Morgante maggiore/Canto quarto

Canto quarto

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Canto terzo Canto quinto
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CANTO QUARTO.




ARGOMENTO.

     Spicca Rinaldo la testa a un dragone,
Che s’è con un lione avviticchiato:
Mesce di sì buon peso un mostaccione
A un gigante, ch’ e’ cade sfragellato.
Con Ulivier s’imbranca e con Dodone,
A sterminare un serpe sterminato.
S’innamora Ulivieri al maggior segno;
Fansi Cristiani il re Corbante e ’l regno.


1 Gloria in excelsis Deo e in terra pace,
     Padre, e Figliuolo, e Spirito Santo;
     Benedicimus te, Signor verace,
     Laudamus te, Signor, con umil canto;
     Poi che per tua benignità ti piace
     L’abate nostro qui consolar tanto,
     E le mie rime accompagnar per tutto,
     Tanto che il fior produca al fin buon frutto.

2 Era nel tempo ch’ognun s’innamora1,
     E ch’a scherzar comincian le farfalle,
     E ’l Sol, ch’avea passata l’ultim’ora,
     Verso Murrocco chinava le spalle;
     La luna appena corneggiava ancora,
     De’ monti l’ombra copriva ogni valle,
     Quando Rinaldo all’abate ritocca,
     Che ’l nome suo non tenessi più in bocca.

3 Rispose: Chiaramonte è il nome mio;
     Benignamente a Rinaldo l’abate.
     Dopo alcun giorno, acceso dal desio,
     Disse Rinaldo: Io vo’ che voi ci diate
     Omai licenzia col nome di Dio:
     Io ho a Parigi mie gente lasciate,
     Per ch’io non credo, che ’l dì mai veggiamo,
     Di ritrovar colui che noi cerchiamo.

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4 L’abate, ch’era prudente e saputo,
     Disse: Rinaldo, benchè duol mi fia,
     Chè mai qui mi saresti rincresciuto,
     Credo che questo buon concetto sia;
     Io son contento poi ch’io t’ho veduto:
     So che questa sarà la parte mia
     Di rivedervi più ch’egli è ragione;
     Però vi do la mia benedizione.

5 Se di vedere Orlando è il tuo pensiero,
     Vattene in pace, caro mio fratello;
     Dio t’accompagni per ogni sentiero,
     O come fece Tobbia Raffaello.
     Disse Rinaldo: Così priego e spero;
     Rivedrenci nel ciel su presso a Quello,
     Che de’ suo’ servi arà giusta merzede,
     Che combatton quaggiù per la sua fede.

6 Rinaldo si partì da Chiaramonte,
     E Ulivieri e Dodon, sospirando;
     Va cavalcando per piano e per monte,
     Per la gran voglia di vedere Orlando:
     Quando sarà quel dì, famoso conte,
     Dicea fra sè, ch’io ti rivegga, quando?
     Non mi dorrà per certo poi la morte,
     S’io ti ritrovo, e riconduco in corte.

7 Era dinanzi Rinaldo a cavallo,
     Ed Ulivier lo seguiva e Dodone,
     Per un oscuro bosco sanza fallo:
     Dove si scuopre un feroce dragone
     Coperto di stran cuoio verde e giallo,
     Che combatteva con un gran lione2;
     Rinaldo al lume della luna il vede,
     Ma che quel fussi drago ancor non crede.

8 Ed Ulivier più volte aveva detto,
     Siccom’avvien chi cavalca di notte:
     Io veggo un fuoco appiè di quel poggetto,
     Gente debbe abitar per queste grotte:
     Egli era quel serpente maladetto,
     Che getta fiamma per bocca ta’ dotte3,
     Ch’una fornace pareva in calore,
     E tutto il bosco copria di splendore.

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9 E 'l leon par che con lui s’accapigli,
     E colle branche e co’ denti lo roda,
     Ed or pel collo or nel petto lo pigli:
     Il drago avvolta gli aveva la coda,
     E presol colla bocca e cogli artigli,
     Per modo tal che da lui non si snoda:
     E non pareva al lione anco giuoco,
     Quando per bocca e’ vomitava fuoco.

10 Baiardo cominciò forte a nitrire,
     Com'e’ conobbe il serpente da presso:
     Vegliantin d’Ulivier volea fuggire,
     Quel di Dodon si volge a drieto spesso,
     Chè ’l fiato del dragon si fa sentire;
     Ma pur Rinaldo innanzi si fu messo,
     E increbbegli di quel lion, che perde
     Appoco appoco, e rimaneva al verde4.

11 E terminò di dargli al fin soccorso,
     E che non fussi dal serpente morto:
     Baiardo sprona e tempera col morso,
     Tanto che presso a quel drago l’ha porto,
     Che si studiava co’ graffi e col morso,
     Tal che condotto ha il lione a mal porto;
     Ma invocò prima l’aiuto di sopra,
     Che cominciassi sì terribil opra.

12 E adorando, sentiva una voce,
     Che gli dicea: Non temer, baron dotto,
     Del gran serpente rigido e feroce;
     Tosto sarà per tua mano al di sotto.
     Disse Rinaldo: O Signor mio, che in croce
     Moristi, io ti ringrazio di tal motto;
     E trasse con Frusberta a quel dragone,
     E mancò poco e’ non dètte al lione.

13 Parve il lion di ciò fusse indovino,
     E quanto può dal serpente si spicca,
     Veggendosi in aiuto il Paladino:
     Frusberta addosso al dragon non s’appicca,
     Perchè il dosso era più che d’accia’ fino:
     Trasse di punta, e il brando non si ficca,
     Che solea pur forar corazze e maglie,
     Sì dure aveva il serpente le scaglie.

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14 Disse Rinaldo: E’ fia di Satanasso
     Il cuoio che ’l serpente porta addosso,
     Poi che di punta col brando nol passo,
     E che col taglio levar non ne posso;
     E lascia pur la spada andare in basso,
     Credendo a questo tagliare al fin l’osso:
     Frusberta balza, e faceva faville;
     Così de’ colpi gli diè forse mille.

15 E quel lione lo teneva pur fermo,
     Quasi dicessi: S’io lo tengo saldo,
     Non ará sempre a ogni colpo schèrmo:
     Ma poi che molto ha bussato Rinaldo,
     E conoscea che questo crudel vermo
     L’ offendea troppo col fiato e col caldo,
     Se gli accostava, e prese un tratto il collo,
     E spiccò il capo, che parve d’ un pollo.

16 Fuggito s’ era Ulivieri e Dodone,
     Che i lor destrier non poteron tenere:
     Come e’ fu morto quel fiero dragone,
     Balzato il capo e caduto a iacere,
     Verso Rinaldo ne venne il lione,
     E cominciava a leccare il destriere:
     Parea che render gli volessi grazia;
     Di far festa a Rinaldo non si sazia.

