Memorie e lettere (Bentivoglio)/Nota
Questo testo è completo. |
◄ | Dai carteggi domestici - XII | Indice dei nomi | ► |
NOTA
I
Abbiamo tenuto presente per questa edizione delle Memorie del Bentivoglio quella di Venezia: Memorie del Cardinal Bentivoglio, MDCXLVIII, per Giunti e Baba, e quella di Amsterdam del medesimo anno: Memorie overo diario del Card. Bentivoglio, appresso Giovanni Janssonio.
A proposito dell’edizione di Venezia, nota il Fontanini: «edizione alquanto scorretta, e meritevole di rinnovarsi con altra piú esatta»1. Ed a sua volta Apostolo Zeno, richiamando queste parole e nello stesso tempo ricordando anche l’edizione di Amsterdam, dice: «quale di queste due edizioni, uscite nell’anno medesimo, sia stata la prima non si può con sicurezza decidere. Essendo comparse le prime stampe dell’altre opere di questo gran Cardinale di lá dai monti, pare che militi la ragione anche per queste Memorie a favore della impressione di Ollanda. Dall’una all’altra ho osservato in piú luoghi correr qualche diversitá, e però il nostro Monsignore (il Fontanini) non mostrandosi molto soddisfatto di quella di Venezia, dice che si potrebbe, collazionando insieme amendue, darne una piú esatta ristampa».
Ciò che si auguravano il Fontanini e lo Zeno abbiamo cercato di fare noi.
Riportiamo dalle prime pagine alcune delle lezioni diverse che si trovano in non pochi punti davvero delle due edizioni.
Nella prefazione:
p. 4: ed. Venezia: «questa etá senile di sessantatre anni e ormai cadente»;
ed. Amsterdam: «questa mia etá di sessantatre anni, etá ormai cadente»;
p. 4: ed. Venezia: «per conoscere di nuovo tanto piú il viver del mondo»;
ed. Amsterdam: «per conoscere di nuovo tanto piú i veri del mondo»;
p. 4: ed. Venezia: «non basta il sapere»;
ed. Amsterdam: «mai non bastò il saper».
Nel capitolo primo:
p. 6: ed. Venezia: «le memorie sepolte con le piú vive»;
ed. Amsterdam: «le memorie piú morte con le piú vive»;
p. 6: ed. Venezia: «quanto uguale e giusta con tutti sia l’alta mano di Dio»;
ed. Amsterdam: «quanto uguale e giusta sia l’alta mano di Dio»;
p. 6: ed. Venezia: «ondeggi l’uomo in questo sí naufragante commune Egeo della vita mortale»;
ed. Amsterdam: «ondeggi l’uomo in questo sí naufragante commune Egeo della vita umana».
Potremmo continuare molto e molto a lungo, ma non ci pare indispensabile.
Noteremo piuttosto che per quanto riguarda evidenti errori di stampa, essi abbondano e nell’una e nell’altra edizione.
Talvolta tra due diverse lezioni si resterebbe forse un po’ incerti nella scelta, ma in generale quelle dell’edizione di Venezia danno l’impressione di lezioni risultanti da un manoscritto piú corretto d’un altro, che abbia servito all’edizione di Amsterdam: o almeno il manoscritto fu piú attentamente seguito a Venezia. È, quindi, preferibile senz’altro l’edizione di Venezia, ma ciò non significa che ambedue le edizioni non abbiano ad esserci di grande aiuto, in diversi punti, l’una per la correzione dell’altra. Che quella di Amsterdam abbia preceduto, come abbiamo visto supposto dallo Zeno, quella di Venezia, si può essere indotti a pensare da omissioni e lacune che troviamo in essa piú frequenti. Giá nella prefazione ne notiamo una (p. 3), poiché dopo le parole: «cose mie proprie» mancano le seguenti: «che possono di nuovo render viva e presente», e nel capitolo quarto (p. 29) questa in vero non breve dopo le parole: «in quei paesi lá intorno che sono bellissimi»; cioè «e godemmo una volta fra l’altre la sua badia di Vidone nel trivignano con trattenimento d’una soavissima libertá e conversazione. Oltre al Quarengo e a diversi altri, vi si trovò allora l’abbate Agostino Gradenigo nobile veneto, canonico di Padova, ancor egli d’una fameglia molto antica e molto principale in Venezia. Questi pur similmente era de’ nostri piú cari e piú domestici amici, di soave e sopra modo pieghevole natura, di perspicace e vivido ingegno, e che venuto poi alla corte di Roma e postosi in prelatura fu di lá a qualche anno fatto vescovo di Feltre, e dopo qualche altro pervenne al patriarcato d’Aquileia». Dopo questo passo abbiamo nell’edizione di Venezia «Di questi tre amici in particolare...»; mentre in quella di Amsterdam si mette punto dopo «... che sono bellissimi», e quindi si continua «Di questi amici ho fatto in particolare qui...».
