Misteri di polizia/XXXVIII. Gino Capponi

XXXVIII. Gino Capponi

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XXXVII. Massimo d'Azeglio XXXIX. Giovanni Berchet

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CAPITOLO XXXVIII.

Non è senza una qualche trepidazione che noi ci accingiamo a consacrare in questo lavoro un capitolo speciale a Gino Capponi; imperocchè, non sempre impunemente si tocca a certe leggende, nè senza sollevare proteste e sdegni si strappa l’aureola che cinge la testa di certi iddii o semiddii, che la facile e compiacente venerazione di certe generazioni colloca sugli altari. Ed uno di codesti iddii o semiddii deve certamente riputarsi il Capponi, il gentiluomo letterato con spiccata tendenza all’uomo di Stato, in cui per oltre mezzo secolo s’incarnò la società fiorentina, per non dire addirittura la società toscana, e segnatamente quella parte della medesima che insieme al culto delle scienze, delle lettere e delle arti professò quello santissimo della libertà e della ricostituzione della patria italiana. Culto, questo della libertà, che molti e molti ebbero a credere che fosse vivissimo nel cuore del Capponi e che soprastasse ad ogni altro sentimento, se vollero che, morto, il discendente del rintuzzatore dell’orgoglio di Carlo VIII, di Francia, riposasse nel tempio maggiore delle glorie italiane, accanto a quel Giambattista Niccolini, contro il cui odio ai papi e ad un’Italia baciapile e paolotta, egli, il Capponi, negli ultimi anni della sua vita protestò cogli scritti e colla parola.

Francamente, a noi, che abbiamo potuto studiare il Capponi anche colla scorta dei documenti dell’Archivio della Presidenza del Buon Governo, la figura del nostro patrizio più che nel bronzo o nel marmo ci sembra scolpita in una pietra assai comune.

Forse c’inganneremo; e saremmo felici, se il nostro giudizio in certo modo potessimo correggere: ma oggi esso non [p. 335 modifica]è di sicuro favorevole al Capponi. Questi, benchè vissuto in pieno secolo XIX, a noi sembra un toscano della decadenza medicea rinvigorito di un po’ di liberalismo che a seconda i tempi va dall’enciclopedismo volterriano della seconda metà del secolo passato al neo-guelfismo della generazione che rinnegando il vecchio pensiero politico italiano preparò le aberrazioni del 1848. Sfornito d’un carattere tutto d’un pezzo, in fama di patriotta senza che per la libertà avesse mai riportato, non diremo catene o esili, ma nemmeno una di quelle innocue paternali che la mite polizia toscana non risparmiava, di tanto in tanto, ai cittadini modernamente pensanti, in fama di letterato senza che il suo nome figurasse in fronte ad un lavoro importante, in fama d’uomo di Stato della vigorìa di coloro coi quali operarono i suoi maggiori, mentre predisse guai e sventure per la rivendicazione di Roma all’Italia, — Gino Capponi, col suo amore platonico della libertà, col suo amore, piuttosto da gentiluomo ozioso che da letterato, per le lettere e gli uomini di lettere, colle sue contraddizioni, colle sue simpatie d’oggi ch’erano le sue antipatie del giorno prima, è una specie di dilettante in tutto: dilettante in letteratura, dilettante in religione, dilettante in politica.

