Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 86 — |
come attraverso un velo la figura nera di zia Bachisia, con le scarpe in mano e un involto sul capo.
— Zia Bachisia, — cominciò a chiamare, turbato; — sono qui, venite qui, venite, buona sera.
Ella gli si precipitò quasi addosso, seguita premurosamente dal servo.
— Ah, Brontu Dejas, caro figliuolo, se non sono morta stasera non muoio più. Son tre ore che cammino. Mi sono smarrita. Ho bisogno di parlarti, abbi pazienza.
Altro che pazienza! Egli era commosso fino alle lagrime; la prese per mano, la condusse dentro la capanna. Giacobbe capì che non poteva prender parte al colloquio e ritornò dietro la capanna, tendendo le orecchie, aggirandosi intorno a sè stesso come una belva rinchiusa.
Non sentì nulla. D’altronde il colloquio fu breve e zia Bachisia non volle neppure sedersi.
Diceva di essersi smarrita, in cerca dell’ovile di Brontu, e che Giovanna, alla quale aveva detto di andare a cogliere erbe mangerecce, doveva aspettarla ansiosamente. Pur troppo, sì, erano costrette a vivere di erbe, tanto la povertà le stringeva: e zia Bachisia veniva per chiedere a Brontu denari in prestito. Sì, Dio sia lodato, in prestito. Se non potevano restituirglieli, lei e Giovanna avrebbero lavorato per conto dei Dejas fino a scontare il debito. Erano più mesi che non pagavano il fitto di casa, della casa loro, e l’avvocato minacciava di sfrattarle.
— Dove andremo noi, Brontu Dejas, — di-