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faceva divorzio, — ma gli premeva di rinnovare il contratto e taceva.

Unta ben bene la corda, la attorcigliò, la appese in cucina, e domandò alla vecchia il permesso di recarsi a sbrigare un suo affaruccio.

— Va pure — ella disse a malincuore.

Mentre scendeva verso la casetta delle Era, il servo vide il piccolo Malthineddu che cavalcava un cavalluccio di canna, tutto tentennante nel suo guarnellino bianco sporco, con le gambe e le braccine ignude, dorate dal sole. Il servo si chinò, aprì le braccia e chiuse la strada al bambino.

— Dove andiamo? C’è il sole, non vedi? Ahi, ahi, viene Maria Petténa col suo pettine di fuoco, per rapirti e portarti dall’orco. Torna a casa.

— Nooo, noooo! — strillò il bambino, dibattendosi sulla sua cavalcatura.

— Ebbene, uccellino di primavera, — disse allora Giacobbe, abbassando la voce e con un occhio socchiuso accennando verso il portico. — Là c’è zia Malthina che per non mangiar pane mangia i bambini. La vedi?

Il piccino parve convinto, e si lasciò ricondurre a casa, ma ostinandosi a camminare sul suo cavallo di canna.

Giovanna cuciva dietro la porta: era grassa, rosea, fresca, come se niente di doloroso le fosse mai accaduto. I capelli lucenti e ondulati le bendavano la fronte graziosa. Nel veder Giacobbe col bimbo alzò la testa e sorrise.