veder Giacobbe col bimbo alzò la testa e sorrise.
— Eccolo, — disse il servo, — ve lo riconduco. Egli stava al sole, andava verso zia Malthina che per non mangiar pane mangia bambini.
— Eh, via! — disse Giovanna. — Non si dicono queste cose ai bambini.
— Ma io le dico anche ai grandi. Perchè zia Malthina mangia anche i grandi. Badate che non vi mangi, Giovanna Era, tanto più che sembrate una mela cotogna matura; ah! no, la mela cotogna è gialla, no, sembrate una, dico, una...
— Un fico d’india! — diss’ella, ridendo.
— E zia Bachisia? È da molto tempo che non avete notizie di Costantino?
Giovanna si fece seria, e disse con aria di mistero che non da molto aveva ricevuto notizie del condannato.
— E sapete dirmi se Isidoro Pane è in paese? Devo parlargli.
— È in paese, — ella disse, rimettendosi a cucire.
Giacobbe andò via pensieroso, scese per lo stradale e s’avviò alla casa, se così vogliamo chiamarla, di Isidoro Pane.
Isidoro che, bisogna dirlo in suo onore, pescava anche trote e anguille quando gli si presentava l’occasione, accomodava una rete seduto all’ombra della sua casa. Questa casa, un po’ discosta dalle altre, verso i campi, era una costruzione preistorica fatta di piccoli frammenti di schisto, e coperta di canne e di tegole sulle quali cresceva una vegetazione rugginosa.
Il sole calava, dopo un pomeriggio ardente; non si muoveva una foglia degli alberi polverosi immobili sul villaggio arso e deserto; l’altipiano giallo, solcato da rade ombre oblique, si assopiva nella luminosità sanguigna del tramonto, e le strane montagne, quasi pavonazze, le enormi sfingi rosse coperte di veli violacei, sorgevano sul cielo di un rosa ardente. Nel grande silenzio si sentiva un merlo fischiare in lontananza. Piante incolte di fichi dalle foglie dure quasi nere, una siepe di robinia selvatica, alla quale s’intrecciavano alte ortiche pelose e juscujami dalle foglie biancastre, circondavano la casa del pescatore; dalla porta, ove egli stava seduto, si vedeva uno sfondo di orizzonte lontano, solitario e vaporoso come il mare. Un forte odore di stoppia e di asfodelo secco invadeva l’aria: sterpi, paglia, foglie secche coprivano il suolo, talchè Giacobbe potè avvicinarsi silenziosamente, senza che Isidoro sollevasse la testa dal suo lavoro.
— Cosa facciamo? — gridò. L’altro sollevò gli occhi, guardò con curiosità il servo, ma non rispose.
Giacobbe gli si sedette accanto, per terra, a gambe incrociate, e cominciò a guardare la rete che il pescatore ricuciva con un grosso ago un po’ arrugginito.
— In mia coscienza, — disse ridendo, — qui i pesciolini entreranno ed usciranno a loro piacere.
— Lasciali entrare ed uscire a loro piacere, uccellino di primavera, — rispose Isidoro, imitando il modo di dire di Giacobbe. — Perchè stai in paese? Sei fuori di servizio?
— Ohibò! Ho ripreso servizio presso quei vampiri dei miei ricchi parenti. Ho da parlarvi di cose serie, zio Sidore; ma prima, ditemi, come vanno le vostre gambe? È da molto tempo che non v’è apparso San Costantino in riva al fiume?
Il vecchio aggrottò le sopracciglia, perchè non amava si parlasse con irriverenza delle cose sacre, e disse a voce bassa:
— Se sei venuto solo per questo, puoi bravamente andartene.