17 Ed avviossi con esso alla briglia.
     Rinaldo disse: Vergin graziosa,
     Poi che mostrata m’hai tal maraviglia,
     Ancor ti priego, Regina pietosa,
     Che mi dimostri onde la via si piglia
     Per questa selva così paurosa
     Di ritrovare Ulivieri e Dodone,
     O tu mi fa fare scorta al lione.

18 Parve che questo il lione intendessi,
     E cominciava innanzi a camminare,
     Come se, drieto mi verrai, dicessi:
     Rinaldo si lasciava a lui guidare,
     Chè boschi v’ eran si folti e si spessi,
     Che fatica era il sentiero osservare:
     Ma quel lione appunto sa i sentieri,
     E ritrovò Dodone e Ulivieri.

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19 Era Ulivier tutto malinconoso5,
     E del cavallo in terra dismontato;
     Così Dodone, e piangea doloroso,
     E ’ndrieto inverso Rinaldo è tornato,
     Per dar soccorso al Paladin famoso;
     Ed Ulivieri aveva ragionato:
     Penso che morto Rinaldo vedremo
     Da quel serpente, e tardi giugneremo.

20 E non sapean ritrovar il cammino,
     Erano entrati in certe strette valli:
     Ecco Rinaldo, e ’l lion già vicino
     Maravigliossi, e cominciò a guardalli;
     Vide Ulivier non avea Vegliantino;
     Disse: Costoro ove aranno i cavalli?
     A qualche fiera si sono abbattuti,
     Dove egli aranno i lor destrier perduti.

21 Ulivier quando Rinaldo vedea,
     Non si può dir se pareva contento,
     E disse: Veramente io mi credea
     Ch’omai tu fussi della vita spento;
     E poi ch’allato il lione scorgea
     Al lume della luna, ebbe spavento.
     Disse Rinaldo: Ulivier, non temere
     Che quel lion ti facci dispiacere.

22 Sappi, che morto è quel dragon crudele,
     E liberato ho questo mio compagno,
     Che meco or vien come amico fedele,
     Ed arem fatto di lui buon guadagno:
     Prima che forse la luna si cele,
     Tratto ci arà questo lion grifagno
     Del bosco, e guideracci a buon cammino:
     Ma dimmi, hai tu perduto Vegliantino?

23 Ulivier si scusò con gran vergogna:
     Come tu fusti alle man col dragone,
     I destrier ci hanno grattata la rogna6
     Tra mille sterpi, e per ogni burrone:
     Ognun voleva far quel che bisogna,
     Per aiutarti, com’era ragione;
     Ma ritener non gli potemmo mai,
     Tanto che forse di noi ti dorrai.

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24 Noi gli lasciammo presso a una fonte,
     Perchè pur quivi si fermorno a bere:
     Quivi legati appiè gli abbiam del monte,
     Ed or di te venavamo a sapere,
     Se rotta avevi al serpente la fronte,
     O da lui morto restavi a giacere.
     Disse Rinaldo: Pe’ cavalli andiamo,
     E tra noi scusa, Ulivier, non facciamo.

25 Ritrovorno ciascuno il corridore;
     Dicea Rinaldo: Or da toccar col dente
     Non credo che si trovi, insin che fore
     Usciam del bosco, o troviamo altra gente:
     Così stessi tu, Carlo imperadore,
     Che vuoi ch’io vada pel mondo dolente;
     Così stessi tu, Gan, com’io sto ora,
     Ma forse peggio star ti farò ancora.

26 E così cavalcando con sospetto,
     Rinaldo si dolea del suo destino,
     E quel lione innanzi va soletto,
     Sempre mostrando a costoro il cammino:
     E poi ch’egli hanno salito un poggetto,
     Ebbon veduto un lume assai vicino;
     Che in una grotta abitava un gigante,
     Ed un gran fuoco s’avea fatto avante.

27 Una capanna di frasche avea fatto,
     Ed appiccato a una sua caviglia7
     Un cervio, e della pelle l’avea tratto:
     Sente i cavai calpestare, e la briglia:
     Subito prese la caviglia il matto,
     Come colui che poco si consiglia:
     A Ulivieri, furioso più ch’orso,
     Addosso presto la bestia fu corso.

28 Ulivier vide quella mazza grossa,
     E del gigante la mente superba;
     Volle fuggirlo: intanto una percossa
     Giunse nel petto sì forte ed acerba,
     Che bench’avessi il baron molta possa,
     Di Vegliantin si trovava in sull’erba.
     Rinaldo quando Ulivier vide in terra,
     Non domandar quanto dolor l’afferra.

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29 E disse: Ribaldon, ghiotton da forche8,
     Che mille volte so l’hai meritate;
     Prima che sotto la luna si corche,
     Io ti meriterò di tal derrate9.
     Questo bestion con sue parole porche
     Disse: A te non darò se non gotate:
     Che se’ tu tratto del cervio all’odore?
     Tu debb’essere un ghiotto o furatore.

30 Rinaldo, ch’avea poca pazienza,
     Dette in sul viso al gigante col guanto10;
     E fu quel pugno di tanta potenza,
     Che tutto quanto il mostaccio11 gli ha infranto;
     Dicendo: Iddio non ci are’ sofferenza.
     Pure il gigante, riavuto alquanto,
     Arrandellò la caviglia12 a Rinaldo,
     Che d’altro che di Sol gli vuol dar caldo13.

31 Rinaldo il colpo schifò molto destro,
     E fe’ Baiardo saltar com’un gatto:
     Combatter co’ giganti era maestro,
     Sapeva appunto ogni lor colpo ed atto;
     Parve il randello uscissi d’un balestro:
     Rinaldo menò il pugno un altro tratto:
     E fu sì grande questo mostaccione,
     Che morto cadde il gigante boccone.

32 E poco men e’ non fe, com’e’ suole
     Il drago, quando uccide il leofante,
     Che non s’avvede, tanto è sciocco e fole14,
     Che nel cader quell’animal pesante
     L’uccide, che gli è sotto, onde e’ si duole;
     Così Rinaldo a questo fu ignorante,
     Che quando cadde il gigante gagliardo,
     Ischiacciò quasi Rinaldo e Baiardo.

33 E con fatica gli uscì poi di sotto,
     E bisognò che Dodon l’aiutassi.
     Disse Rinaldo: Io non pensai di botto15
     Così il gigante in terra rovinassi,
     Ond’io n’ho quasi pagato lo scotto16:
     E’ disse ch’all’odor d’un cervio trassi:
     Alla sua capannetta andiamo un poco,
     Dove si vede colassù quel fuoco.

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34 Allor tutti smontaron dell’arcione,
     Alla capanna furono avviati,
     Vidono il cervio; diceva Dodone:
     Forse che mal non sarem capitati.
     Fece d’un certo ramo uno schidone.
     Rinaldo intanto tre pani ha trovati,
     E pien di strana cervogia un barlotto,
     E disse: Il cervio mi sa di biscotto.

