Morgante maggiore/Canto quinto

Canto quinto

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Canto quarto Canto sesto
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CANTO QUINTO.




ARGOMENTO.

     Dal re Corbante fanno dipartenza
I tre confederati paladini,
E Ulivier con poca coscienza
Lascia che Forisena si tapini:
Da una finestra con piena avvertenza
Ella si getta agli ultimi destini,
Malagigi il caval toglie a Rinaldo,
Che manda ai morti un mostro per castaldo.


1 Pura colomba piena d’umiltade,
     In cui discese il nostro immenso Iddio
     A prender carne con umanitade,
     Giusto, santo, verace, eterno, e pio;
     Donami grazia, per la tua bontade,
     Ch’io possi seguitare il cantar mio,
     Pel tuo Joseffo, e Giovacchino, ed Anna,
     E per colui che nacque alla capanna.

2 Rinaldo, e ’l suo Dodone, e ’l gran marchese,
     Gran festa fanno co’ nuovi Cristiani:
     E battezzato è già tutto il paese
     Del re Corbante, e’ suo' primi Pagani:
     Ed Ulivier per la dama cortese
     Ognidì fa mille pensieri strani,
     Ed ora in torniamenti, ed ora in giostra,
     Per piacere a costei, gran forza mostra.

3 E benchè assai lo pregassi Rinaldo,
     Non si sapeva accomiatare ancora,
     Chè la donzella lo teneva saldo,
     Com' àncora la nave tien per prora:
     Quanto è più offeso il foco, è poi più caldo;
     Così più sempre Ulivier s’innamora,
     Quanto Rinaldo il partir più sollecita;
     Ed ogni scusa gli pareva lecita.

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4 Quando fingea non esser ben guarito,
     Quando fingea qualch’altra malattia:
     E dicea il ver, ch’egli è nel cor ferito;
     Quando pregava, quando promettia:
     Doman ci partirem, preso ho partito.
     Lasciam costor nel nome di Maria,
     Ed Ulivier così morire amando,
     E ritorniamo ov'io lasciai Orlando.

5 Meridiana la dama gentile
     Manda a saper, se volea la battaglia
     A corpo a corpo, con almo1 virile.
     Orlando dice: Io non vesto di maglia
     Per contestare2 una femmina vile,
     Ch’i’ prezzo men ch’un bisante3 o medaglia.
     Sicchè per questo, e pel suo Lionetto
     Troppo si duol costei di Macometto.

6 Dicendo: Almen facessimi morire,
     Poichè sprezzata son da quel villano;
     Chè mai più ebbe cavaliere ardire
     Combatter meco colla lancia in mano.
     Ma in questo tempo si facea sentire
     La fama del signor di Montalbano,
     Come Corbante avea seco un barone,
     Che si chiamava il guerrier del lione,

7 E ch’egli er’uom ch’avea molto potere,
     E come morto ha il serpente feroce.
     Meridiana a un suo messaggiere
     Impose, e disse, ch’andassi veloce
     Al re Corbante, e faccigli assapere,
     Come per tutto è vulgata la boce
     Di questo cavalier, ch'è tanto forte,
     Il qual con seco teneva in sua corte.

8 E come Manfredonio alla sua terra
     Ha posto il campo con crudele assedio,
     E tuttavia con sua gente la serra,
     E non ha ignun4 per tenerla più a tedio,
     Ch’a corpo a corpo con lei voglia guerra;
     Che gli dovessi mandar per rimedio
     Questo guerrier ch’avea tanta possanza,
     Per parentado antico ed amistanza;

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9 Però che già per tutto l’oriente
     La fama di costui molto sonava.
     Il messaggier n’andò subitamente,
     Al re Corbante si rappresentava.
     E spose la ’mbasciata saviamente;
     Per che Corbante a Rinaldo parlava,
     Come il re Carador quel messo manda,
     E la sua figlia a lui si raccomanda.

10 Se tu credessi da questo martoro
     Liberar la donzella, io ti conforto
     Dicea Corbante, andare a Caradoro;
     Però ch’io so che Manfredonio ha il torto,
     Ed ha menato tutto il concistoro;
     Forse, se fia da te punito e morto,
     Re Caradoro si battezzerae,
     Come ho fatt’io, e Cristo adorerae.