La prima lacuna da noi ricordata si spiega facilmente come imputabile senz’altro al tipografo, e ve ne sono non poche altre di tal sorte; anche per la seconda potrebbe essere cosí, ma si sarebbe spinti ad altra supposizione: come per qualche altro passo piú completo nella stessa edizione di Venezia, che ci si presenta con aggiunta trovata, parrebbe, opportuna dall’autore. Così, sempre nel capitolo quarto (p. 26), abbiamo nell’edizione di Venezia: «magnanimo e che aveva in tutte le sue azioni altretanto del cavaliere quanto avesse dell’ecclesiastico. Quivi...»; mentre l’edizione di Amsterdam ha semplicemente: «e magnanimo. Quivi...».
E piú avanti (p. 28) nell’edizione di Venezia: «Cardinale Francesco vescovo di Trevigi, da me nominato di sopra, il quale era morto poco prima che il papa venisse a Ferrara. Aveva»; mentre nell’edizione di Amsterdam: «Cardinal Francesco vescovo di Trevigi. Aveva».
Ed ancora si vedano i seguenti passi, rispettivamente nelle due edizioni:
p. 28: ed. Venezia: «quella casa è stata, si può dire, un seminario»;
ed. Amsterdam: «quella casa è stata un seminario»;
p. 29: ed. Venezia: «Era casa paterna quella dove egli abitava, ed allora a punto trovavasi nell’offizio di podestá ch’è il primo di quel governo, il sopradetto Giovanni suo padre, soggetto insigne oltre alla chiarezza del sangue per le sue proprie singolari virtú di religione prudenza e bontá; e che portato dal merito fu eletto pochi anni dopo uno de’ procuratori, come si chiamano, di san Marco»;
ed. Amsterdam: «Era casa paterna quella dove egli abitava, ed a punto il padre era podestá di quella cittá; il sopradetto Giovanni suo padre portato dal suo gran merito fu eletto pochi anni dopo uno de’ procuratori di san Marco»;
p. 30: ed. Venezia: «o gioconde e soavi memorie di quella stanza dove non si udiva lo strepito né si provava la finzione della corte, dove non avevano luogo né il riso falso né l’amor finto né l’odio vero nè l’invidia maligna né l’ambizione inquieta né il tradimento insidioso né l’adulazione sfacciata né il favore arrogante nè quel vano splendore o piú tosto dannabile gusto dal quale insieme con tante altre miserie (nel piú commun senso del volgo riputate felicitá) viene resa in tutte le corti sí amara la vita ordinariamente!»
ed. Amsterdam: «o giocondo me di quella stanza dove mai non s’ode lo strepito né si prova l’infezione della corte, dove non hanno luogo né il riso falso né l’amor finto né l’odio vero né l’invidia maligna né l’ambizione inquieta né il tradimento invidioso né l’adulazione sfacciata né il favore arrogante né quel meno splendore o piú tosto dannabile lusso dal quale insieme con tante altre miserie (nel piú commune senso del volgo riputate felicitá) viene resa in tutte le corti sí amata la vita ordinariamente!»
Quest’ultimo passo, in vero, non abbiamo tanto riportato per la breve lacuna che ancor si nota nell’edizione di Amsterdam, quanto perché proprio dal confronto anche qui dell’una e dell’altra edizione ci sembra che venga confermato ciò che abbiamo giá notato a proposito di esse, e cioè, la maggiore esattezza e compiutezza, specialmente nella prima parte, della veneziana, la quale però, pur presentandosi piú accurata dell’altra, non manca di errori dovuti, almeno alcuni, piú probabilmente ad errate interpretazioni del tipografo, come ci sembra evidente per quel «gusto» invece di «lusso» che è nell’edizione di Amsterdam; la quale a sua volta con quell’«amata» invece di «amara» altera o meglio capovolge pienamente l’espressione del Bentivoglio.