— Ebbene, non offendetevi. Ecco vi dirò adesso perchè son venuto: sì, è un affare importante. Del resto, se sto diventando pagano lo devo al piccolo padrone che parla male dei santi. Salvo poi ad aver paura in punto di morte. Ah, sentite, l’altra notte abbiamo veduto una stella muoversi, calar giù per il cielo, dritta come un fuso d’oro, con una lunga coda: parve scendere sulla terra. E Brontu si gettò faccia a terra gridando: «Se questa è la nostra ultima notte, abbi misericordia di noi, Signore!». E rimaneva per terra. In verità, volevo dargli un calcio.
— E tu non avevi paura?
— Io no, uccellino di primavera! Ho veduto subito sparire la stella.
— Ah, ma appena l’hai veduta muoversi, di’ la verità, hai avuto paura?
— Ebbene, sì, andate al diavolo! Ecco, io sono venuto appunto per parlarvi del mio padrone. Se lui non è matto, nessuno al mondo è matto. Egli vuole che voi andiate da Giovanna Era per proporle di dividersi dal marito e di sposarsi con lui.
Isidoro lasciò di lavorare; un’ombra gli velò i buoni occhi sereni: intrecciò le mani, vi depose il mento e cominciò a scuotere il capo.
— E tu, — disse con voce sonora, tu non sei matto, che vieni a dirmelo? Ah, capisco, tu non vuoi perdere il tuo pane. Come sei vile!
— Ohè! gridò l’altro, fingendo di offendersi, — vi credete con le vostre sanguisughe?
— Ah, tu scherzi? Sarebbe tempo di finirla. Di’ al tuo padrone che sarebbe tempo di finirla. Tutto il paese sa la cosa e mormora.
— Ah, caro mio, siamo al principio soltanto e voi parlate di finirla? Io ne ho le tasche piene: giorno e notte non fa altro che parlarmi di questo, quel barile d’acquavite! Gli ho dovuto promettere di venir da voi, ed ecco che vengo, ma non certo per favorirlo. Una sola persona può far tacere questo scandalo: Giovanna. Andate, ditele che faccia tacere quel cane appestato; io non ne posso più.
Isidoro lo guardava fisso, con occhi velati, ma pareva non ascoltarlo; poi si rimise al lavoro e cominciò a mormorare:
— Povero Costantino, povero agnello, che hanno fatto di te?
— Sì, egli è innocente, — disse Giobbe, — e da un giorno all’altro può tornare. Bisogna impedire quella cosa ideata da Brontu. Ah, c’è zia Bachisia che è pronta come un avvoltoio sulla preda.
— Povero Costantino, povero agnello, cosa hanno fatto di te? — continuava l’altro, senza dare ascolto a Giacobbe.
Allora il servo s’adirò: la sua voce risonò aspra in quel gran silenzio rosso, nella solitudine protetta dai fichi e dalle siepi selvatiche.
— Gli hanno fatto un corno! Perchè non mi date ascolto, vecchia immondezza? Bisogna andar là, subito. La giovine è allegra, è rossa, e alla prima proposta cade come una mela matura; ma non è cattiva di cuore e se voi la predisponete bene, se le fate intendere il suo dovere, forse si eviterà il guaio. Andate; andate alla forca! muovetevi, fate miracoli se è vero che siete un santo come dicono gli scimuniti.
— Ah! Ah! Ah! — esclamò tre volte il vecchio, e si alzò in piedi. La sua alta figura, coperta di stracci eppure maestosa, si delineò nell’aria rossa, in quello sfondo di piante selvatiche, di orizzonte solitario, come quella d’un vecchio eremita.
— Andrò, andrò! — disse sospirando. E Giacobbe si sentì cadere un peso dal cuore.
Allora i due uomini cominciarono la loro opera misericordiosa verso il condannato lontano; ma avevano da lottare contro tre forze unite e attive e contro la passività di Giovanna. Le tre forze erano: la passione bruta di Brontu, l’avidità di zia Bachisia, il calcolo di zia Martina. Poichè zia Martina non vedeva di malocchio il progetto del figlio: Giovanna era povera, ma sana, frugale, senza pretese, e lavorava come una bestia; una donna benestante avrebbe recato il disordine e la dissipazione in casa, e le nozze avrebbero portato ingenti spese, mentre Giovanna la si sposava quasi segretamente e veniva in casa come una schiava gratis.