Meno male se nel Capponi non fosse degno di rimprovero che il solo dilettantismo. Il Capponi è in permanente contraddizione con sè stesso. È sempre lo stesso Capponi che ha l’uffizio di smentire e contraddire il Capponi. Affacciatosi alla vita pubblica coll’amicizia di Ugo Foscolo quando il poeta zacintio iniziò in Italia la dolorosa e lunga serie degli esili per ragione politica, si stringe subito in intima relazione con Federigo Confalonieri che allora cospirava contro l’Austria; diventa l’amico del conte Luigi Porro, di Silvio Pellico, di Pietro Borsieri, di Giuseppe Pecchio, che come il Confalonieri, cercavano d’infrangere il giogo della tirannide italiana e straniera; nello stesso tempo diventa il corrispondente fiorentino di Carlo Alberto, che insieme alla gioventù piemontese preparava colle scuole elementari ed altre simili istituzioni educative il moto che doveva miseramente finire colla fuga dello stesso principe e l’esilio [p. 336 modifica]dei compagni di questo. Dà in Toscana il suo nome a tutto ciò che è progresso, libertà; s’atteggia a partigiano di riforme politiche; protesta contro lo sgoverno dei preti negli Stati della Chiesa. Ma egli si fa innanzi negli anni ed ecco che l’amico d’Ugo Foscolo si fa guelfo; ecco che egli si fa chiudere in faccia la porta di casa di G. B. Niccolini, che non vuol saper di papi liberaleggianti cui lascia all’adorazione dei Girella. Ma il Capponi non si ferma qui; risorta l’Italia, malgrado che il partito neo-guelfo del 1848 sia stato un’enorme disillusione, egli s’imbranca fra i liberali cattolici, fra i partigiani d’una miscela impossibile, irragionevole, stupida, quella cioè, della libertà e della sagrestia, della resurrezione d’Italia e di Roma conservata al Papa per farne quello sgoverno ch’egli stesso, il Capponi, nel 1846, stigmatizzava con parole di fuoco sull’Ausonio di Parigi; si spaventa del matrimonio civile, benchè Massimo d’Azeglio, in fama di conservatore, si affatichi a provargli come un po’ di sciarpa tricolore nel settimo sacramento non mandi in malore nè Dio, nè i santi, nè la società. Negli ultimi anni della sua vita, il guelfismo lo rese poi suo mancipio. Laonde oppugna Roma capitale dell’Italia e nella breccia di Porta Pia non vede che il principio della fine: triste presagio che il patriottismo degli italiani disperse. E perchè non gli manchi nemmeno la fede dei poveri di spirito, crede nei miracoli e manda a Napoli quattrini per la canonizzazione d’un frate1. [p. 337 modifica]

Cominciare dall’amicizia dell’autore di Iacopo Ortis e dei Sepolcri e dalla fede nei carbonari del 1821, per andare a finire nelle sagrestie e nelle celle dei frati!

Certamente il Capponi non fu sempre un collotorto o un mezzo collotorto. Come già abbiamo detto, egli figurò fra coloro che dalla restaurazione dei governi legittimi, avvenuta nel 1814, ai rivolgimenti del 1848, furono alla testa del movimento liberale. Nei rapporti segreti della Polizia toscana del 1821, più d’una volta egli fu denunziato come uno dei pezzi grossi dei Carbonari della città; e dalla lunga processura economica apertasi in quel tempo contro la carboneria, a detta della stessa Presidenza del Buon Governo, risultò il Capponi come fortemente indiziato d’appartenervi insieme al marchese Piero Torrigiani; e a questo, come al Capponi, il Puccini volle certamente alludere, quando domandò al Granduca che stendesse un velo pietoso sui settarî, adducendo tra gli altri motivi, anche questo, cioè: che il rigore avrebbe colpito insieme a famiglie borghesi, famiglie patrizie2.

Probabilmente sarà bastato al Capponi per ravvedersi un semplice ammonimento, e crediamo tanto più verosimile tale congettura in quanto che vediamo poco dopo il nostro patrizio essere posto a fianco del giovane Principe di Carignano: la qual [p. 338 modifica]cosa sarebbe stata semplicemente impossibile, se in quei dì lo stesso Capponi non avesse dato di sè e della sua devozione al Granduca solide garanzie. Ciò non tolse però che fra i sanfedisti e fra i poliziotti non godesse fama di rompicollo, di malpensante e di settario, e non lo si denunziasse come un nemico del trono e dell’altare. Negli atti segreti della Polizia dell’anno 1833, esiste sul Capponi un curioso appunto redatto d’ordine della stessa Presidenza del Buon Governo: un appunto dove, per ordine di data, sono segnate tutte le accuse che da quasi tredici anni a quella parte Bargelli, Ispettori e Commissari avevano spiegate nelle loro note riservate contro il marchese. Così apprendiamo che in un rapporto del 6 ottobre 1823, il Commissario di S. Croce sospettava che il Capponi potesse avere un carteggio segreto, d’indole politica, coi liberali di Francia e scambiato per mezzo di pedoni; quasi sullo stesso tempo un altro agente riferiva che il nostro patrizio aveva spedito segretamente a Genova un messo ed un altro ne aveva ricevuto, sempre con mistero; nel marzo del 1826, essendo egli ammalato si notò in casa di lui una grande affluenza di liberali per parlarvi degli affari di Russia e Turchia, distinguendosi sopra tutti il generale Colletta, esule napoletano; ragionamenti non esclusivamente platonici, imperocchè aperta e patrocinata dal Capponi una oblazione a favore dei greci insorti contro il legittimo Governo Ottomano, trecento zecchini offrì lo stesso Capponi, cento il cavaliere Girolamo Bardi, cento il conte Piero Mozzi, cinquanta il marchese G. B. Capponi, cinquanta il marchese Vincenzo Capponi, cinquanta il D’Elci, cento il cavaliere Altoviti, quattromila scudi, da vero signorone notante fra i rubli, il conte Demidoff3. [p. 339 modifica]Fattisi procellosi i tempi, le denunzie della Polizia diventarono più gravi. Così con rapporto del 4 maggio 1833, il Capponi era additato come uno dei capi della sètta rivoluzionaria in Toscana, malgrado la sua riconciliazione colla Corte seguita nel carnevale di quell’anno stesso, accettando un invito a Pitti. Il 1 giugno (sempre del 1833), un rapporto segreto denunziava la formazione a Firenze d’una sètta rivoluzionaria: I Veri Italiani, e nello stesso tempo come capi della Giovine Italia erano denunziati il Capponi, Giuseppe Panattoni e Vincenzio Salvagnoli. L’anno appresso il Commissario di Santa Croce, prendendo occasione di certe visite che il Capponi faceva a Giuditta Bellerio, amante ed emissaria di Giuseppe Mazzini, lo chiamava addirittura „uno dei primarî rivoluzionarî della Toscana in relazione epistolare col nefando profugo genovese.„