11 Rinaldo dall’abate prima intese,
     Che in quel paese avea mandato Orlando;
     Rispose, A Manfredon, molto cortese,
     La testa leverò con questo brando,
     O re Corbante; ch’a sì giuste imprese
     Sarò sempre disposto a tuo comando.
     Dicea Corbante: Caradoro è antico
     Parente nostro, e discreto all’amico.

12 Disse Rinaldo: Or rispondi al valletto,
     Che per amor di te ne son contento;
     Ed ho speranza, e così gli prometto,
     Di salvar la sua gente fuori e drento;
     E Manfredonio il campo a suo dispetto
     Leverà presto, e le bandiere al vento.
     Corbante il ringraziò benignamente
     Delle parole, che sì grate sente.

13 E poi si volse al messo saracino:
     Dirai, che volentier la impresa piglia,
     A Caradoro, questo paladino,
     E del suo ardir si farà maraviglia:
     Sia chi si vuol del popol d’Apollino,
     Ch’a nessun questo volgerà la briglia;
     Se fussi Orlando, quel ch’ha tanta fama,
     Nol temerebbe; così di alla dama.

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14 Vedi il lion che tuttavia l’aspetta:
     Non è baron, di cui nel mondo dotti;
     Vedi que’ due che son là di sua setta:
     Questi fanno assai fatti, e pochi motti.
     Il messaggier si dipartiva in fretta:
     Corbante disse, che voli, e non trotti;
     Tanto che presto tornò a Caradoro,
     E riferi come e’ vengon costoro.

15 E che parea quel guerrier del lione
     Un uom molto famoso in vista e forte,
     E d’Ulivier diceva e di Dodone:
     Non è baron, Caradoro, in tua corte
     Da metterlo con questi al paragone;
     Corbante dice che tu ti conforte,
     Perchè colui che si chiama il guerriere,
     Non temerebbe Orlando in sul destriere.

16 Rinaldo da Corbante accommiatossi,
     E molte offerte fece al re pagano,
     Che sempre sare’ suo, dovunque e’ fossi;
     Nè anco il re Corbante fu villano
     Alla risposta; e così si son mossi,
     E benedetti, e baciati la mano:
     Ed Ulivieri avea potuto appena
     Addio piangendo dire a Forisena.

17 La qual veggendo partire Ulivieri,
     Avea più volte con seco disposto
     Di seguitarlo, e fatti stran pensieri,
     Nè potè più il suo amor tener nascosto;
     E la condusse quel bendato arcieri,
     Per veder quanto Ulivier può discosto,
     A un balcone, e l’arco poi disserra,
     Tanto che questa si gittava a terra.

18 Il padre suo, che la novella sente,
     Corse a vederla, e giunse ch’era morta:
     Alla sua vita non fu si dolente:
     E intese ben quel che ’l suo caso importa,
     E come Amore è quel che lo consente;
     E se non fusse alcun che lo conforta,
     E chi la mano e chi ’l braccio gli piglia,
     Uccider si volea sopra la figlia.

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19 E dicea: Lasso, quanto fui contento
     Quel dì che morta l’aspra fera vidi,
     Ed or tanto dolor nel mio cor sento:
     E così vuogli, Amor, così mi guidi?
     Ogni dolcezza volta m’ha’ in tormento:
     O mondo, tu non vuoi che in te mi fidi:
     Lasciato m’hai, o misera fortuna,
     Afflitto vecchio e sanza speme alcuna.

20 Fece il sepulcro a modo de’ Cristiani,
     E missevi la bella Forisena,
     E lettere intagliò colle sue mani,
     Come fu liberata d’ogni pena
     Da tre baron di paesi lontani;
     E come a morte il suo distin la mena
     Pur finalmente, come piacque a Amore,
     Nel dipartirsi il suo caro amadore.

21 Non si può tor quel che ’l ciel pur destina:
     Il mondo col suo dolce ha sempre amaro;
     Questa fanciulla così peregrina
     Il troppo amare al fin gli costa caro.
     Ed Ulivier pe’ boschetti cammina,
     E non sa quel che gli sare’ discaro,
     E chiama Forisena notte e giorno.
     E in questo modo più di cavalcorno.