35 Erano i pan com’un fondo di tino,
     Tanto ch’a dirlo pur mi raccapriccio:
     Disse Rinaldo: Se c’è ’l pane e ’l vino,
     Ch’aspettian noi, Dodon? qua sa d’arsiccio.
     Dicea Dodone: Aspetta un tal pochino,
     Tanto che lievi la crosta su ’l riccio.
     Disse Rinaldo: Più non l’arrostiano,
     Chè ’l cervio molto cotto è poco sano.

36 Disse Dodone: I’ t’ho inteso, Rinaldo:
     Il gorgozzul ti debbe pizzicare17;
     Se non è cotto, e’ basta che sia caldo:
     E cominciorno del cervio a spiccare:
     Rinaldo sel mangiava intero e saldo,
     Se non che la vergogna il fa restare;
     E de’ tre pan fece paura a uno18,
     Chè col barlotto non beve a digiuno.

37 Poi che fu l’alba in levante apparita,
     Si dipartiron da quella capanna.
     Dicea Dodon: Questa fu buona gita,
     Poi che da ciel sopravvenne la manna,
     E quel gigante ha perduta la vita:
     Vedi che pure ingannato è chi ’nganna.
     Quel bacalare19, Ulivier, ti percosse
     A tradimento, or si sta per le fosse.

38 Disceson di quel monte alla pianura,
     E il lor lione innanzi pure andava;
     Dicea Rinaldo: Questa è gran ventura!
     Ed Ulivier con lui se n’accordava:
     Tanto ch’uscirno d’una valle oscura,
     Ove poi nel dimestico s’entrava;
     Cominciorno a veder casali e ville,
     E sopra campanil gridar le squille20.

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39 E poco tennon più oltre il cammino,
     Che cominciorno a trovar de’ pastori
     Presso ad un fiume, ch’era lor vicino,
     E poi sentiron gran grida e romori:
     Baiardo aombra, e così Vegliantino:
     Ed ecco uscir d’una valletta fuori
     Una gran turba, che s’era fuggita,
     Ed a veder parea gente smarrita.

40 Rinaldo allora a Dio si raccomanda;
     E ’ntanto appresso s’accosta un Pagano:
     Allor Dodon di subito domanda:
     Che caso è questo in questo luogo strano,
     Che par che tanto romor qua si spanda?
     Per cortesia, non vogli esser villano.
     Rispose il Saracin presto a Dodone:
     Io tel dirò, e non sanza cagione.

41 Del mio dir so che ti verrà pietade:
     Per una figlia nobile e serena
     Quasi è disabitata una cittade,
     Perch’una vipra crudel ci avvelena:
     Il Re Corbante, per la sua bontade,
     La sua figliuola detta Forisena
     A divorar vuol dare a questa fera;
     La sorte tocca a lei, vuol che lei pera.

42 E di noi altri ha già mandati assai:
     Ognidì ne vuol due, sera e mattina.
     Dimmi, rispose Rinaldo, stu sai,
     Questa città come ella c’è vicina?
     Rispose il Saracin: Tu la vedrai
     Tosto la terra misera e meschina;
     Ma guarda che tal gita non sia amara;
     Ella è qui presso, e chiamasi Carrara.

43 Io ve n’avviso per compassione,
     Ch’io ho di voi per Macometto Iddio,
     Che voi non vi lasciate le persone,
     Poi che d’andarvi mostrate desio;
     La città troverete in perdizione,
     E molto malcontento il signor mio,
     Per questa cruda fiera e maladetta,
     Che debbe divorar la giovinetta.

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44 Com'egli è dì, se ne viene alle porte:
     Se da mangiar non gli è portato tosto,
     Col tristo fiato ci conduce a morte:
     Convien ch’un uom gli pogniam là discosto.
     Questa fanciulla21 gli è tocca la sorte,
     E ’l padre suo di mandarla ha disposto:
     Il popol grida, e quella fiera rugge,
     Tanto ch’ognun per paura si fugge.

45 Credo che sia sol pe’ nostri peccati,
     Perchè Corbante uccise un suo fratello,
     Che fu tra noi de’ cavalier nomati
     Il più savio, il più giusto, forte e bello;
     Noi consentimmo a tutti questi aguati,
     Però che il regno apparteneasi a quello:
     La vipera è venuta a purgar certo
     Questo peccato, e rendeci tal merto.

46 Ed è tra noi chi tiene opinione,
     Che lo spirito suo drento vi sia
     In questa fiera, di questo garzone.
     Disse Rinaldo: Di tua cortesia
     Io ti ringrazio, aiutiti Macone
     Da questa fiera fella e tanto ria;
     Ma dimmi, Saracin, questa donzella
     Com' ella è giovinetta, e s’ell' è bella?

47 Disse il Pagan: Non domandar di questo,
     Chè non si vide mai cosa sì degna;
     Un atto dolce, angelico e modesto,
     Di virtù porta e di beltà l’insegna;
     Ne’ quindici anni entrata, e va pel resto.22;
     Il popol pur di camparla s’ingegna:
     Se tu credessi quella bestia uccidere,
     Tu puoi far conto il reame dividere.

48 Disse Rinaldo: Io non cerco reame,
     Io n’ho lasciati sette in mio paese;
     Io mi diletto un poco delle dame;
     Se così bella è la figlia cortese,
     A quella fiera taglierò le squame.
     E poi si volse al famoso marchese,
     E disse: Andianne, chè la dama è nostra,
     Alla città che ’l Saracin ci mostra.

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49 Com’e’ furno in Carrara i paladini,
     Ognun volgeva a guardargli le ciglia;
     Preson conforto tutti i Saracini,
     E del lion ne prendean maraviglia.
     Rinaldo giunse al palagio a’ confini23,
     E salutò Corbante, e poi la figlia;
     Corbante disse: Tu sia il ben venuto,
     Se per la fiera a dar mi vieni aiuto.

50 Allor Rinaldo rispose: O Corbante,
     Il nome mio è ’l guerrier del lione,
     E credo in Apollino, e Trevigante,
     E non vorrei pel nostro Iddio Macone
     Avere a capitar certo in Levante,
     Poi ch’io senti’ della tua passione.
     Quel disse forte, e quest’altro bisbiglia:
     Anzi poi ch’io senti’ della tua figlia.

51 Ulivier gli occhi alla donzella gira,
     Mentre Rinaldo in questo modo parla;
     Subito pose al berzaglio la mira24,
     E cominciò cogli occhi a saettarla,
     E tuttavolta con seco sospira:
     Questa non è, dicea, carne da darla
     A divorare alla fiera crudele,
     Ma a qualche amante gentile e fedele.

52 Corbante aveva intanto così detto:
     Sia chi tu vuoi, o famoso guerriere,
     Basta sol che tu credi in Macometto:
     Se tu credessi, gentil cavaliere,
     Uccider questa fiera, io ti prometto
     Di darti mezzo il reame e l’avere:
     E se tu ’l vuo’ ancor tutto, i’ son contento,
     Pur che mi tragga fuor d’esto tormento.