Contro siffatte denunzie (non ne abbiamo riferito che un saggio) stanno le esplicite dichiarazioni dello stesso Gino Capponi, il quale, caduto il Governo lorenese, affermò sempre di non essere stato mai aggregato a veruna sètta politica. Il 6 febbraio 1865, scriveva al direttore del Siécle di Parigi: „Ainsi l’on fait de moi un carbonaro: or je n’ai appartenu de toute ma vie à aucune secte de quelque specie que ce soit.... (Epistolario, vol. IV).„ Più tardi, nel dicembre 1875, Cesare Cantù gli dirigeva la seguente lettera: „Nel 1821, voi scriveste una lettera a Federigo Gonfalonieri raccomandandogli un certo sig. Tartini4, uno dei [p. 340 modifica]sostegni delle nostre intraprese liberali. Su quella lettera il Pellico fu escusso evidentemente.... Chi era il Tartini? Del 1828, è una lettera d’un confidente a cui doleva di non poter dir molto di voi, perchè al domani del giorno che vi fu presentato, voi partiste con Colletta.„ A siffatta lettera, a cui il Cantù sperava di veder rispondere Dio sa con quali rivelazioni, o per lo meno con quali particolari sulle relazioni passate fra i carbonari milanesi e il Capponi, questi dava la seguente risposta: „Quando parlavo delle nostre intraprese liberali, non ero altro che un innocente ciucciarello; perchè altre non n’ebbi mai: la mia rusticità su questo punto non ebbe un momento mai di tentazione, perchè a roba di quel genere non mai credetti. Se il Pellico ebbe su quel documento la Polizia addosso, ciò mostra essere le polizie più eunuche di me.„ (Epist. vol. IV, pag. 421).

Si sarebbe, dunque, ingannata la Polizia quando per anni ed anni ritenne il Capponi per un uomo d’azione, per un rivoluzionario? Ma noi domandiamo: se il nobile uomo non avesse mai fatto parte nè della massonerìa, nè della carbonerìa, nè della Giovine Italia, nè di nessuna di quelle sètte società segrete che nella prima metà del secolo presente solcarono in tutti i sensi la penisola, o come avrebbe fatto a cattivarsi la stima, la fiducia e l’amicizia di uomini che non vivevano che nelle sètte, e per le sètte? Se il Capponi non fosse stato un carbonaro, Federigo Confalonieri gli avrebbe dischiuso i più segreti penetrali dell’anima sua? Se non fosse stato a parte di quel movimento sotterraneo che agitava l’Italia alla vigilia dei moti di Napoli e di Piemonte, e al quale lo stesso Carlo Alberto non era intieramente estraneo, questi ringraziando il Capponi degli auguri fattigli per la nascita di Vittorio Emanuele, gli avreb- [p. 341 modifica]be forse scritto le seguenti notevoli parole, che solo un carbonaro, in quei giorni, avrebbe potuto scrivere: „Era già, prima persuaso della parte ch’egli (sic), avrebbe preso in un avvenimento così fortunato per la nostra famiglia.... La nascita di mio figlio è quella d’un Principe veramente italiano, ma nello attaccamento per la nostra bella patria non mi supererà sicuramente mai.5?„ E se non avesse avuto lo zampino ficcato nelle cose delle sètte, avrebbe il Capponi, il 1 febbraio 1841, potuto scrivere a Pietro Rolandi, un italiano che a Londra, legato in istretta amicizia col Mazzini, stampò il Commento della Divina Commedia di Ugo Foscolo6: „Io faccio voti per questa impressione (quella dell’opera sopraricordata e stampata col concorso del grande profugo genovese) la quale è ottimamente affidata a Lei e al Mazzini, ch’io La prego a salutare per me.... Già la prefazione (del Mazzini) a questo primo volume è un bel saggio d’ottimo giudizio intorno al Foscolo?„ È vero che questo fregarsi del Capponi alle costole del Mazzini, potrebbe anche spiegarsi come cosa assai innocente e del tutto letteraria; ma noi crediamo che se in quegli stessi giorni in cui il Capponi mandava a salutare familiarmente il Mazzini, ch’era la bestia nera di tutti governi d’Europa, da quello inglese infuori, qualcuno avesse proposto a Cesare Balbo o a Massimo D’Azeglio (due uomini che realmente non appartennero a nessuna società segreta) di mandare i loro saluti al grande agitatore, essi avrebbero gridato all’imprudente consigliere: Vade retro, Satana. Nella loro coscienza di gentiluomini liberali, ma moderati, avrebbero creduto di farsi complici, magari spirituali, di Dio sa che spedizioni di Savoia più meno rivedute e corrette!