Il tempo continuò la sua corsa, sul villaggio di schisto, sulle montagne desolate, sull’altipiano giallo come un deserto: e venne l’autunno, a giorni tiepido e melanconico, quando il mare fumava all’orizzonte e le nuvole gonfie e scure come enormi ragni passavano sul cielo latteo tessendo sottilissimi veli grigi; a giorni lucido, diafano e freddo.
In quelle sere, quando sul cristallo del cielo splendevano le nuvole violette e il vento portava il profumo dei timi bruciati dai contadini che dissodavano la brughiera per seminare il frumento, Brontu beveva lunghi sorsi d’acquavite per riscaldarsi; e si coricava in fondo alla capanna, e sognava, tutto caldo e beato come un gatto. Fuori, intorno alla capanna, per distese grandissime, le tancas dei Dejas ondulavano deserte al lucido crepuscolo; fra l’oro bruno delle stoppie scoppiava la terra gonfiata dalle pioggie autunnali, e l’erba chiara e i violacei fiori d’autunno esalavano un odore di fungo. Stormi di grandi corvi d’un nero metallico, frusciavano volando dai cespugli di assenzio che sembravano cumuli di cenere ai boschetti di cisto e alle macchie di corbezzoli dalle foglie lucenti e dalle bacche di oro pallido.
In una delle tancas i contadini, servi dei Dejas, incendiavano le macchie, dissodando la terra per seminare l’orzo ed il frumento; le fiamme crepitavano, spinte dal vento, ancor pallide nella luce, diafane come di vetro giallo; il fumo svaniva, basso e chiaro, carico di odori come fumo d’incenso. Le siepi delle mandrie, secche e spinose, si disegnavano come un ricamo violaceo nell’aria argentea; le greggie s’erano ritirate, e solo qualche cavallo, scuro, col muso a terra, pascolava ancora. Si sentiva la voce di Giacobbe dietro la capanna, qualche tintinnìo di campanaccio, l’urlo rauco e lontano di un cane, il grido rauco e lontano di un corvo.
Nella capanna, disteso come un beduino su pelli e pannilani caldi, Brontu seguiva il suo invincibile sogno: il liquore ardente gli bolliva entro il petto, inondandogli il cuore d’una dolcezza calda e profonda.
Ah, come l’acquavite piaceva al giovane proprietario! Gli piaceva, più che per il sapore acuto e l’odore selvaggio, per la dolcezza che, dopo bevuta, gli infondeva nel cuore. Guai però a molestarlo in quei momenti: la dolcezza si cambiava in umor verde e amaro come il fiele: non sapeva perchè, ma gli sembrava che i cani, allorquando si pesta loro la coda mentre dormono, debbano provare ciò ch’egli provava se lo molestavano nelle ore di ebbrezza. E si arrabbiava e non ci vedeva più.