53 Come tu vedi, la terra è condotta,
     D’un bel giardino, spelonca o diserto:
     La mia figliuola, s’appressa già l’otta25,
     Che morir dee sanza peccato o merto.
     Ma Ulivier nella mente borbotta26:
     Non mangerà sì bianco pan per certo
     Quest’animal, ch’egli è pasto da amanti,
     Se noi dovessim morir tutti quanti.

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54 Dimmi pur tosto qual sia il tuo pensiero,
     Diceva il re, ch’ell’è presso alle mura,
     Ch’io sento il fiato incomportabil, fiero,
     E voi ’l dovete sentir per ventura.
     Disse Rinaldo: Io non vo’ regno o impero;
     Per gentilezza caccio e per natura;
     E per amor della tua figlia bella
     La vipra ucciderem crudele e fella.

55 Ulivier era un gentil damigello,
     E tuttavia la fanciulla vagheggia;
     Rinaldo l’occhio teneva al pennello27,
     Con Ulivieri in francioso motteggia:
     Disse: Il falcone ha cavato il cappello,28
     Non so se starna ha veduto, o acceggia29;
     Ma parmi questo chiaro assai vedere,
     Che noi sarem due ghiotti a un tagliere30.

56 Ulivier nulla rispose a Rinaldo,
     Abbassò gli occhi, che tenea sì fissi:
     Corbante un bando mandò molto caldo,
     Che nessun più della terra partissi,
     Tanto che il popol comincia a star saldo:
     Rinaldo volle così si seguissi;
     E fece fare un guanto, s’io non erro,
     Coperto tutto di punte di ferro.

57 E prese poi da Corbante licenzia,
     Che gli fe compagnia fino alla porta
     Con molta gente e con gran reverenzia;
     Poi gli diceva: Io non son buona scorta;
     Io ti ricordo, tu abbi avvertenzia
     Alla tua vita; e così lo conforta:
     E in ogni modo te salvar mi piace,
     Poi sia che vuol della fiera rapace.

58 Queste parole furon grate tanto,
     Che se l’affisse Rinaldo nel core;
     E disse: Il capo arrecarti mi vanto
     In ogni modo, cortese signore:
     La tua benedizion mi dà col guanto,
     Conforta il popol tuo per nostro amore.
     Corbante il benedì pietosamente,
     E priega Iddio per lui divotamente.

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59 Ed Ulivieri ancor fece orazione,
     Raccomandossi al Salvator divino:
     Dinanzi andava il feroce lione,
     Verso la fiera teneva il cammino;
     Drieto seguiva Rinaldo e Dodone:
     Era a vedere il popol saracino,
     Chi in sulle mura, e chi presso alle porte,
     Desiderando all’animal la morte.

60 E la fanciulla con faccia serena
     Era salita in sur una bertesca31;
     Disse Rinaldo: Vedi Forisena,
     O Ulivier, che di te par gl’incresca,
     Amore è quel ch’a vederti lei mena.
     Ulivier disse: La danza rinfresca32;
     Tu hai disposto di darmi oggi noia;
     Attendiam pur che questa fiera muoia.

61 Dicea Rinaldo: Sarai tu sì crudo,
     Che tu non guardi questa damigella?
     Tu non saresti d’accettar per drudo;
     Che crederestu far, se la donzella
     Avessi in braccio per tua targa o scudo,
     Atterreresti tu la fiera, o quella?
     Disse Ulivier: Tu se’ pur per le ciance,
     E qua sa d’altro già che melarance33.

62 E come e’ disse questo, il lion mostra
     Il serpente, che fuoco vomitava.
     Disse Ulivier: Questa è la dama nostra,
     E di vederla, Rinaldo, mi grava.
     Disse Rinaldo: O Ulivier, qui giostra
     Venere e Marte; e di nuovo cianciava.
     La vipera crudel tosto si rizza,
     E fuoco e tosco per bocca gli schizza.

63 Parea che l’aria e la terra s’accenda,
     Rinaldo aveva spugna con aceto,
     E tutti, perchè il fiato non gli offenda;
     E disse: O animal poco discreto,
     Che pensi tu, che no’ siam tua merenda,
     Poi che tu vieni in qua contra divieto?
     E detto questo, del cavallo scese,
     E così fece Dodone e ’l marchese.

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64 Non fu prima smontato di Baiardo,
     Ch’a Dodon giunse l’animale addosso;
     Dettegli un morso sì fiero e gagliardo,
     Che l’arme gli schiacciò, la carne e l’osso.
     Dodon gridava: Omè lasso, ch’io ardo;
     Aiutami, Ulivier, chè più non posso;
     E cadde tramortito, e stramazzato
     Subito in terra pel morso e pel fiato.

65 Ulivier tardi aiutarlo si mosse,
     E a Dodon non potè dar soccorso;
     Adunque il primo ch’assaggia si cosse,
     Ed anco c’è per un compagno un morso:
     Perchè il serpente un tratto il capo scosse,
     E poi pigliava Ulivier com’un torso;
     E per ventura alla gamba s’appicca,
     E i denti tutti nell’arme gli ficca.

66 E’ si sentì l’arnese sgretolare,
     Che non isgretolò mai osso cane;
     E poi pel braccio lo volle ciuffare34:
     Ma Ulivieri adopera le mane,
     Ch’avea quel guanto Rinaldo fe fare:
     E non è tempo a questo, dar del pane,
     O dir che san Donnin gli alleghi i denti,
     Chè converrà pur che facci altrimenti.

67 Missegli il guanto e la man nella strozza,
     Però che molto lo sgrida Rinaldo,
     Tanto che tutto il serpente lo ’ngozza,
     E strinse; ed Ulivier lo tenne saldo,
     E colla spada la testa gli mozza:
     Ma nel morir, pel fetore e pel caldo,
     Ulivier cadde tramortito in terra;
     Ma il capo del serpente non si sferra.

68 Che, nel finir, la bocca in modo strinse,
     Ch’Ulivier trar non ne potè la mano:
     Rinaldo tutto nel viso si tinse,
     E sferrar lo credette a mano a mano;
     Ma non potea, tanto il dolor lo vinse
     Del tristo caso d’Ulivieri e strano:
     Pur tante volte la spada v’accocca,
     Che gliel cavò con fatica di bocca.

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69 Ma quel lion, ch’egli avevan menato,
     Si stette sempre di mezzo a vedere,
     Perchè, se fussi d’alcun domandato
     Di questo fatto, il voleva sapere.
     Era Dodon già di terra levato,
     Ma Ulivier pur si stava a giacere;
     I Saracin corrien fuor della porta,
     Faccendo festa che la fiera è morta.

70 Venne Corbante con molta brigata,
     A veder come questo fatto er’ito;
     Vede la bestia in terra rovesciata,
     Vede Dodon sanguinoso ferito;
     Vede Ulivier colla mano affocata,
     Che morto gli parea, non tramortito;
     Vede la terra per la fiera arsiccia,
     Della qual cosa assai si raccapriccia;

71 Vede la testa del fiero dragone,
     Che gli parve a veder mirabil cosa;
     Vede Rinaldo turbato, e Dodone,
     Perch’Ulivieri in terra si riposa;
     Ebbe di questo gran compassione;
     Vedevagli la gamba sanguinosa,
     E non sapea con che parole o gesti
     Si condolessi, o ringraziassi questi.

