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volando dai cespugli di assenzio che sembravano cumuli di cenere ai boschetti di cisto e alle macchie di corbezzoli dalle foglie lucenti e dalle bacche di oro pallido.

In una delle tancas i contadini, servi dei Dejas, incendiavano le macchie, dissodando la terra per seminare l’orzo ed il frumento; le fiamme crepitavano, spinte dal vento, ancor pallide nella luce, diafane come di vetro giallo; il fumo svaniva, basso e chiaro, carico di odori come fumo d’incenso. Le siepi delle mandrie, secche e spinose, si disegnavano come un ricamo violaceo nell’aria argentea; le greggie s’erano ritirate, e solo qualche cavallo, scuro, col muso a terra, pascolava ancora. Si sentiva la voce di Giacobbe dietro la capanna, qualche tintinnìo di campanaccio, l’urlo rauco e lontano di un cane, il grido rauco e lontano di un corvo.

Nella capanna, disteso come un beduino su pelli e pannilani caldi, Brontu seguiva il suo invincibile sogno: il liquore ardente gli bolliva entro il petto, inondandogli il cuore d’una dolcezza calda e profonda.

Ah, come l’acquavite piaceva al giovane proprietario! Gli piaceva, più che per il sapore acuto e l’odore selvaggio, per la dolcezza che, dopo bevuta, gli infondeva nel cuore. Guai però a molestarlo in quei momenti: la dolcezza si cambiava in umor verde e amaro come il fiele: non sapeva perchè, ma gli sembrava che i cani, allorquando si pesta loro la coda mentre dormono, debbano provare ciò ch’egli provava se