Ah, sì, l’acquavite gli piaceva molto; ed anche il vino gli piaceva, ma non come l’acquavite. Anche suo padre aveva amato l’ardente liquore: tanto che una volta, dopo averne bevuto una discreta quantità, era caduto sul fuoco, in modo tale, Dio ne liberi, che per le bruciature era morto. Basta, lasciamo questi pensieri melanconici; adesso si è più avveduti e non si cade nel fuoco. Eppoi Brontu, per equilibrarsi, aveva anche l’altra passione per Giovanna. Ah, l’acquavite e Giovanna! Le cose più belle, più ardenti, più inebrianti del mondo. Però Brontu Dejas era timido con Giovanna quanto era ardito con l’acquavite; tremava al solo pensiero di avvicinarla, di parlarle. Nei giorni in cui sapeva che ella lavorava presso zia Martina, spasimava dal desiderio di tornare in paese, di vederla in casa sua, di guardarla; eppure non osava muoversi dalla tanca. Ma il tempo passava, ed egli si sentiva divorato dall’attesa e da una inquietudine profonda; aveva paura che Giovanna, s’egli tardava ancora, lo rifiutasse un’altra volta. Egli voleva dimostrarle la sua premura, dirle che per confortarla avrebbe voluto sposarla subito, appena condannato Costantino. Infine, egli pensava un po’ diversamente dagli altri; ma era fatto così e non poteva cambiarsi. In fondo aveva un ottimo cuore, come tutti gli ubriaconi, ed era di costumi onesti; sua unica passione, dopo quella per i liquori, fin dall’adolescenza, quando la sua famiglia era venuta ad abitare nella casa nuova, Giovanna. Allora aveva quindici anni, Giovanna; era d’una bellezza e d’una freschezza ammirabili. Ogni volta che la vedeva, Brontu arrossiva fin sulle mani, ed ella se ne accorgeva e non si offendeva; ma egli taceva sempre, e quando finalmente s’era deciso a mandar la madre dalla madre di Giovanna, il posto era preso. In quei tempi Giovanna, fiera ed ardente come una puledra, non sapeva il valore del denaro, e come avrebbe sposato Brontu Dejas soltanto per i suoi bei denti, non avrebbe tradito Costantino neppure per il Vicerè, se in Sardegna vi fosse stato ancora.
Il crepuscolo si addensava. Il cielo diventava sempre più cristallino, e le nuvole prendevano un color lividognolo, lunghe e squamose come pesci. Le voci degli animali e delle cose si facevano più intense nel grave silenzio dell’ora; ed a Brontu parve di sognare, nel sentire una sera in quel luogo e a quell’ora, la voce di zia Bachisia.
— Santu Iuanne Battista meu, — esclamava la voce, rude e dolente nello stesso tempo. — Se non mi sbaglio tu sei Giacobbe Dejas?
— Per servirvi, — tonò alquanto meravigliata la voce del servo. — Chi vi ha fatto piovere da queste parti, uccellino di primavera?
— Ah! Ah! Finalmente! Dove è Brontu Dejas?
Brontu balzò fuori dalla capanna: gli tremavan le gambe, la testa gli girava; e vide come attraverso un velo la figura nera di zia Bachisia, con le scarpe in mano e un involto sul capo.
— Zia Bachisia, — cominciò a chiamare, turbato; — sono qui, venite qui, venite, buona sera.
Ella gli si precipitò quasi addosso, seguita premurosamente dal servo.
— Ah, Brontu Dejas, caro figliuolo, se non sono morta stasera non muoio più. Son tre ore che cammino. Mi sono smarrita. Ho bisogno di parlarti, abbi pazienza.
Altro che pazienza! Egli era commosso fino alle lagrime; la prese per mano, la condusse dentro la capanna. Giacobbe capì che non poteva prender parte al colloquio e ritornò dietro la capanna, tendendo le orecchie, aggirandosi intorno a sè stesso come una belva rinchiusa.
Non sentì nulla. D’altronde il colloquio fu breve e zia Bachisia non volle neppure sedersi.
Diceva di essersi smarrita, in cerca dell’ovile di Brontu, e che Giovanna, alla quale aveva detto di andare a cogliere erbe mangerecce, doveva aspettarla ansiosamente. Pur troppo, sì, erano costrette a vivere di erbe, tanto la povertà le stringeva: e zia Bachisia veniva per chiedere a Brontu denari in prestito. Sì, Dio sia lodato, in prestito. Se non potevano restituirglieli, lei e Giovanna avrebbero lavorato per conto dei Dejas fino a scontare il debito. Erano più mesi che non pagavano il fitto di casa, della casa loro, e l’avvocato minacciava di sfrattarle.
— Dove andremo noi, Brontu Dejas, — diceva zia Bachisia, giungendo le mani adunche e gialle, — pensa dove andremo noi, Brontu, anima mia!
Brontu si sentiva tremare il petto; avrebbe voluto abbracciare la vecchia e gridarle: — verrete a casa mia! — ma non osava.