22 Un giorno in un crocicchio d’un burrone
     Hanno trovato un vecchio molto strano,
     Tutto smarrito, pien d’afflizione,
     Non parea bestia, e non pareva umano:
     Rinaldo gli venía compassione:
     Chi fia costui? fra sè diceva piano;
     Vedea la barba arruffata e canuta,
     Raccapricciossi, e dappresso il saluta.

23 E’ gli rispose facendo gran pianto,
     Per modo ch’a Rinaldo ne ’ncrescea:
     Per la bontà dello Spirito Santo,
     Abbi pietà della mia vita rea;
     Uscir di questo bosco non mi vanto,
     Se non m’aiuti (e del tristo facea5);
     Lasciami un poco in sul cavallo andare,
     Per quell’Iddio che ti può ristorare.

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24 Rinaldo disse: Molto volentieri,
     Chè tu mi par, vecchierel, mezzo morto;
     E subito si getta del destrieri,
     Perchè e’ vi monti, e pigliassi conforto.
     Intanto vien Dodone ed Ulivieri,
     Rinaldo dice questo fatto scorto.
     Disse Dodon: Tu se’ molto cortese;
     E del caval, per aiutarlo, scese.

25 Rinaldo tien Baiardo per la briglia,
     E Dodon piglia questo vecchio antico;
     Baiardo allor mostrò gran maraviglia,
     E ’l vecchio schiva come suo nimico:
     Rinaldo strette le redini piglia,
     E Dodon pure aiuta come amico:
     Baiardo allor più le redini scuote,
     Ed or col capo, or co’ calci percuote.

26 Ma poi che pur si lasciò cavalcare,
     Quel vecchierel, come e’ fussi una foglia
     Tenea la briglia, e faceval tremare;
     Poi correr lo facea contr’a sua voglia.
     Disse Rinaldo a Dodon: Che ti pare?
     Io dubito che mal non ce ne coglia:
     Il vecchio corre, e non mi pare or lasso,
     Chè non parea da dover ir un passo.

27 Dismonta, o Ulivier, di Vegliantino:
     Ulivieri scendeva da cavallo;
     Rinaldo drieto pigliava il cammino
     A questo vecchio, e comincia a sgridallo6:
     Aspetta, tu ti fuggi, can mastino,
     Sì che tu credi in tal modo ruballo;
     Ma nulla par che con quel vecchio avanzi,
     Che sempre più gli spariva dinanzi.

28 E Vegliantin sudava per l’affanno,
     E va pel bosco che pare uno strale:
     Disse Rinaldo: Vedrai bell’inganno,
     Chè questo vecchio par che metta l’ale;
     Io fu’ pur matto, ed arommene il danno;
     E chiama, e grida, ma poco gli vale:
     Colui correa come leopardo,
     Anzi più forte, s’egli avea Baiardo.

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29 Ma poi ch’egli ebbe a suo modo beffato
     Rinaldo, al fin se gli para davante,
     E ’n su ’n un passo del bosco ha aspettato:
     Vegliantin tanto mostrava le piante7,
     Che lo giugneva, e Rinaldo è infocato.
     Disse Malgigi: Che farai, brigante?
     Quando Rinaldo sentiva dir questo,
     Lo riconobbe alla favella presto.

30 E disse: Tu fai pur l’usanza antica;
     Tu m’hai fatto pensar di strane cose,
     E dato a Vegliantin molta fatica.
     Allor Malgigi in tal modo rispose:
     Tu non sa’ ancora, innanzi ch’io tel dica,
     Di questo testo, Rinaldo, le chiose.
     Dodone in questo e ’l marchese giugneano,
     E Malagigi lor riconosceano.

31 Gran festa fecion tutti a Malagigi,
     D’averlo in luogo trovato sì strano.
     Disse Malgigi: Io parti’ da Parigi,
     E feci l’arte un giorno a Montalbano;
     Volli saper tutti i vostri vestigi;
     Vidi stavate in paese lontano,
     E che portato avete assai periglio,
     E bisognava e aiuto e consiglio.