Che poi il Capponi non fosse legato ai rivoluzionari dei sui tempi con semplici vincoli letterari o di buona società, ce la fa credere fermamente un episodio della vita dello stesso [p. 342 modifica]Mazzini e a noi rivelatoci dall’esame degli atti dell’Archivio Segreto della Presidenza del Buon Governo.

Nell’ottobre del 1833, quando il Mazzini preparava la spedizione di Savoia e dappertutto cercava uomini e denari, sopratutto denari, volendo associare alla sua impresa la Toscana, ove, in verità, le sètte non avevano mai fatto buona prova, mandò a Firenze (ma non tanto segretamente che la Polizia non venisse a scoprire il mistero) la giovane baronessa Giuditta Bellerio, di Milano, vedova di Giovanni Sidoli, modenese, morto profugo, in seguito ai casi del 1831, a Parigi. Era la Bellerio una bella, bionda e spiritosa signora, di principî repubblicani, unita al Mazzini, oltre che dalla fede politica, dall’amore. La Polizia che nella formosa donna aveva scoperto un’emissaria della Giovine Italia, le intimò senza tanti complimenti lo sfratto, anche perchè era venuta a Firenze con un falso passaporto. Ma la Bellerio, che intendeva di farla alla Polizia, senza negare le sue relazioni col Mazzini e coi principali profughi italiani, assicurò il Bologna come la sua venuta in Toscana non avesse nessuno scopo politico, ma quello di poter vivere in un cantuccio di terra italiana, non tanto lontano dai suoi figli, che erano a Modena, ed ove la polizia di Francesco IV non avrebbe mai permesso ch’ella ponesse il piede; e il Governo toscano, che quando voleva sapeva essere un furbacchione di tre cotte, fingendo di credere alla sincerità di quelle proteste, revocò l’ordine di sfratto e permise che la Bellerio piantasse le sue tende a Firenze, purchè queste fossero custodite dalla polizia, e birri e spie potessero guardarvi dentro a tutte le ore. La bella signora imprudentemente accettò le condizioni poste dal Governo, ed andò ad abitare quasi accosto al palazzo del Buon Governo, in via del Proconsolo, in casa d’un poliziotto, ove, a poco a poco, la solitudine che nei primi giorni s’era creata la donna gentile cominciò, con grave scandalo dell’illustrissimo signor Commissario di Santa Croce, che la sorvegliava, a dileguarsi. Dapprima frequentò la casa della Bellerio, Riccardo Biscar[p. 343 modifica]di7, amico del Capponi, e le cui riunioni serali rallegrate dai sorrisi e dallo spirito della moglie, erano frequentate dallo stesso Capponi, che di quel sorriso e di quello spirito si mostrava lieto, forse fin troppo lieto, dal Tommasèo, dal marchese Cosimo Ridolfi, da G. P. Vieusseux e da altri caporioni del partito liberale; poi, misteriosamente, vi s’introdusse il Capponi, il quale, in seguito, smettendo il mistero, praticò quella casa quasi quotidianamente, restando a confabulare per ore ed ore colla Bellerio: confabulazioni di cui la Polizia non potè mai scoprire il tenore, ma che dapprincipio le fecero malignamente sospettare che l’amore non fosse estraneo alle stesse. Il qual sospetto fu di durata assai breve; imperocchè essendo stato presentato alla signora dallo stesso Capponi il giovanissimo figlio del generale conte Fontanelli, che si diceva latore di lettere del Mazzini, fra la bionda amica del grande agitatore e il figlio dell’ultimo ministro della guerra del primo regno d’Italia, si scrisse a quattro mani un romanzo d’amore, che i bracchi della Polizia eran costretti a seguire in tutti i suoi particolari più intimi, non senza sentirsi di tanto in tanto comicamente imbarazzati dinanzi ad una missione, che dal campo della politica li sbalestrava addirittura in quello della formosa iddia di Gnido. Certamente, quel dramma, aveva un fine recondito. Quello apparente, i poveretti, lo capivano pur troppo; ma era appunto questa chiara cognizione dei segreti d’alcova della bella signora lombarda, che rendeva quei poliziotti comicamente impacciati.