Egli non aveva denari con sè, ma decise di ritornare subito in paese, tanto più che voleva accompagnare la vecchia; e uscito fuori gridò a Giacobbe di sellare il cavallo.
— Che è accaduto? — domandò il servo. — È morta tua madre, Dio l’abbia in gloria?
— No, — rispose Brontu, senza arrabbiarsi, — non è accaduto nulla che t’importi.
Giacobbe cominciò a sellare il cavallo, mentre smaniava dalla curiosità di sapere perchè zia Bachisia era venuta e perchè Brontu tornava in paese. — Che ella voglia del denaro? Egli non ne ha, qui e ritorna per procurarselo.
— Senti, Brontu? — chiamò, e quando l’altro gli fu vicino disse:
— Se quella donna vuole del denaro e tu non ne hai, te lo dò io...
— Sì, ella vuole in prestito del denaro, — rispose Brontu a voce bassa, tutto allegro. — Ma io ritorno, e se anche ne avessi qui, ritornerei lo stesso, perchè stasera posso veder Giovanna, posso entrare in casa sua. Voglio parlare finalmente. Farò da me ciò che voi asini non avete saputo fare.
— Uomo! — esclamò Giacobbe, irritato, — tu diventi pazzo!
— Ebbene, lasciami diventar pazzo. Ecco, stringi quella cinghia. Ah, tu gonfi la pancia, cavallino, — disse poi, rivolto al cavallo; — non ti va un viaggio di sera? Che dirai quando la vecchia starà in groppa?
— Anche questo? — gridò Giacobbe.
— Anche questo, sì, che t’importa? Non è mia suocera?
— Tu corri troppo, in verità: bada di non romperti il collo, uccellino di primavera... Ah! Ah! Ah! Tu vuoi davvero far sul serio? — cominciò a borbottare il servo. — Tu vuoi sposare quella pezzente, quella donna maritata? Tu che potevi sposare un fiore? E Costantino Ledda è innocente. Ah, ma egli tornerà, ti dico io che tornerà.
— Lasciami tranquillo, Giacobbe. Pensa ai fatti tuoi. Metti una bisaccia sulla groppa. Zia Bachisia?
Giacobbe corse dentro la capanna, e urtò nella donna che veniva fuori.
— Vergognatevi! — le disse egli, tremante. — Siete peggio d’una pezzente! Ah, parlerò io con Giovanna, parlerò io...
— Tu sei pazzo, — rispose zia Bachisia, e poi pronunziò a bassa voce una turpe insolenza. E uscì fuori.
Poco dopo lei e Brontu partirono. Giacobbe li vide allontanarsi nella tanca solitaria, via via pel sottile sentiero, dietro i cespugli, dietro il fumo della brughiera incendiata. Preso da un impeto di rabbia impotente si strappò dal capo la berretta e la buttò lontano, poi andò a riprenderla, poi bastonò il cane, che cominciò a guaire lamentosamente, riempiendo di angoscia il silenzio della sera. L’eco ripeteva quel lamento che sembrava il pianto di un fantasma disperato.
Giacobbe andò a coricarsi sul giaciglio poco prima lasciato da Brontu; sentì l’odore dell’acquavite, cercò il fiaschetto del padrone e bevette. Poi tornò a coricarsi, ed anche lui sentì qualche cosa bollirgli dentro il petto, inondargli il cuore, salirgli gorgogliando al capo, bruciargli le palpebre. L’ira gli cadde dal cuore, ma un sentimento di tristezza lo vinse. Dall’apertura della capanna vedeva il chiarore sanguigno delle macchie bruciate vincere gradatamente l’ultimo barlume azzurro del crepuscolo: fusi assieme i due chiarori assumevano una tinta violacea d’una indescrivibile tristezza. Il cane, di tanto in tanto, guaiva ancora. Ah, che dolore, che dolore! Perchè lui, Giacobbe, aveva bastonato il povero cane? Ne provava un rimorso tenero e inconcludente; un rimorso da ubriaco; e nello stesso tempo quel lamento lo irritava, e gli rinnovava il desiderio di bastonare ancora la povera bestia.