32 Per questa selva, ove condotti siete,
     Non trovereste da mangiar nè bere,
     E senza me campati non sarete;
     Di questa barba vi conviene avere,
     Che vi torrà e la fame e la sete;
     Vuolsene in bocca alle volte tenere.
     E dette loro un’erba, e disse: Questa
     Usate insino al fin della foresta.

33 Mangiaron tutti quanti volentieri
     Dell’erba che Malgigi aveva detto,
     E missonne poi in bocca anco a’ destrieri,
     Ch’era ciascun dalla sete costretto.
     Disse Malgigi: Per questi sentieri
     Serbatene, vi dico, per rispetto;
     E destrier sempre troveran dell’erba,
     Ma questa per la sete si riserba.

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34 Non vi bisogna d’altro dubitare:
     Con Manfredonio è il roman senatore8
     Orlando, e presto il potrete trovare.
     E dette molte cose, un corridore
     Subito fece per arte formare:
     Tanto ch’ognun gli veniva terrore,
     Chè mentre ragionare altro volieno,
     Apparì quivi bianco un palafreno.

35 Disse Malgigi: Caro mio fratello,
     To’ti9 Baiardo tuo, ch’io son fornito.
     Rinaldo guarda quel caval sì bello,
     E dicea: Questo fatto come è ito?
     Malgigi presto montò sopra quello,
     E fu da lor come strale sparito:
     A tutti prima toccava la mano,
     E ritornò in tre giorni a Montalbano.

36 Dumila miglia al nostro modo o piue
     Era da Montalban, si truova scritto,
     Dal luogo dove accomiatato fue
     Rinaldo, e’l suo fratel lasciava afflitto,
     E molte volte ha chiamato Gesue,
     Che lo conduca per sentier diritto:
     E già sei giorni cavalcato avia
     Drieto al lion che mostra lor la via.

37 Il sesto dì questo baron gagliardo
     In uno oscuro bosco è capitato,
     Sente in un punto fermarsi Baiardo;
     Vede il lion che ’l pelo avea arricciato,
     E che faceva molto fiero sguardo,
     E Vegliantin parea tutto adombrato:
     Il caval di Dodon volea fuggire,
     E raspa, e soffia, e comincia a nitrire.

38 Disse Rinaldo: O Dio, che sarà questo?
     Questi cavalli han veduta qualch’ombra.
     Intanto un gran romor si sente presto,
     Che le lor menti di paura ingombra;
     Ecco apparire un uom molto foresto10,
     Correndo, e ’l bosco attraversava, e sgombra:
     E fece a tutti una vecchia paura11,
     Chè mai si vide più sozza figura.

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39 Egli avea il capo, che parea d’un orso,
     Piloso e fiero; e’ denti come zanne,
     Da spiccar netto d’ogni pietra un morso;
     La lingua tutta scagliosa, e le canne;
     Un occhio avea nel petto a mezzo il torso
     Ch’era di fuoco, e largo ben due spanne;
     La barba tutta arricciata e’ capegli:
     Gli orecchi parean d’asino a vedegli12.

40 Le braccia lunghe setolute e strane,
     E ’l petto e ’l corpo piloso era tutto;
     Avea gli unghion ne’ piedi e nelle mane,
     Chè non portava i zoccol per l’asciutto13,
     Ma ignudo e scalzo, abbaia com’un cane;
     Mai non si vide un mostro così brutto:
     E in man portava un gran baston di sorbo
     Tutto arsicciato, nero com’un corbo.

41 Questo una buca sotterra avea fatto,
     E sopra quella forato un gran masso:
     Quivi si stava e nascondeva il matto:
     Verso la strada avea forato il sasso,
     E per un bucolin traea di piatto,
     E molta gente saettava al passo:
     Facea degli uomin micidial governo,
     E chiamat’era il mostro dall’inferno.

42 Rinaldo, quando apparir lo vedia,
     Diceva a Ulivieri: Hai tu veduto
     Costui, che certo la versiera fia?
     Disse Ulivieri: Iddio ci sia in aiuto,
     Credo più tosto sia la Befania14,
     O Belzebù che ci sarà venuto.
     Guardava il petto e la terribil faccia,
     E ’l baston lungo più di dieci braccia.