Però ciò che non arrivava a vedere la bassa polizia, quella altissima lo vedeva chiaramente. Quest’ultima, che aveva la sua sede principale nel gabinetto del Granduca, era arrivata a mettere le mani sulle lettere della Bellerio e del Mazzini; e mentre il Commissario di Santa Croce e i suoi uomini erano costretti a contare melanconicamente le ore che il giovine conte Fontanelli passava insieme alla bionda signora, il Granduca e i ministri prendevano copia [p. 344 modifica]delle lettere, metà amorose e metà politiche, che il Mazzini scriveva dalla Svizzera alla sua volubile e capricciosa amica. Più tardi, quest’ultima, stanca di vivere in un carcere dorato, volle lasciar Firenze; ma il Governo che aveva preso gusto a quel giuoco e che per mezzo di lei poteva leggere sin nel fondo del cuore del Mazzini, le rifiutò il passaporto; se non che la signora, che aveva troppo vissuto fra le cospirazioni per restarsene colle mani alla cintola dinanzi a quel rifiuto, aiutata dal Capponi e dal ministro inglese presso il Governo Toscano, pensò, di nascosto, svignarsela. La Polizia a cui non isfuggiva nessun atto come nessun pensiero della Bellerio, raddoppiò di vigilanza e il giorno destinato alla fuga, mise in moto guardie ed ispettori. La signora, che ancora aveva da prendere qualche accordo col Capponi, scrisse a quest’ultimo un biglietto con che gli dava un appuntamento in Duomo. Il biglietto, d’un carattere assolutamente intimo, rivelava come fra l’amica del Mazzini e il marchese non ci fossero segreti. Esso era del tenore seguente: „Caro Gino; a mezzodì trovati in Duomo; ho bisogno di parlarti.„ Cosa assai singolare, il biglietto trovasi ora fra gli atti segreti della Polizia, benchè non fosse stato sequestrato nè in casa della Bellerio, nè nelle mani del latore, essendo esso pervenuto al Capponi, come lo dimostra il fatto attestato dal Commissario di Santa Croce nel rapporto del 9 settembre 1834, cioè che lo stesso giorno fissato per l’appuntamento, fu vista la Bellerio uscir di casa, e qualche minuto prima del mezzodì entrare in Duomo, dove, nella navata di destra l’aspettava il Capponi col quale la signora s’intrattenne. La sera di quel giorno l’amica del Mazzini prendeva la fuga; ma la Polizia che non la perdeva d’occhio, la raggiunse, e l’arrestava l’indomani in quel di Pescia.