D’un tratto ripensò a Brontu e a zia Bachisia e trasalì. Che sarebbe accaduto quella sera? Avrebbe Giovanna dato il suo consentimento? Ah! Ah! Ah! Uccellino di primavera! Perchè quel cane guaiva ancora? Pareva la voce di un morto. La voce di zio Basilio Ledda, del vecchio avvoltoio assassinato. Ah, uccellino di primavera! I morti non parlano più. Quello era l’urlo d’un cane, null’altro che l’urlo d’un cane.
Egli rise piano piano, fra sè, cominciando ad addormentarsi; le palpebre pesanti gli si chiusero, gli occhi non videro più quello sfondo violaceo e opaco che gravava come una tenda sull’apertura della capanna. Gli parve che un sacco colmo d’una materia molle ma pesante gli cadesse addosso; non poteva più muoversi, ma quell’immobilità aveva un non so che di dolce e di gradevole. Poi cominciò a far mille sogni confusi: fra le altre cose sognò di esser morto a causa d’un morso di vipera, e la sua anima era entrata nel corpo d’un cane e questo cane, piccolo, scarno, giallo, s’aggirava nella cucina di zia Bachisia in cerca di qualche osso. Costantino sedeva accanto al focolare; era vestito di rosso, con una grande catena ai piedi: quando vide il cane gli lanciò la catena; la testa dell’animale rimase presa, cerchiata stretta da un anello di ferro, e Giacobbe pieno di terrore, si sforzò di parlare per farsi riconoscere. Si svegliò sudato, gridando:
— Uccellino di primavera!
Era notte alta. La tanca deserta, sotto il limpido cielo pieno di grandi stelle gialle, rosseggiava tutta nel chiarore delle macchie incendiate.
Giacobbe stette a lungo senza riprender sonno, voltandosi e rivoltandosi: la sbornia gli era passata lasciandogli la bocca salata e arida. Si alzò e bevette; poi ricordò che la sera prima non aveva mangiato e stette a lungo pensieroso sull’apertura della capanna, col viso illuminato dal chiarore dell’incendio.
— Devo mangiare? — si domandava senza accorgersi della sua domanda. Guardò le stelle. Era vicina la mezzanotte. Che cosa aveva concluso quella piccola bestia del padrone? Giacobbe fu ripreso da un impeto d’ira, sopra tutto contro zia Bachisia che era impudentemente arrivata fin lì per sollecitare il pazzo progetto del giovane proprietario. Poichè, si capiva bene, il prestito non era che una scusa della vecchia arpia per attirare Brontu, per deciderlo e convincerlo. Ah, era odiosa quella donna. Non aveva coscienza? Non credeva in Dio? A queste domande Giacobbe Dejas si rifece pensieroso: poi tornò a coricarsi domandandosi se aveva fame e se doveva mangiare.
No. Non aveva fame, nè sete, nè sonno. Non poteva trovar pace nè coricato, nè seduto, nè in piedi; e per distrarsi alquanto cominciò a sbadigliare forzatamente ed a parlare a voce alta dicendo cose inconcludenti. Pensava però ostinatamente a quella cosa. Era orribile, orribile! E si sarebbe poi trovato il sacerdote così poco coscienzoso da sposare una donna già sposata? Tutto si può, col denaro!... E se Costantino tornava? Chi sa: tutto nel mondo è possibile. E anche se il condannato non tornava, ebbene, e il figlio? che avrebbe detto il figlio, giunto all’età della ragione nel sapere che la madre aveva due mariti? È vero che i giornali annunziavano prossima la legge sul divorzio; ma che importano i giornali e la legge davanti a Dio e alla propria coscienza?
Giacobbe tornò ad alzarsi, riprese il fiaschetta dell’acquavite.