43 Quest’animal venìa gridando forte,
     E come l’orso adirato co’ cani,
     Ispezza e’ rami e’ pruni, e le ritorte
     Con quel baston, co’ piedi e colle mani.
     Disse Dodon: Sare’ questa la Morte,
     Che ci assalissi in questi boschi strani?
     Se tu riguardi, Rinaldo, i vestigi,
     De’ compagnon mi par di Malagigi.

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44 Disse Rinaldo: Non temer, Dodone,
     Se fussi ben la Morte o il Trentamila15;
     Lascial venire a me questo ghiottone,
     Ch’a maggior tela ho stracciate le fila16.
     Intanto quella bestia alza il bastone,
     E inverso di Rinaldo si difila:
     Rinaldo punse Baiardo in su’ fianchi,
     Acciò che ’l suo disegno a colui manchi.

45 Dallato si scagliò come un cervietto,
     Giunse la mazza, e dette il colpo in fallo;
     Rinaldo intanto si messe in assetto,
     Corsegli addosso presto col cavallo:
     Dettegli un urto, e colselo nel petto,
     Per modo che sozzopra fe cascallo;
     E nel cader quest’animale strano
     Forte abbaiava com’un cane alano.

46 Dodon, che vide quel diavol cadere,
     Diceva a Ulivier: Corriangli addosso,
     Acciò che non si levi da giacere.
     Disse Rinaldo: Ignun non si sia mosso17;
     Tirati a drieto, e statevi a vedere,
     Ch’io non sono uso mai d’esser riscosso.
     In questo l’uom salvatico si rizza
     Col sorbo, pien di furore e di stizza.

47 E scaricava un colpo in sulla testa,
     Per modo tal che, se giugnea Rinaldo,
     E’ gli bastava solamente questa,
     E non sentia mai più freddo nè caldo.
     Rinaldo non aspetta la richiesta,
     Chè com’argento vivo18 stava saldo;
     Or qua or là facea saltar Baiardo,
     Avendo sempre al protino riguardo.

48 Pareva un lioncin, quand’egli scherza,
     Che salta in qua e in là destro e leggieri;
     Alcuna volta menava la sferza,
     Poi risaltava che pare un levrieri.
     Era già l’ora passata di terza,
     E pur Dodon dicea con Ulivieri:
     Io temo sol Rinaldo non si stracchi,
     Tanto ch’un tratto quel baston l’ammacchi.

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49 Colui non par che si curi un pistacchio,
     Perchè Frusberta gli levi del pelo,
     E pur attende a scaricare il bacchio19,
     E la spada del prenze torna al cielo:
     Misericordia di questo batacchio,
     Aiuta Iddio chi crede nel Vangelo:
     Quel baston pare un albero di nave,
     Arsiccio, duro, nocchieruto, e grave.

50 Avean già combattuto insino a nona
     Rinaldo e quel diavolo incantato;
     Rinaldo gli ha frappata la persona20,
     E molto sangue in terra avea gittato,
     E tuttavia con Frusberta lo suona:
     Un tratto quel baston è giù calato;
     Rinaldo per disgrazia gli era sotto,
     E non poteva fuggir questo botto.

51 Attraversò la spada, per coprire
     Il capo, chè del colpo ebbe ribrezzo;
     Giunse il bastone: or qui volle alcun dire
     Già, che Rinaldo gliel tagliò sol mezzo,
     Ma poi si ruppe il resto nel colpire;
     Chi dice che di netto il mandò al rezzo21:
     Donde e’ s’è fatta gran disputazione,
     Come quel fatto andassi del bastone.

52 Ma questo a giudicar vuol buon grammatico,
     S’egli tagliò tutta o mezza la mazza:
     Quel maladetto, e ruvido, e salvatico,
     E aspro più che ’l sorbo ch’è di guazza22,
     Arrandellò quel tronco come pratico;
     Dette a Rinaldo una percossa pazza,
     Tanto che cadde, e dipoi si fuggia,
     Ma Ulivier lo segue tuttavia.

53 Trasse la spada, che par che riluca,
     Più che non fece mai raggio di stella,
     Acciò che ’l cuoio con essa gli sdruca.
     Questa fiera bestial, crudele e fella
     Si fuggì come il tasso nella buca:
     Ulivier si rimase in sulla sella,
     E ritornossi dove era caduto
     Rinaldo, che già s’era riavuto.