Ora noi domandiamo: il Capponi avrebbe potuto cattivarsi la fiducia — una fiducia intiera, illimitata, come abbiamo visto — dell’amica e dell’emissaria del Mazzini, se egli non fosse stato legato coi liberali, compresi i mazziniani, con vincoli assai più tenaci di quelli di una semplice amicizia? Giuditta Bellerio, che malgrado i suoi occhi glau[p. 345 modifica]chi sorridenti d’amore, aveva anima di cospiratrice; che aveva dovuto fuggire da Modena dove la Polizia la riteneva per un soggetto pericoloso; che ricoveratasi in Francia, a Marsiglia, aveva schiuso la porta della sua casa ai più illustri rappresentanti dell’idea rivoluzionaria italiana, ai fratelli Fabrizii, all’Ardoino, al conte Bianco, a Luigi Amedeo Melegari, all’Armandi, a Gustavo Modena, e, segnatamente, a Giuseppe Mazzini che l’aveva subito amata d’un affetto immenso, pazzo; che aveva seguito il suo giovine e già celebre amico in Isvizzera; che l’aveva più d’una volta sottratto alle ricerche della polizia federale, nascondendolo in sua casa; che conosceva tutti i segreti della Giovine Italia; che insieme al Mazzini, verso la metà del 1833, aveva preparato una spedizione sul territorio Italiano, che poi fu infruttuosamente tentata nei primi giorni del febbraio 1834 in Savoia; che era venuta a cercare aiuti per siffatta spedizione in Toscana; che durante il suo soggiorno a Firenze ebbe dal Mazzini numerose lettere in cui il capo della Giovine Italia le apriva schiettamente l’animo suo e che fra una frase d’amore e l’altra le dava notizia non solo d’ogni suo pensiero, d’ogni suo atto, ma d’ogni pensiero e d’ogni atto dei suoi amici di cospirazione, non esclusi i più compromessi, e si sfogava in maledizioni contro il generale Ramorino, ch’egli riteneva traditore8; Giuditta Bellerio, diciamo, [p. 346 modifica]avrebbe preso a suo confidente intimo, a testimonio di tutte le sue azioni un uomo che non fosse stato a parte dei segreti della Giovine Italia? Ma potrebbe qualcuno dire: e se il Capponi avesse frequentato il salotto mazziniano della Bellerio nella sua qualità di gentiluomo e di adoratore della bellezza muliebre, indipendentemente da ogni motivo politico? Ma se a siffatta supposizione si dovesse per un momento riconoscere un’apparenza di serietà, bisognerebbe supporre anche che il Capponi avesse ignorato, per quasi un anno, chi fosse la Bellerio, che cosa fosse venuta a fare e che cosa facesse a Firenze; in quali rapporti vivesse colla Polizia; quali relazioni avesse col Mazzini; cose tutte che il Capponi non poteva ignorare, sia perchè la prigionia dorata della Bellerio non era un segreto per alcuno9, sia perchè lo stesso Mazzini, scrivendo alla sua amica, chiedeva: „L’ami de Thomas ne t’oublie sans doute?„ E l’amico di Thomas (nelle lettere dirette dal Mazzini alla Bellerio il Tommasèo è chiamato Thomas) non poteva essere che il Capponi, perchè degli amici fiorentini dello scrittore dalmata il solo Capponi frequentò la casa della Bellerio.

Ma qui la matassa s’arruffa in un modo maledetto. Imperocchè, ammesso che il Capponi avesse fatto parte della Giovine Italia, o per lo meno ne avesse conosciuto i segreti per mezzo della Bellerio, resterebbe inesplicabile la condotta della Polizia verso di lui. Come abbiamo già detto, durante il soggiorno della Bellerio a Firenze, più d’una volta commissari ed ispettori denunziarono al Presidente del Buon Governo d’essere il Capponi in relazione col Mazzini. Il Commissario dì Santa Croce lo additò alla collera del Governo come il principale cooperatore della fuga della Bellerio. Ebbene, il Bologna non diede mai ascolto a quelle accuse; in un rapporto del Buon Governo, anzi, è ricordato come nel carnevale dell’anno innanzi (1833) il Capponi [p. 347 modifica]si fosse riconciliato colla Corte, accettando insieme al marchese Cosimo Ridolfi un invito a Pitti: e, cosa curiosa, la riconciliazione si ricordava precisamente nei giorni in cui il Capponi si mostrava assiduo frequentatore di casa Bellerio; lo che non era un mistero per la Presidenza del Buon Governo.

Come si vede, un po’ più di luce su questo punto della vita del Capponi non giungerebbe perfettamente inutile.