— Se Brontu domanda, chi ha bevuto l’acquavite, peggio per lui, gli dirò che l’hanno bevuta i topi. Ah! Oh! Ah!
Rise, bevette, tornò a coricarsi. Si riaddormentò e sognò di trovarsi presso una sua sorella, alla quale raccontava il sogno del cane, di Costantino, della catena.
Si svegliò che il sole era già apparso sul confine dell’altipiano, dietro una linea di vapori azzurrognoli. Il mattino era un po’ freddo e velato; le macchie, i cespugli, le stoppie, le erbe tenere e chiare scintillavano di rugiada ai raggi obliqui del sole; gli uccelli frusciavano e cantavano fra i cespugli; ed era un sussurro così intenso che sembrava uno scroscio cristallino di pioggia: qualche fischio acuto, qualche strido rauco di corvo risonava sullo sfondo di quel coro tremulo e metallico come un velo d’argento; poi tutto svaniva nell’intenso silenzio del piano.
Giacobbe uscì, stiracchiandosi e sbadigliando. Sbadigliava talmente che le sue mascelle scricchiolavano; tutto il suo viso nudo si raggrinziva intorno al cerchio della bocca spalancata, e gli occhietti obliqui, gialli al sole, lagrimavano come quelli d’un cane.
— Ebbene, — pensò, stringendosi le mani sullo stomaco, — mi sento dei crampi qui: che ho fatto iersera?
Andò e aprì le mandrie: l’ariete dalle corna ritorte uscì fiutando il suolo, e un gruppo giallognolo di pecore lo seguì, incalzandosi e fiutando il suolo. Altri gruppi seguirono; le mandrie si vuotarono, ma Giacobbe restò immobile e pensieroso accanto alla siepe.
— Sì, iersera non ho mangiato. Ho bevuto l’acquavite del padrone ed ho sognato. Ah, sì! sì! Costantino, il cane, mia sorella Annarosa. Ebbene, che egli sia dannato, perchè non torna, il piccolo rospo? — pensò scuotendosi. — Mi sono ubriacato come una bestia. L’uomo ubriaco, — pensò poi, ritornando verso la capanna, — è come una bestia; non si accorge più di nulla, dice a voce alta i suoi pensieri. Ciò è dannoso, Giacobbe Dejas, cocuzzolo pelato, mettitelo bene in mente. Ah no, no, non berrò mai più, che il Signore mi castighi.
Poco dopo ritornò il padrone: Giacobbe lo guardò fisso e sorrise. — Ah, — disse andandogli premurosamente incontro. — Tu hai una ciera da uomo bastonato. Cosa ti è accaduto, uccellino di primavera?
— Niente. Levati di lì.
Ma il servo non l’intendeva così; e cominciò ad aggirarsi attorno a Brontu, carezzevole come un cane, chiedendo, insistendo per sapere. E il padrone si sfogò, tanto più che ne aveva bisogno. Ebbene, sì, Giovanna lo aveva scacciato come si scaccia un pezzente molesto; gli aveva chiesto se non sapeva che ella aveva un figlio il quale un giorno poteva sputarle in viso domandando: «Perchè hai due mariti?».
— Anima mia, lo sapevo! — gridò Giacobbe trasalendo di gioia.
— Che sapevi tu?
— Che Giovanna ha un figlio.
— E questo lo sapevo anch’io, Ecco, ella mi ha scacciato, ecco tutto. Dalla strada ho sentito madre e figlia litigare acerbamente.
Dopo di che Brontu cercò il suo fiasco di acquavite. Giacobbe si sentiva allegro, aveva voglia di ridere.
— Ecco, — disse, — stanotte i sorci hanno bevuto la tua acquavite: ah! ah! ah! Ma ce ne deve essere ancora. Ce n’è ancora.
Brontu bevette avidamente, senza rispondere; poi buttò irosamente il fiasco contro il servo, che lo prese a volo. E come Brontu aveva bevuto per dolore, Giacobbe bevette per gioia.