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54 Disse Rinaldo: Vedestù mai tordo,
     Ch’avessi come ebb’io della ramata23?
     Costui pensò di guarirmi del sordo,
     Se fussi riuscito la pensata24.
     Disse Dodon: Quand’io me ne ricordo,
     Io triemo ancor di quella randellata:
     Che hai tu fatto di lui, Ulivieri?
     Tu gli corresti drieto col destrieri.

55 Disse Ulivieri: Egli è nato di granchi:
     Egli entrò in una buca sotto un masso,
     Mentre ch’io gli ero colla spada a’ fianchi,
     O si tornò in inferno a Satanasso.
     Intanto colui par ch’un arco abbranchi,
     Ed uno stral cavò d’un suo turcasso,
     Avvelenato, e fessi al bucolino,
     E trasse, e dette in un piè a Vegliantino.

56 E se non fussi che giunse al calcagno,
     Quanto potè più basso all’unghia morta,
     Non bisognava medico nè bagno.
     Disse Rinaldo: In pace te lo porta,
     Co’ pazzi sempre fu poco guadagno,
     Il mio lion non ci fa buona scorta.
     Poi non veggendo ond’egli avessi tratto,
     Ognun restava come stupefatto.

57 Disse Rinaldo: A quel sasso mi mena,
     Ulivier, dove tu il vedesti entrare;
     Veggiam se questa bestia da catena
     Si potessi alla trappola pigliare;
     Ch’io so ch’io gli darò le frutte a cena25,
     S’io lo dovessi col fuoco sbucare.
     Salì sopra Baiardo, e insieme andorno,
     E in un tratto quel sasso accerchiorno.

58 Colui ch’è dentro, assetta lo scoppietto,
     E stava al bucolin quivi alla posta;
     Trasse uno strale a Rinaldo nel petto,
     Che si pensò di passargli ogni costa,
     Ma la corazza a ogni cosa ha retto.
     Rinaldo allor dalla buca si scosta,
     E disse: Costì ancor non se’ sicuro,
     Se ’l sasso più che porfir fussi duro.

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59 Poi che tu m’hai saettato, ribaldo,
     E randellato, che mai più non fue
     Gittato in terra in tal modo Rinaldo,
     Io ti gastigherò pel mio Gesue26:
     E così tutto di tempesta caldo,
     Con ambo man Frusberta alzava sue;
     Rizzossi in sulle staffe, e ’l brando striscia,
     Che lo facea fischiar come una biscia,

60 Tanto che l’aria e la terra rimbomba,
     E si sentiva un suon fioco e ’nterrotto,
     Come quando esce il sasso della fromba:
     Are’ quel colpo ogni adamante rotto:
     Giunse in sul masso sopra della tomba,
     E fessel tutto come un cacio cotto:
     Partì il cervello e ’l capo e ’nsino al piede
     Al crudel mostro, e sciocco è chi nol crede.

61 Le schegge di quel sasso a mille a mille
     Balzorno in qua ed in là, come è usanza,
     E tutta l’aria s’empiè di faville.
     Disse Dodone: O Dio, tanta possanza
     Non ebbe Ettorre, o quel famoso Achille,
     Quanto ha costui, ch’ogni lor forza avanza.
     La spada un braccio sotterra ficcossi,
     E Baiardo pel colpo inginocchiossi.

62 A gran fatica potè poi ritrarre
     Rinaldo, tanto fitta era, la spada,
     E disse: Tu credevi che le sbarre
     Non ti tenessin27, mascalzon di strada28:
     Chi si diletta di truffe e di giarre29,
     Così convien che finalmente vada;
     De’ tuo’ peccati penitenzia hai fatta,
     Così fo sempre a ogni bestia matta.

63 Dodon guardava nella buca e vede
     Tutto fesso per lato quel ghiottone
     Dal capo insin giù per le gambe al piede,
     E stupì tutto per ammirazione;
     Dicendo: Iddio, de’ tuoi servi hai mercede,
     Questo stato non è sanza cagione:
     A qualche fine tal segno hai dimostro,
     Acciò ch’a molti esempio sia quel mostro.