72 Abbracciò infin Rinaldo lacrimando;
     E poi Dodon, dicendo: Baron degni,
     Come potrò mai ristorarvi, o quando?
     Da Macon credo che tal grazia vegni,
     Che in queste parte vi venne mandando;
     Ecco la vita e tutti i nostri regni,
     E la corona collo scettro nostro;
     Disposto sono, ogni cosa sia vostro.

73 Ma sempre piangerò, se questo è morto,
     Che par sì degno e gentil cavalieri.
     Disse Rinaldo: Re, dàtti conforto,
     Chè pianger di costui non fa mestieri;
     Il tuo parlare assai ci mostra scorto
     Che tu sia grato, e giusti i tuoi pensieri:
     La tua corona e ’l regno l’accettiamo,
     E come nostro a te lo ridoniamo.

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74 Non aveva Rinaldo appena detto,
     Ch’Ulivier cominciossi a risentire;
     E risentito, il re veggendo appetto
     E tanta gente, cominciò a stupire,
     Come chi nuove cose per obbietto
     Vede in un punto, e non sa che si dire:
     Ma a poco a poco rivocò la vita,
     Ed ogni ammirazion fu disparita.

75 Al popolo era orrore e maraviglia,
     Veggendo quel c’han fatto i paladini;
     Era venuta, per veder, la figlia
     Del re Corbante con que’ Saracini,
     Che ’l Sol, quand' è più lucente, simiglia,
     E tutti gli atti suoi paion divini:
     Ed Ulivier questa donzella guarda,
     Che non s’accorge ancor che ’l suo cor arda.

76 Il re Corbante al popol comandava
     Ch’alla città portato sia il serpente;
     E poi Rinaldo per la man pigliava,
     E torna alla città colla sua gente:
     E come e’ giunse alla terra, ordinava
     Di lasciar parte d’un tanto accidente
     Al secol nuovo; e quella fiera morta
     Col capo fe appiccar sopra la porta.

77 E lettere scolpite in marmo d’oro:
     Nel tal tempo, dicea, qui capitorno
     Tre paladini (e scrisse i nomi loro,
     Perchè in secreto gliel manifestorno),
     che liberarno il popol da martoro
     Per questa fiera, a cui morte donorno,
     Ch’era apparita là mirabilmente,
     E divorava tutta la sua gente.

78 E come il giorno alla fanciulla bella
     Toccava di dover morir per sorte,
     Che i tre baron vi capitorno in sella,
     Che liberata l’avean dalla morte.
     Per lunghi tempi si potea vedella
     La storia, e l’animal sopra le porte,
     Che così morto faceva paura
     A chi voleva entrar dentro alle mura.

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79 E nel palagio Rinaldo menoe35,
     E grande onor gli fece lietamente;
     E’ medici trovava, e comandoe
     Che medicassin diligentemente
     Ulivieri e Dodon, che bisognoe
     Ch’ognun più giorni del suo mal si sente;
     E Forisena intanto, come astuta,
     Dell’amor d’Ulivier s’era avveduta.

80 E perchè Amor mal volentier perdona,
     Ch' e’ non sia alfin sempre amato chi ama36,
     E non saria sua legge giusta e buona,
     Di non trovar merzè chi pur la chiama,
     Nè giusto sire il buon servo abandona;
     Poi che s’accorse questa gentil dama
     Come per lei si moriva il marchese,
     Subito tutta del suo amor s’accese.

81 E cominciò cogli occhi a rimandare
     Indrieto a Ulivier gli ardenti dardi,
     Ch’Amor sovente gli facea gittare,
     Acciò che solo un foco due cori ardi:
     Venne a vederlo un giorno medicare,
     E salutòl con amorosi sguardi:
     Chè le parole fur ghiacciate e molle,
     Ma gli occhi pronti assai com’Amor volle.

82 Quando Ulivier sentì che Forisena
     Lo salutò così timidamente,
     Fu la sua prima incomportabil pena
     Fuggita, ch’altra doglia al suo cor sente
     L’alma di dubbio e di speranza piena;
     Ma confirmato assai par nella mente
     D’essere amato dalla damigella:
     Perchè chi ama assai, poco favella.

83 Videgli ancor, poi che più a lui s’accosta,
     Il viso tutto diventar vermiglio,
     E brieve e rotta e fredda la proposta
     Nel condolersi del crudele artiglio
     Dell’animal che per lei car gli costa,
     E vergognosa rabbassare il ciglio:
     Questo gli dette massima speranza,
     Chè così degli amanti è sempre usanza.

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84 Ella avea detto: Il mio crudo destino,
     I fati, il cielo e la spietata sorte,
     O qual si fussi altro voler divino,
     M’avean condotta a sì misera morte;
     Tu venisti in Levante, paladino,
     Mandato certo dall’eterna corte
     A liberarmi, e per te sono in vita:
     Dunque io mi dolgo della tua ferita.

85 Queste parole avean passato il core
     A Ulivieri e pien sì di dolcezza,
     Che mille volte ne ringrazia Amore,
     Perchè conobbe la gran gentilezza:
     Are’ voluto innanzi al suo signore
     Morir, chè poco la vita più prezza,
     E poco men che non dissi, niente;
     Pur gli rispose vergognosamente.

86 Io non fe’ cosa mai sotto la luna,
     Che d’aver fatto io ne sia più contento;
     S’io t’ho campata da sì rea fortuna,
     Tanta dolcezza nel mio cor ne sento,
     Che mai più simil ne sentii alcuna:
     So che t’incresce d’ogni mio tormento;
     Altro duol c’è, che chiama altro conforto:
     Così m’avessi quella fiera morto.

87 Intese bene allor quelle parole
     La gentil dama, e drento al cor le scrisse,
     Sì presto insegna Amor nelle sue scole;
     E fra sè stessa sospirando disse:
     Di quest’altro tuo duol ancor mi duole;
     Forse non era il me’ che tu morisse:
     Non sarò ingrata a sì fedele amante,
     Ch’io non son di diaspro o d’adamante.

88 Partissi Forisena sospirando,
     Ed Ulivier rimase tutto afflitto,
     Della ferita sua più non curando,
     Chè da più crudo artiglio era trafitto;
     Guardò Rinaldo, e quasi lacrimando,
     Non potè a lui tener l’occhio diritto,
     E disse: Vero è pur, che l’uom non possa
     Celar per certo l’amore e la tossa37.

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89 Come tu vedi, caro fratel mio,
     Amor pur preso alfin m’ha co’ suo’ artigli;
     Non posso più celar questo desio;
     Non so che farmi o che partito pigli:
     Così sia maladetto il giorno ch’io
     Vidi costei: che fo? che mi consigli?
     Disse Rinaldo: Se mi crederai,
     Di questo loco ti dipartirai.