Non sempre però la Polizia fece orecchio da mercante a quanto i suoi confidenti le andavano susurrando sul conto del Capponi. Nel 1837 si stabilì a Firenze Ortensia Allart, scrittrice francese, che un rapporto dell’Ispettore del 14 settembre 1840 chiama „donna di bell’aspetto e di tratto il più civile.„ Andò ad abitare in un quartiere di via della Scala, e la sua casa fu subito frequentata dagli uomini più colti che fossero allora in Firenze, mostrandosi più di tutti assidui presso la signora straniera il Niccolini (l’autore di Antonio Foscarini), Domenico Valeriani, accademico della Crusca, e il Capponi. Quest’ultimo, anzi, più di qualsiasi altro seppe cattivarsi la amicizia e la simpatia della Allart, la quale essendo belloccia, piena di spirito e piuttosto spregiudicata in fatto di costumi, faceva scrivere allo stesso Ispettore ch’era una donna assai proclive alle avventure galanti con una certa inclinazione alla gloria letteraria. Si diceva maritata, ma nessuno credeva al suo matrimonio, anche perchè il marito non fu visto, nè mai scrisse. All’incontro si scoprì che in una campagna di Scarperia, un certo bambino interessava assai l’Allart, che di quando in quando l’andava a trovare, vivendo spesso dei giorni presso la famiglia a cui il marmocchio era stato affidato, e facendo rimanere in contemplazione sbalorditoia i contadini dei dintorni che non sapevano rendersi ragione come una signora giovine, bella, elegante, potesse vivere laggiù, quasi nascosta, [p. 348 modifica]non procurandosi altra distrazione da quella in fuori della lettura, che faceva a voce alta. Poi essa sparve da Firenze; ma da Parigi, ove aveva fatto ritorno, intavolò col Capponi una corrispondenza epistolare, che destò i sospetti del Governo; il quale, dati gli ordini al famoso Gabinetto Nero, questo, come aveva fatto per le lettere del Salvagnoli, del Poggi, del Mazzini, della Bellerio e di tanti altri più meno in fama di liberali e di cospiratori, aprì le lettere che l’Allart scriveva al suo nobile amico, prendendone copia pel dipartimento della Polizia. Il carteggio, in verità, era assai innocente: qualche lettera conteneva delle lunghe dissertazioni di storia longobarda dove la signora dissentiva dal Capponi; in una soltanto faceva capolino la politica. In essa l’Allart scriveva: „Venite a Parigi; monsieur Thiers non potrebbe far nulla per l’Italia senza di voi.„ Come sarà facile ad immaginare, il primo a ridere della ingenuità della signora in materia politica, sarà stato lo stesso Capponi10.

Ma i sospetti dell’alta Polizia (come si chiamava quella che esercitavano direttamente i ministri e il Granduca) non ebbero che una breve durata; non formarono, anzi, che una breve parentesi in quella benevola attitudine in cui il Governo lorenese si mantenne sempre di fronte al Capponi, benchè questi, non di rado, andasse a scegliere i suoi amici nel mondo sotterraneo dei cospiratori. E di questa benevola attitudine del Governo di Leopoldo II, verso colui che non solo i rivoluzionari di tutta Italia, ma anche la bassa Polizia, consideravano come il patriarca del partito liberale to[p. 349 modifica]scano, possiamo fornire ai nostri lettori un’altra prova, ricavata sempre dagli atti dell’Archivio Segreto del Buon Governo.

Nel 1845, lo sgoverno toccava il colmo negli Stati pontificî, sopratutto nelle Romagne. Cardinali, monsignori, birri, gendarmi, secondini, ai quali di tanto in tanto s’univa il boia, commettevano in quei disgraziati paesi atti di ferocia che indignavano anche gli animi più freddi ed avversi alle sètte e ai moti rivoluzionarî. N’erano indignati i medesimi governanti toscani. Appunto in quel tempo il D’Azeglio visitò quelle provincie, e di ritorno da quel suo viaggio, pubblicò a Firenze, col suo nome, ma colla data d’Italia, il famoso opuscolo: Degli Ultimi Casi di Romagna. Quelle pagine, forse, perchè per la prima volta un liberale parlava un linguaggio schiettamente moderato, destarono rumore, e il Granduca che ci aveva alle costole un pedagogo nel ministro austriaco, portavoce del principe di Metternich, intimò all’autore della Disfida di Barletta lo sfratto. Ma quasi nel medesimo tempo, il Capponi pubblicava sull’Ausonio, un giornale italiano che si stampava a Parigi, sotto la direzione della contessa Cristina Belgioioso, un articolo, ch’era una vera requisitoria pel Governo del papa. Ebbene, il Governo chiuse un occhio, e il Capponi fu lasciato in pace.