Tal volta ci è possibile invece colmare lacune della veneziana con l’aiuto dell’edizione di Amsterdam; ad esempio, nel libro secondo capitolo quinto (p. 169) ove nell’edizione veneziana manca in un punto: «potuto sperare la sua casa di conservarla? non averebbe» ed in un altro (p. 174): «per unirsi con lui». Ed una lunghissima lacuna troviamo poi nell’edizione veneziana nel libro primo capitolo sesto (p. 51) da «che non aveva potuto farlo apparire...» a «in Ispagna». E questa del tutto imputabile, com’è evidente, al tipografo, il quale invece di continuare dopo la parola «Spagna» ha inavvertitamente saltato alcune righe continuando dopo il ripetersi della parola nell’espressione: «in Ispagna».
Ed altre lacune ancora, sia pur piú brevi di quest’ultima citata, potremmo indicare nell’edizione di Venezia, dove qualche volta un errore si deve a singolare sbaglio di lettura, come «all’incontro» invece di «Alincourt» (p. 135). In un punto poi, (libro primo, capitolo ottavo, p. 83) troviamo una lacuna comune a tutte e due le edizioni, e fortunatamente evidentissima e facilissima a colmarsi; segue alle parole «Monsignor Graziani» e le parole che mancano sono: «Vescovo d’Amelia e monsignor Burgi», e ci sono date da ciò che è nelle pagine seguenti.
Con la stessa data di queste due prime edizioni ne usciva un’altra a Venezia: Memorie del Card. Bentivoglio ecc. in Venezia 1648 appresso Paolo Baglioni. È essa pressoché una riproduzione di quella edita dai Giunti e Baba; vi appaiono le medesime inesattezze e le medesime lacune, e solo qualche parola, come qualche nome proprio di cui piú che evidente è apparso ai nuovi stampatori l’espressione errata, venne corretta. Il Mazzucchelli ricorda due traduzioni che si ebbero in francese, fatta «l’una dal Valdory, la quale non è mai stata impressa, l’altra dall’Abate di Vayrac che rifece quasi da quella del Valdory e la diede alle stampe a Paris chez André Coillecteau 1615 (sic), Tomi 2, in 8°»2.
Un’altra edizione delle Memorie si ebbe in Italia nel sec. XIX: G. Bentivoglio, Memorie, con correzioni e varianti dell’edizione di Amsterdam del 1748 (sic) ecc., Milano, Daelli e C., 1864. Gli editori, dopo aver rilevato come vi siano diversitá fra l’edizione di Venezia e quella di Amsterdam, anzi come, a lor giudizio, siano le due edizioni «perpetuamente diverse», e che la veneziana, migliore, si sarebbe potuta correggere con l’aiuto dell’olandese, dichiarano: «se non che ci parve meglio non toccar nulla e riproducendo l’edizione veneta porre infine il catalogo delle varianti e correzioni».
Cosi, però, finirono col non correggere nulla.
II
Riproduciamo la «Relazione della fuga di Francia del Prencipe di Condé» dall’opera: Relazioni del Card. Bentivoglio, pubblicate da Ericio Puteano in Anversa, ristampate in Colonia, 1630, con licenza de’ superiori.
Ericio Puteano è lo pseudonimo di Enrico Dupuy, che nato nella Gheldria e studioso di lettere di filosofia e di diritto, dimorò oltre che nelle Fiandre in cittá tedesche ed in Italia, ove nel 1601 ebbe una cattedra di eloquenza a Milano, ed in seguito altri onori; nel 1606 passava alla cattedra di lettere di Lovanio ed in questa cittá moriva nel 1646.
L’edizione si presenta subito con i caratteri della sinceritá e della fedeltá, e ciò viene senz’altro notato da chi alla lingua e allo stile del Bentivoglio si è accostato; al piú ci si potrebbe chiedere se proprio tutti i «comuni» «accomodamenti» «dubbio» siano bentivogliani; poiché negli altri scritti del cardinale non mancano, ma sono meno frequenti di «commune» «accommodamento» «dubio».