90 Lascia la dama, marchese Ulivieri:
     Non fu di vagheggiar nostra intenzione,
     Ma di trovare il Signor del Quartieri38;
     E ’l simigliante diceva Dodone:
     Tanto si cerchi per tutti i sentieri,
     Che noi troviamo il figliuol di Millone:
     Ulivier consentia contra sua voglia,
     Chè lasciar Forisena avea gran doglia.

91 E poi che fu dopo alcun dì guarito,
     Così Dodone insieme39 s’accordaro
     Lasciar Corbante per miglior partito,
     E che si facci de’ lor nomi chiaro,
     Sì ch’e’ possi saper chi l’ha servito;
     Ed oltre a questo ancor deliberaro
     Tentar se il re volessi battezarsi
     Col popol suo, e tutti Cristian farsi.

92 Avea Corbante fatti torniamenti,
     E giostre40 e balli, e feste alla Moresca
     Per onorar costor colle sue genti;
     Ed ogni dì nuove cose rinfresca,
     Perchè partir da lui possin contenti:
     Ma a Ulivier pur par che ’l suo amor cresca.
     Finalmente Rinaldo un dì chiamava
     Il re Corbante, e in tal modo parlava.

93 Serenissimo re, fu il suo latino41,
     Perchè da te ci teniamo onorati
     (Questo gli disse in parlar saracino),
     Sempre di te ci sarem ricordati;
     E poi ch’egli è così voler divino,
     Che i nomi nostri ti sien palesati,
     Io son Rinaldo, e fui figliuol d’Amone,
     Bench’io m’appelli il guerrier del lione.

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94 E questo è Ulivier, ch’ha tanta fama,
     E cognato è del nostro conte Orlando;
     Costui Dodon figliuol d’Uggier si chiama,
     Che venne Macometto già adorando:
     Or per seguir più oltre nostra brama,
     Così pel mondo ci andiam tapinando,
     Perchè di corte Orlando s’è partito,
     Nè ritrovar possiam ove sia gito.

95 Detto ci fu che qua verso Levante
     Era venuto da un nostro abate,
     E ch’egli aveva con seco un gigante:
     Cercando andian drieto alle sue pedate.
     Or ti dirò più oltre, o re Corbante:
     Perchè pur Macometto qua adorate,
     Siete perduti, e il vero Iddio è il nostro,
     Che del vostro peccar gran segno ha mostro.

96 Non apparì questo animal crudele
     Sanza permission del nostro Iddio,
     A divorare il popolo infedele;
     Ma perch’egli è pietoso, e giusto, e pio,
     T’ha liberato da sì amaro fele
     Perchè tu lasci Macon falso e rio:
     Fa che conosca questo beneficio,
     Sanza aspettar da lui màggior giudicio.

97 Lascia Apollino e gli altri vani Dei,
     E torna al nostro padre benedetto,
     E Belfagorre, e mille Farisei;
     Battezza il popol tuo, ch’è maladetto:
     Di ciò molte ragion t’assegnerei,
     Ma tu se’ savio e intendi con effetto;
     So che conosci ben, che quel dragone
     Non apparì qua a te sanza cagione.

98 Ogni cosa t'avvien pe’ tuo'peccati:
     Tu se'il pastor che gli altri dèi guardare,
     E molto più di te sono scusati:
     Non t’ha voluto Cristo abbandonare;
     Vedi ch’a tempo qua fummo mandati,
     Che la tua figlia ha voluta salvare:
     Dunque ritorna alla sua Santa Fede
     Di quell’Iddio, ch’ebbe di te merzede.

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99 Parve che Iddio ispirassi il Pagano,
     E rispose piangendo, e così disse:
     Dunque tu se’ il signor di Montalbano,
     Al qual simil giammai nel mondo visse!
     E questo è Ulivier, ch’udito abbiano
     Nomar già tanto! Il vostro Iddio permisse,
     Che voi venissi certo, e non Macone:
     Ed abbracciògli, e così ancor Dodone.

100 E pianse i suoi peccati amaramente;
     E disse: Io veggo, in quanto lungo errore
     Istato son con tutta la mia gente.
     E così il nostro eterno Salvatore
     Per molte vie allumina la mente,
     E desta in qualche modo il peccatore;
     E spesso d’un gran mal nasce un gran bene,
     Ch’ogni giudicio pel peccato viene.

101 Corbante fece venir Forisena,
     E disse ancora a lei chi son costoro
     Che l’avean liberata d’ogni pena;
     E poi mandò per tutto il concistoro,
     Tanto che presto la sala fu piena,
     Parata tutta di bei drappi d’oro:
     Poi salì in sedia, e fe tale orazione
     Che tutto il popol volse a sua intenzione.

102 E fece battezzar piccoli e grandi:
     Per tutto il regno suo fu ordinato,
     Ch’ognun seguissi i suoi precetti e bandi:
     E poi ch’ognun così fu battezato,
     La fama par che per tutto si sbandi42
     De’ tre baron che vi son capitato43;
     Ma i nomi lor, quanto Rinaldo volle,
     Celò Corbante a tutto il popol folle.

103 E riposârsi alquanto a lor diporto,
     E tutta la città facea gran festa,
     Tanto del vero Iddio preson conforto,
     Della sua grazia, e della sua potesta;
     Come nell’altro dir vi sarà porto,
     Dove la storia sarà manifesta;
     E priego il re della gloria infinita,
     Che vi dia pace, e gaudio, e requie, e vita.

Note

  1. [p. 100 modifica]Era nel tempo ch’ognun s’innamora. In primavera, stagione che alletta ad amare, e nella quale, come disse il Petrarca,

    Ogni animal d’amar si riconsiglia.

  2. [p. 100 modifica]un gran lione. Dall’aver salvato questo lione assalito dal feroce drago, che gli fu poi guida e compagno, prese Rinaldo il nome di Cavalier del Lione. Questo episodio è tolto da un romanzo di Chrestien de Troyes, poeta francese del XII secolo. In questo romanzo, intitolato il Cavalier del Lione, Iveno trova un lione alle prese con un drago; egli uccide il drago, e il lione se gli fa compagno, e più non l’abbandona. Il Poeta francese descrive minutamente i segni di riconoscenza dati dal lione al suo liberatore in una strofa che piacemi riportare, come quella la quale, pei tempi in che fu scritta, non manca d’una certa grazia:

    Si qu’il li comança a faire
    Sembiant que a lui se rendoit;
    Et ses piés joins li estendoit,
    Envers terre encline sa chiere,
    S’estut sor les deux piés derriere
    Et puis si se rajenoilloit
    Et tote sa face moilloit
    De larmes ec.