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64 Poi colla punta della spada scrisse:
     Nel tal tempo il signor di Montalbano
     Ci arrivò a caso; ed ogni cosa disse:
     Come in quel sasso stava un uomo strano,
     E come tutto Rinaldo il partisse:
     Ed evvi ancora scritto di sua mano
     Le lettre colla punta della spada,
     E puossi ancor veder sopra la strada.

65 E chiamasi la selva dall’inferno;
     Chi vuole andare30 al monte Sinai,
     Vi passa, quando e’ va, che sia di verno,
     Per non passare il fiume Balai:
     E leggesi quel diavol dell’inferno,
     Come Rinaldo quivi lo partì:
     E vedesi ancor l’ossa drento al fesso,
     E sentevisi urlar la notte spesso.

66 Poi si partirno, e il lion, come suole,
     Sempre la strada mostrava a costoro.
     Era di notte, Rinaldo non vuole
     Che per le selve si facci dimoro,
     Talch’Ulivieri e Dodon se ne duole,
     Chè cavalcare a stracca è lor martoro;
     Tutta la notte con sospetto andorno,
     Insin che in oriente vidon giorno.

67 Come e’ fu fuor dell’oceano Apollo,
     Si ritrovoron sopra a un poggetto;
     Questo passorno, e poi più là un collo31
     D’un altro monte ch’era al dirimpetto:
     E poi che a questo dato ebbono il crollo32,
     Vidono un pian con un certo fiumetto,
     Trabacche, e padiglioni, e loggiamenti
     E cavalieri armati, e varie genti.

68 Quivi era Manfredonio innamorato,
     Che lo facea morir Meridiana,
     Con tutto quanto il popolo attendato;
     E la fanciulla al suo parer villana
     Al re Corbante avea significato,
     Ch’assediata è dalla gente pagana,
     E come Manfredon si sforza e ’ngegna
     Torgli d’onor la sua famosa insegna.

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69 Ed aspettava il guerrier del lione,
     Che dovessi venirla a liberare;
     E stava giorno e notte in orazione,
     E molti sacrificj facea fare,
     Pregando umilemente il lor Macone
     Che sua virginità debba servare;
     Com’io seguiterò nell’altro Canto
     Colla virtù dello Spirito Santo.

Note

  1. [p. 118 modifica]almo. Per animo.
  2. [p. 118 modifica]Per contestare. Contestare è propriamente titolo dei Legisti, e vale intimare, notificare. Qui significa contrastare, combattere, e simili. Leggesi nelle Vite de’ Santi Padri: «Contestandosi, e difendendosi Antonio coll’arme dell’orazione contra al demonio ec.»
  3. [p. 118 modifica]bisante. Moneta antica detta così, secondo la Crusca, da bis, e Sanctus, perchè aveva nella impronta due Santi; o da Bisanzio (Costantinopoli), d’onde pare sia in principio venuta. I Greci la chiamarono νόμισμα βυζάντιον; e Vincenzio Borghini, nel Discorso della Moneta fiorentina, disse: «Il secondo, cioè il Bisante, per avventura dalla città di Bisanzio, seggio allora dell’impero greco.»
  4. [p. 118 modifica]E non ha ignun. E non v’è alcuno.
  5. [p. 118 modifica]e del tristo facea. E fingeva d’esser tristo.
  6. [p. 118 modifica]sgridallo, ruballo. Per sgridarlo, rubarlo; cangiata la r in l. Il volgo lo dice ancora, ed è modo venuto dai Greci, i quali pure dicevano, ad esempio, ρακος e λακος, e simili altri.
  7. [p. 118 modifica]mostrava le piante. Correva velocemente.
  8. [p. 118 modifica]il roman senatore- Orlando fu fatto dal Papa gonfaloniere della Chiesa, e senatore di Roma.
  9. [p. 118 modifica]to’ti. Togliti, prenditi.
  10. [p. 118 modifica]un uom molto foresto. D’aspetto strano, selvaggio.
  11. [p. 118 modifica]una vecchia paura. Vuol dire una gran paura. Ciriff. Calv., Canto II, 44:

    E ci faran delle vecchie paure.