Anche questa relazione fu ristampata con le altre piú tardi3. Il Fontanini elenca l’edizione: (Le) opere del Cardinal (Guido) Bentivoglio, cioè Le Relazioni di Fiandra e Francia, l’Istoria della guerra di Fiandra (dal 1559 al 1607) e le Lettere scritte in tempo delle sue nunziature, in Parigi per Giovanni Jost, 1648; e lo Zeno aggiunge in nota: «il padre Le Long nella sua Biblioteca istorica dí Francia ne cita una edizione di Parigi in foglio del 1645».
III
Particolarmente cauti abbiamo dovuto procedere nella parte terza della presente raccolta di scritti del Bentivoglio, quella cioè delle lettere diplomatiche. Non che di ciò ci fosse bisogno nella scelta delle lettere, vogliamo dire nel dar la preferenza per la pubblicazione alle une piuttosto che alle altre.
Riguardo a ciò abbiamo tenuto presenti, pel contenuto, le lettere che fossero interessanti per l’argomento stesso, ed abbiamo cercato di riunirle in modo che si completassero, che il fatto o l’avvenimento o la questione apparissero svolti, sí che se non possiamo pretendere di istruire i lettori intorno ad essi compiutamente, almeno non fosse tolta neppure la possibilitá che qualcuno dei lettori appassionandosi al fatto storico ne prendesse una conoscenza sufficiente nella versione e nell’interpretazione bentivogliane: anche ci è sembrato opportuno tentar che un quadro meno manchevole e sbiadito che fosse possibile risultasse, della Francia e del mondo in cui il Bentivoglio viveva, dalle lettere stesse e, nel medesimo tempo, che non vi fosse l’impressione, passando da una lettera all’altra, di saltare, diremo cosi, attraverso ad un vuoto che disorientasse per netta discontinuitá e per diversitá di argomento.
La cautela a cui abbiamo accennato ci è stata invece necessaria per cercar di rendere nella loro forma piú genuina tali lettere.
Esse vennero pubblicate per la prima volta nel 1852 da Luciano Scarabelli, presso il Pomba di Torino, riprodotte da due codici che si trovano alla Biblioteca Berio di Genova (sala Dbis, n. d’inv. 1037).
Dice lo Scarabelli nella prefazione: «i codici, da cui le ho tratte, non sono autografi neppure per le lettere piane, ma copia di copia non tarda che di circa 57 anni, se fidar mi debbo della cifra 1678 posta in margine a destra sul frontispizio e contro il titolo delle prime lettere: — Lettere di monsignor Guido Bentivoglio nunzio in Francia dal 1616 al 1621 — il quale è in foglio di carte 184. E perocché quel codice istesso dopo il frontespizio, e un indice di tutte le scritture del Bentivoglio, ha, non so come, precedenti le lettere del nunzio due lettere di Gian Paolo Oliva — vicario generale dei gesuiti — al padre Bell’uomo provinciale, e al padre Aurelio Croce rettore della compagnia in Ravenna, segnata la prima del io dicembre, la seconda del 14 dell’istesso mese 1661, e al margine sinistro della prima lettera dell’Oliva sta scritto: «copia di una lettera del nostro reverendo padre vicario generale ecc.» tenendo conto di quel «nostro» e non essendo l’Oliva diventato generale che nel 1669, deduco essere la copia esemplare stata fatta tra quest’anno e il 1661 da un gesuita; l’altra nell’anno messo sul frontespizio. Il codice delle lettere in cifra è scritto dalla stessa mano del codice delle lettere piane».
Se si controlla l’edizione dello Scarabelli sui codici da lui seguiti, si può dire, in generale, che è fedele ad essi, né si può accusare lo Scarabelli di trascuratezza. Ciò non toglie, s’intende, che in qualche punto vi sia qualche parola non del tutto esattamente interpretata, qualche lacuna e qualche menda che non sorprende, se consideriamo il numero non piccolo delle lettere diplomatiche fra quelle in cifra e quelle no. Noi ben poco abbiamo tolto dal codice delle lettere in cifra, e precisamente solo qualcosa che per importanza indiscutibile non ci siamo sentiti di trascurare.