Note

  1. Della semi-bacchettoneria in cui era caduto il Capponi negli ultimi anni della sua vita, fa fede il suo Epistolario. Il 19 ottobre 1864, avendo saputo che la sede del Parlamento d’Italia sarebbe stata nel convento di San Firenze, scriveva al padre Capocelatro: „Si poteva cercare un luogo al Parlamento, senza bandire da Firenze San Filippo Neri.„ Esagerazione che appena appena in quei giorni sarebbe stata a posto in bocca al più rugiadoso campione del paolottismo; imperocchè, a Firenze, anche mettendo la sede del Parlamento nel convento di San Firenze, non si sarebbe punto bandito San Filippo. Il 7 novembre dello stesso anno, a proposito del concetto di Roma capitale, il Capponi scriveva a S. L. Morelli: „La fisima romana... è là a guastare ogni cosa.„ E al Reumont, avvenuta l’occupazione di Roma: „Non sono stato dei più ardenti a gridare viva Roma; io però le dirò il contrario, cioè che vi ho preso collera e quasi terrore per le conseguenze, come di rado mi è accaduto.„ E l’illustre marchese dorme ora il sonno della morte accanto a Niccolò Machiavelli! Quanto poi ai quattrini che dava per beatificare i poveri di spirito, ecco come il padre Capecelatro glieli chiedeva: „Come facciamo una raccolta d’elemosine per la beatificazione del venerabile.... chiedo l’obolo anche a voi, nel nome del nostro futuro santo.„
  2. Vedi quest’opera: Cap. VI, pag. 42.
  3. Il Governo dapprima, e certamente in omaggio alla legittimità del Governo del palo e dei bascià tagliatori d’orecchie cristiane, proibì la colletta, poi lasciò correre, purchè alla colletta si desse non forma pubblica, ma privata, non potendosi proibire (scriveva don Neri Corsini il 17 giugno 1826) alla „pietà individuale che facesse il suo corso per la Grecia.„ La colletta, peraltro, era timidamente fatta in nome della carità cristiana. Fra le parole che l’accompagnavano, si leggevano questo: „I Cristiani d’Oriente hanno diritto d’esser soccorsi dai Cristiani d Occidente.„
  4. La Polizia di Milano, quando fu istituito il processo contro il Confalonieri, interrogò quella di Firenze sul Tartini, che l’illustre patrizio lombardo aveva conosciuto in un suo viaggio in Toscana. Il Buon Governo, al 31 gennaio 1822, rispose: „Ferdinando Tartini-Silvatici appartiene ad una buona famiglia di ceto medio; ha molto rapporto (sic) per lo studio della letteratura; ha viaggiato per istruirsi; è impiegato nel catasto.„ La Polizia austriaca, in quella occasione, aveva chiesto informazioni anche sul Capponi, col quale il Confalonieri era in intimità, e sull’avvocato Lorenzo Collini. Nel Cap. VII di questa opera noi; pubblicammo la risposta data dal Presidente del Buon Governo sul Capponi; quella sul Collini non offriva nulla ad osservare.„ Nei passati torbidi passò per partigiano di novità, ma ora nulla risulta a suo danno.„ Informazioni che non rispondevano a quanto commissarî ed ispettori riservatamente riferivano, perocchè tanto il Tartini quanto il Collini erano ritenuti dalla Polizia soggetti pericolosi ed erano sorvegliati: ma il Puccini sapeva dipingendo costoro con foschi colori, avrebbe aggravato la posizione del Confalonieri e dei suoi compagni minacciati di capestro; e tacque.
  5. Epist. vol. V, pag. 186.
  6. Il Rolandi era anche un affiliato alla Giovine Italia. Vedi in quest’opera il Capitolo: Giuseppe Giusti.
  7. Qualificato dalla Polizia per professore di lingue straniere.
  8. Delle lettere del Mazzini, che noi speriamo quanto prima di rendere di pubblica ragione, diamo qui in nota il seguente passaggio, che si riferisce all’ardente passione che la Bellerio aveva ispirato al profugo genovese: „Vois-tu combien de lettres en si peu de jours! Je te benis mille fois, toi, mon ange de consolation, et le hazard aussi qui a fait en sorte, qui toutes tes lettres arrivent presqu’en même temps. Mon Dieu! j’en avais et j’en ai encore bien besoin — car, tu es ma vie a moi: il reste n’est que douleur et misére. Toi, tu me parles avec tant d’amour — il y a des mots dans ta lettre da 15 qui m’ont fait encore et malgré tout tresaillir de bonheur. Sais-tu ce qui cela veut dire pour moi, et dans ma position d’ésprit? Je te dis; ah! ne doute jamais de moi, de mon amour, de rien; tu serais coupable envers moi, car j’ái appris moi même dans ces dérniers jours la force de mon amour.„ La lettera è del 26 febbraio 1834, cioè, di pochi giorni dopo la spedizione di Savoia.
  9. La stessa Bellerio ebbe ripetutamente a lagnarsi col Bologna, presidente del Buon Governo, del modo poco o punto decente con che era spiata e sorvegliata dagli agenti della Polizia. La Bellerio (e l’abbiamo già detto) quando fu conosciuta dai Capponi abitava in casa del custode della Presidenza del Buon Governo.
  10. Abbiamo saputo dallo stesso cav. Carraresi, l’editore dell’Epistolario del Capponi, che il figlio della signora Allart, benchè ripetutamente pregato, si rifiutò sempre a mandar copia delle lettere spedite dal marchese alla madre.