    E in altri luoghi. S’usa solo per ischerzo.

  12. [p. 118 modifica]vedegli. Per vedergli, tolta la r. Modo usato anch’ora dal popolo.
  13. [p. 118 modifica]Che non portava ec. Qui pare voglia dire che andava sempre co’ piè nudi; ma portare, o andare in zoccoli per l’asciutto, è modo di parlar furbesco, e vale: esser macchiato del vizio di soddomia.
  14. [p. 118 modifica]Befania. Chiamasi a Firenze befana un certo fantoccio di cenci o altro, che i fanciulli e le donne pongono alla finestra il giorno della Epifania, detto anche dal volgo dì di befana, o di befania. Questa stessa voce serve anche ad indicare una donna brutta e contraffatta; come pure un ente immaginario che suol rammentarsi ai bambini per far loro paura. Qui è posto per indicare un essere di aspetto mostruoso.
  15. [p. 118 modifica]il Trentamila. Lo stesso che la Tregenda, il qual nome denota alcuna favolosa brigata che vada di notte attorno con lumi accesi. Così il Vocabolario, che non dà che questo solo esempio, e lo fa corrispondere al latino turba maxima, greco παμπόλλοι.
  16. [p. 118 modifica]Ch’a maggior tela ec. Cioè: che ho fatte imprese d’altra fatta che queste.
  17. [p. 119 modifica]ignun non si sia mosso. Nessun si muova.
  18. [p. 119 modifica]argento vivo. Il Mercurio, greco υδράργυρος, quasi argento acquoso, o allo stato di acqua. Aver poi l’argento vivo addosso vale non poter stare fermo.
  19. [p. 119 modifica]bacchio. Bastone, dal latino baculus.
  20. [p. 119 modifica]frappata la persona. Frappare vale, far le frappe, cioè smerli, o cosa simile, alle vesti. Figuratamente significa tagliare minutamente; onde qui viene a dire, che Rinaldo a furia di ferite aveva quasi tagliuzzata la persona al Mostro.
  21. [p. 119 modifica]il mandò al rezzo. Mandare al rezzo significa uccidere. Qui pare che il Poeta abbia voluto dire che Rinaldo mandò di netto per terra il bastone del Mostro. Rezzo, dice il Vocabolario, è ombra di luogo aperto che non sia percosso dal Sole, greco σκιά, o viene da requies, o meglio da orezza, leggiera e piccola aura; d’onde rezzare por soffiare, o tirar vento; e brezza per venticello freddo e sottile, e brezzare il soffiare di esso venticello.
  22. [p. 119 modifica]ch’è di guazza. Dice che il bastone di sorbo è tenero come la guazza in paragone dell’asprezza del Mostro.
  23. [p. 119 modifica]della ramata. Chiamasi ramata un arnese a guisa di pala, tessuto di giunchi, con cui si ammazzan gli uccelli a forniuolo.
  24. [p. 119 modifica]la pensata. Verbale da pensare: pensamento, cogitatio. Usato dagli antichi anche in prosa.
  25. [p. 119 modifica]gli darò le frutte a cena. Dar le frutte a cena significa battere, percuotere.
  26. [p. 119 modifica]Gesue. Aggiunta la e nel fine per quella figura che chiamasi Paragoge.
  27. [p. 119 modifica]tu credevi che le sbarre Non ti tenessim ec. Credevi che non fossimo valenti a contrastarti? Chiamasi sbarra un tramezzo per separare una cosa da un’altra, o per impedire altrui il passo.
  28. [p. 119 modifica]mascalzon. Assassino di strada, λήστης, da persona male in arnese, e mal vestita, quasi malcalzone.
  29. [p. 119 modifica]giarre. Da giarda, cambiata in r la d, per comodo della rima, e vale beffa, burla, e simili.
  30. [p. 119 modifica]Chi vuol andare. Descrizione geografica fantastica, e tutta dell’Autore.
  31. [p. 119 modifica]e poi più là un collo D’un altro monte. Detto figuratamente per cima di monte.
  32. [p. 119 modifica]E poi che a questo dato ebbono il crollo. Intendi: poi che ebber varcato anche questo