  3. [p. 100 modifica]fiamme per bocca ta’ dotte. Son di parere che qui l’Autore abbia adoperato a modo d’ aggettivo il sostantivo dôtta, che vale timore, paura, dal verbo dottare, temere; onde verrebbe a dire che quel drago gettava dalla bocca fiamme paurose, che facevan paura. Circa l’origine di questa voce il Bembo la vuol provenzale, sebbene il Menagio la faccia derivare dal lat. dubito, che talvolta significo anche temere.
  4. [p. 100 modifica]e rimaneva al verde. Cioè agli estremi, al fine. Dicesi anche essere, o esser condotto al verde, tolta la metafora da quella candela che si tiene accesa quando si vende al pubblico incanto, e nel tempo che essa brucia ognuno può offerire sull’oggetto che si subasta, ma quando essa è consumata, nessuno può più offerire; la qual candela usavasi in antico di tingere all’estremo di verde; onde di una cosa che sia in sul finire dicesi: la candela è al verde.
  5. [p. 100 modifica]maninconoso. Triste, afflitto; da malinconia, voce che viene dalle due greche μελαινή (nera) e χολή (bile), quasi nera bile; chè atrabile chiamarono gli antichi medici una certa qualità di umori che supponevano produrre la malinconia.
  6. [p. 100 modifica]ci hanno grattata la rogna. Cioè ci han condotti in luogo dove gli sterpi ci hanno lacerata la pelle, talchè ci avrebbero grattato la rogna, se noi ne fossimo stati malati. Rogna viene, secondo il Menagio, da rubigo, fatto poi robiginis, robigine, rogine, rogina, e finalmente rogna, perchè tal malattia che viene alla pelle è quasi la ruggine dell’uomo.
  7. [p. 100 modifica]caviglia. Lo stesso che cavicchia, ed è un piccolo legno fitto nel muro a guisa di chiodo, e viene dal lat. clavus, o clavellus, piccolo chiodo. Il Sansovino, sopra il Decamerone, fa derivare la voce cavigliuolo, diminutivo di caviglia, da capo, e piuolo.
  8. [p. 100 modifica]ghiotton da forche. Qui ghiottone, come ghiotto in altri luoghi del Poema, valgono, uomo di malaffare, scelestus. La voce italiana ghiotto deriva dalla latina glutto, usata fra gli altri da Persio: Nec glutto, sorbere salivam Mercurialem; Sat. 5.
  9. [p. 100 modifica]Io ti meriterò di tal derrate. Ti ricompenserò in modo eguale a ciò che hai fatto a me. Dicesi anche: render pan per focaccia, o frasche per foglie. I greci dicevano ἴσον ἴσῳ φέρειν. Derrata è tutto quello che si contratta in vendita, denariis venalis; dal latino barbaro, denariata, d’onde anche il francese denrée.
  10. [p. 100 modifica]col guanto. Il guanto ero quella parte delle antiche armature che cuopriva la mano; onde dare il guanto vale sfidare, invitare a battaglia, [p. 101 modifica]
  11. [p. 101 modifica]mostaccio. Dal greco μύσταξ significa il labbro superiore, e i peli che nascono sopra di esso, cioè i baffi, i quali anche diconsi mostacchi. La sopraddetta voce greca viene dal verbo μύω, che vale premere, comprimere, e anche assentire, dissimulare, lat. connivere, perchè uno dei segni di assentimento, o di connivenza, è un certo moto che si fa colle labbra. Mostaccio poi non si dice del viso dell’uomo se non per ischerzo, o disprezzo.
  12. [p. 101 modifica]Arrandellò la caviglia. Dette un colpo colla caviglia servendosene a modo di randello. Il randello, che comunemente prendesi per qualunque pezzo di legno con cui si voglia menar colpi ad altrui, è propriamente quel bastoncello corto, piegato in arco, che serve a serrar bene, e stringer le funi colle quali si legan le some, o simili cose. I Greci lo chiamarono μόχλιον, d’onde Ipomoclio, quasi quel punto vicino al moclion. Il Menagio fa derivare questa voce da ramus, o questo modo: ramus, ramidus, ramdus, randus, randellus, randello. E sarebb’egli possibile che la voce randagine, e randagio, avessero una simile origine, quasi venissero a dire andare errando come gli uccelli di ramo in ramo?
  13. [p. 101 modifica]Che d’altro che di Sol gli vuol dar caldo. Che lo vuol far riscaldare non col Sole, ma colla pugna, e coll’armi.
  14. [p. 101 modifica]fole. Folle, per comodo della rima.— a questo fu ignorante. Fu in ciò poco avveduto. La scena che qui è accennata, forma un piccolo ma strano episodio del Mambriano del Cieco da Ferrara. In esso Bradamante uccide un gigante sì smisurato, che nel cadere ficca e sprofonda sì nel terreno un re saracino e il suo destriero, che mai non si poteron più rinvenire.

    Riferisce costei che nel cadere
         Che fe il gigante sopra il re di Creta,
         Tutto in terra il ficcò lui e ’l destriere,
         Conducendolo in parte sì segreta,
         Che mai più uomo non potè sapere
         Di lui novella alcuna trista o lieta;
         E che il gigante grande a dismisura
         Non potè intrare in quella sepoltura.
    Tutti gli autori s’ accordano insieme,
         Che Galeano tu morto e sepolto
         Di tal sciagura ec.
                             Canto VIII, St. 34 e seg.

  15. [p. 101 modifica]ho quasi pagato lo scotto. Il desinare, o cena che mangiasi nelle taverne, da excoctum, quasi excoctus cibus. I Latini dissero symbolum dare, ed è il contrario di mangiare a bertolotto. Pagar lo scotto si usa anche per pagare il fio del fallo commesso, e in questo senso l’usò Dante, Purgat., Canto XXX:

    L’alto fato di Dio sarebbe rotto
         Se Lete si passasse, e tal vivanda
         Fosse gustata senza alcuno scotto
    Di pentimento che lacrime spanda.

    Ed è tratta la metafora appunto dal prezzo delle vivande. Se pure non voglia qui darsi a scotto il significato di tributo di pentimento; cioè «senza alcun tributo di pentimento ec.;» chè anche un altro Poeta usò pagare il fio per render tributo:

    E tanto a Giove e a Marie in valor cede,
    Quanto il mare ad un rio che ’l fio gli rende.

  16. [p. 101 modifica]ho quasi pagato lo scotto. Il desinare, o cena che mangiasi nelle taverne, da excoctum, quasi excoctus cibus. I Latini dissero symbolum dare, ed è il contrario di mangiare a bertolotto. Pagar lo scotto si usa anche per pagare il fio del fallo commesso, e in questo senso l’usò Dante, Purgat., Canto XXX:

    L’alto fato di Dio sarebbe rotto
         Se Lete si passasse, e tal vivanda
         Fosse gustata senza alcuno scotto
    Di pentimento che lacrime spanda.

    Ed è tratta la metafora appunto dal prezzo delle vivande. Se pure non voglia qui darsi a scotto il significato di tributo di pentimento; cioè «senza alcun tributo di pentimento ec.;» chè anche un altro Poeta usò pagare il fio per render tributo:

    E tanto a Giove e a Marie in valor cede,
    Quanto il mare ad un rio che ’l fio gli rende.

