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Il sole calava, dopo un pomeriggio ardente; non si muoveva una foglia degli alberi polverosi immobili sul villaggio arso e deserto; l’altipiano giallo, solcato da rade ombre oblique, si assopiva nella luminosità sanguigna del tramonto, e le strane montagne, quasi pavonazze, le enormi sfingi rosse coperte di veli violacei, sorgevano sul cielo di un rosa ardente. Nel grande silenzio si sentiva un merlo fischiare in lontananza. Piante incolte di fichi dalle foglie dure quasi nere, una siepe di robinia selvatica, alla quale s’intrecciavano alte ortiche pelose e juscujami dalle foglie biancastre, circondavano la casa del pescatore; dalla porta, ove egli stava seduto, si vedeva uno sfondo di orizzonte lontano, solitario e vaporoso come il mare. Un forte odore di stoppia e di asfodelo secco invadeva l’aria: sterpi, paglia, foglie secche coprivano il suolo, talchè Giacobbe potè avvicinarsi silenziosamente, senza che Isidoro sollevasse la testa dal suo lavoro.

— Cosa facciamo? — gridò. L’altro sollevò gli occhi, guardò con curiosità il servo, ma non rispose.

Giacobbe gli si sedette accanto, per terra, a gambe incrociate, e cominciò a guardare la rete che il pescatore ricuciva con un grosso ago un po’ arrugginito.

— In mia coscienza, — disse ridendo, — qui i pesciolini entreranno ed usciranno a loro piacere.

— Lasciali entrare ed uscire a loro piacere, uccellino di primavera, — rispose Isidoro, imi-