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CAPITOLO XXXVIII.

Non è senza una qualche trepidazione che noi ci accingiamo a consacrare in questo lavoro un capitolo speciale a Gino Capponi; imperocchè, non sempre impunemente si tocca a certe leggende, nè senza sollevare proteste e sdegni si strappa l’aureola che cinge la testa di certi iddii o semiddii, che la facile e compiacente venerazione di certe generazioni colloca sugli altari. Ed uno di codesti iddii o semiddii deve certamente riputarsi il Capponi, il gentiluomo letterato con spiccata tendenza all’uomo di Stato, in cui per oltre mezzo secolo s’incarnò la società fiorentina, per non dire addirittura la società toscana, e segnatamente quella parte della medesima che insieme al culto delle scienze, delle lettere e delle arti professò quello santissimo della libertà e della ricostituzione della patria italiana. Culto, questo della libertà, che molti e molti ebbero a credere che fosse vivissimo nel cuore del Capponi e che soprastasse ad ogni altro sentimento, se vollero che, morto, il discendente del rintuzzatore dell’orgoglio di Carlo VIII, di Francia, riposasse nel tempio maggiore delle glorie italiane, accanto a quel Giambattista Niccolini, contro il cui odio ai papi e ad un’Italia baciapile e paolotta, egli, il Capponi, negli ultimi anni della sua vita protestò cogli scritti e colla parola.

Francamente, a noi, che abbiamo potuto studiare il Capponi anche colla scorta dei documenti dell’Archivio della Presidenza del Buon Governo, la figura del nostro patrizio più che nel bronzo o nel marmo ci sembra scolpita in una pietra assai comune.

Forse c’inganneremo; e saremmo felici, se il nostro giudizio in certo modo potessimo correggere: ma oggi esso non