  17. [p. 101 modifica]Il gorgozzul ti debbe pizzicare. Cioè: devi avere molta voglia di mangiare. Il gorguzzule è la canna della gola, detta con termine della scienza l’esofago. Chiamasi anche gorga, o gorgia, da gurges; onde gorgogliare, che vale mandar fuori quel suono che si fa gargarizzandosi, o favellando in guisa che si senta il suono della voce senza far distinguere le parole. Noi chiamiamo tal parte [p. 102 modifica]comunemente gola, e i Latini dissero gurgulio, o curculio la tignuola, quasi animale formato di sola gola; e Plauto appropriò questo nome a quel parasito protagonista d’una sua commedia, intitolata appunto il Curculione.
  18. [p. 102 modifica]fece paura a uno. Se ne mangiò uno intero; ed eran pani della circonferenza d’un fondo di tino!
  19. [p. 102 modifica]bacalare. Uomo di gran reputazione; qui detto per disprezzo e per derisione. In senso proprio bacalare è lo stesso che baccelliere, cioè colui che è graduato in armi o in lettere, e al quale s'usa porre in testa una corona d’alloro, il che dicesi dar la laurea. Credo che la voce bacalare venga dal lat. baccalaureus, voce significante appunto baccelliere, e formata da laurus e bacca; e non da vagus, donde stiracchiatamente la fa derivare il Menagio.
  20. [p. 102 modifica]gridar le squille. Suonar le campane. La squilla è quel campanello che si pone al collo degli animali da fatica. Par che questa voce avesse origine dalla tedesca skel che ha lo stesso significato, e dalla quale nacque il latino barbaro schella, come trovasi nella Legge Salica, Cap. XXIX, Si quis schellam de caballis furaverit, poi schilla, e finalmente squilla, e il verbo squillare che significa risuonare, ὑπηχεῖν.
  21. [p. 102 modifica]Questa fanciulla. Costruisci: è toccata la sorte a questa fanciulla.
  22. [p. 102 modifica]e va pel resto. Intendi: degli anni, che secondo l’ordine naturale potrebbe ancor vivere.
  23. [p. 102 modifica]al palagio a’ confini. A' confini del palazzo, al palazzo.
  24. [p. 102 modifica]pose al berzaglio la mira. Modo proverbiale; gli messe, come suol dirsi, gli occhi addosso; cominciò a riguardarla come fa il tiratore al segno che deve colpire; il qual segno appunto si chiama bersaglio da versaculum, come opina il Menagio, quasi lucus circa quem versantur ictus sagittariorum.
  25. [p. 102 modifica]otta. Per ora, usato anche adesso nel nostro contado.
  26. [p. 102 modifica]borbotta. Va dicendo fra sè.
  27. [p. 102 modifica]l’occhio teneva al pennello. Tenere l’occhio al pennello, vale star cauto, badare, περοντισμένος σπουδάζειν.
  28. [p. 109 modifica]
  29. [p. 102 modifica]acceggia. Seguita la metafora del falcone. Acceggia è quella che comunemente chiamiamo beccaccia, e dissesi acceggia da acceia, chè così la chiamarono i Latini, forse da ἀκή (acies), in riguardo al suo lungo ed acuto becco, dal quale anche i Greci la chiamarono σκολώπαξ, o ἀσκολώπαξ dalla voce σκολοψ che significa palicciuolo acuto.
  30. [p. 102 modifica]due ghiotti a un tagliere. Lo stesso che due piccioni a una fava.
  31. [p. 102 modifica]bertesca. Riparo di legname, che faceasi in antico sopra le torri, e viene dal tedesco bret, o bert, che significa asse; e in Giovanni Villani si legge: «E fecero steccati su per gli fossi, e bertesche assai d’ogni legname.»
  32. [p. 102 modifica]La danza rinfresca. Rincomincia a motteggiarmi.
  33. [p. 102 modifica]sa d’altro già che melarance. Cioè, la cosa è seria, e da non burlare; nè da pigliare a gabbo, avrebbe detto Dante.
  34. [p. 102 modifica]ciuffare. Per acciuffare, tolte le due prime lettere, al modo dei Greci che dissero ἀνώνυμος e νώνυμος, ἀνήλιπον e νήλιπον, e simili altri.
  35. [p. 102 modifica]menoe. Questo modo di aggiungere una vocale in line delle parole terminanti per accento e sempre in uso nel nostro contado.
  36. [p. 103 modifica]80. E perchè Amor ec. Ampliamento del verso di Dante:

    Amor, che a nullo amato amar perdona.

  37. [p. 103 modifica]Celar per certo l’amore e la tossa. Modo burlesco e popolare, che mal s’affà al patetico discorso d’Ulivieri. V’è anche un proverbio che dice: «Amore, sonno e rogna non si nascondono.»
  38. [p. 103 modifica]il Signor del quartieri. Nell’antico romanzo, intitolato I Reali di Francia, si narra che Milone d’Anglante, bandito con sua moglie Berta di Francia, si mise in viaggio alla volta di Roma; ma giunto a Sutri, e mancatogli di che seguitare il viaggio, si ricoverò in una grotta che era presso di quella città, dove Berta partorì un figlio, che fu il celebre Orlando. Deliberato poscia Milone di tentar la fortuna, si partì di Sutri, lasciando Berta in sì estrema miseria, che era costretta andare elemosinando col piccolo Orlando, il quale già mostrava coraggio e forza superiori all’età sua, talchè ne’ fanciulleschi giuochi si segnalava fra tutti i fanciulli suoi coetanei; i quali, tuttochè sovente vinti ed anche battuti da lui, lo avevano come lor capo, e faceangli parte di quanto essi avevano. Ora avvenne, che essendo egli coperto di rozzi e laceri cenci, quattro di essi raccolsero denaro per vestirlo, e due comprarono del panno bianco, due del panno vermiglio, e gli fecer fare una veste a quartieri bianca e rossa. Per il che, volendo Orlando serbare di ciò memoria, usò in appresso di portare sempre l’armatura a quartieri, e volle esser chiamato col nome di Orlando dal quartiere.
  39. [p. 103 modifica]Così Dodone insieme. Vale, insiem con Dodone.
  40. [p. 103 modifica]torniamenti, E giostre. Torniamento o torneo era una specie di pubblico festeggiamento, che consisteva in varii spettacoli militari. La giostra poi è, al dire del Buti, quando un cavaliere vien contro all’altro, ovver corre con l’aste broccate col ferro di tre punte, ove non si cerca vittoria se non dello scavalcar l’un l’altro. Circa le varie etimologie di questa voce, vedi Menagio.
  41. [p. 103 modifica]fu il suo latino. Latino per discorso, oratio. Dante disse:

    Mi mosse la 'nfiammata cortesia
    Di Fra Tommaso, e ’l discreto latino.

  42. [p. 103 modifica]si sbandi. Sbandarsi vale dispergersi, andar chi in qua chi in la. Qui figuratamente per diffondersi.
  43. [p. 103 modifica]capitato. Capitato invece di capitati per comodo della rima.