Ora, intorno all’edizione Scarabelli ed ai codici suoi si pronuncia con molta, anzi vorremmo dir subito con troppa, a nostro giudizio, e non del tutto giustificata severitá il De Steffani, il quale ha ripubblicato le medesime lettere riproducendole, egli afferma, direttamente dagli originali, esistenti nell’archivio Bentivoglio in Ferrara, e da lui potuti avere dal marchese Nicolò nel 1861. Dice, adunque, il De Steffani dell’edizione scarabelliana: «... ma chi prenda in mano quella, sin qui unica, edizione e ne legga solo poche pagine, gli parrá che l’autore gli si impicciolisca fra le mani, e facilmente concluderá che non sieno lettere di lui. Ciò gli avverrá, non tanto per le frequenti scorrezioni della stampa e per la capricciosa e matta punteggiatura, quanto pe’ nomi, che di punto in punto ricorrono, cosí sformati che non hanno riscontro alcuno nella storia e nelle memorie contemporanee; per que’ controversi che nascono da voci ommesse o dall’introduzione di altre di contrario significato; per quella confusione di tanti e cosí disparati soggetti in una lettera sola, senza neppur ripigliar da capo la linea; e per altri difetti tanti che, se altri che lo Scarabelli le avesse mandate alla luce, e se alcun motivo se ne potesse supporre, si direbbe lo scopo della pubblicazione essere stato quello di nuocere alla fama dell’illustre scrittore».
Il De Steffani continua riprendendo lo Scarabelli perché delle lettere bentivogliane aveva dato nella prefazione questo giudizio: «le lettere che pubblichiamo non erano certamente scritte per la stampa: quest’esse e le altre che pure apparvero tre anni dopo la morte dell’autore, e quelle di che farò cenno piú innanzi dettavansi all’infretta, senza cura, oltre quella della chiarezza, fra mille distrazioni e mille disturbi, tanto da soddisfare all’ufficio diplomatico. Non sono quindi tornite, non fiorite, non leccate, come, per esempio, quelle del Caro, che persuadevasi ogni sua cosa dovere essere posta alla luce; onde quello che di suo abbiamo (e cosí accadde a molti altri) eccetto la traduzione o parafrasi deli’Eneide, tutto è d’una foggia e d’un colore grave d’arte che ammazza. Ma chi scrive o d’affetti o d’affari e vuol essere chiaro dev’essere vero e naturale; piú naturale e piú vero di chi non pensa di andar per le stampe non può esser nessuno...». Ma il De Steffani invece: «il giudizio che il signor Scarabelli nella prefazione fa di quelle sue lettere quasi per giustificarne i difetti, cioè ch’elle, per essere lettere d’affari, sieno dettate in fretta e alla spigliata, non è vero, né mi par savio; imperciocché gli affari appunto s’hanno a trattare con ordine e con chiarezza; né si può credere che il Bentivoglio, avendo tanta abitudine di porre in iscritto i suoi pensieri, ponesse meno cura scrivendo d’affari di stato al pontefice e al cardinale segretario, che scrivendo complimenti alle dame o a’ cavalieri»; e quindi conclude: «... meglio era confessare apertamente ciò che apparisce a chiunque; che il manoscritto onde quelle lettere furon tratte, era da ritenersi per iscorretto e guasto e manchevole».
A proposito di queste osservazioni del De Steffani noteremo, in primo luogo, che realmente il Bentivoglio nelle sue lettere diplomatiche, come per lo piú negli altri suoi scritti, rende i nomi dei personaggi e delle famiglie straniere, francesi generalmente, piú conformemente alla pronuncia italiana, e forse ancora piú particolarmente sua, che non secondo l’esatta ortografia nella lingua loro. Cosí abbiamo, per citare forse i piú alterati: Rosfocò per Rochefoucauld, Pernon per Épernon, Pisius per Puysieux, d’Umena per Du Maïne, Couré per Coeuvres.
Lo Scarabelli riprodusse, non modificandoli, i nomi come li scrisse il Bentivoglio. Ciò suonò poco gradito al De Steffani, il quale però finí col darci una prova di indecisione singolare: dice egli infatti: «quanto a’ titoli e nomi delle persone e dei luoghi, io tentennai da prima fra l’opinione di quelli che li vorrebbono mantenuti tali quali gli ha usati l’autore e di quelli che amano invece di leggerli secondo l’uso del parlar nazionale: perciò nei primi fogli non v’ho fatto che poche correzioni ma nel seguito mi appigliai al secondo partito, ch’è senza dubbio molto piú ragionevole»; e cosí infatti egli fece. Piú ragionevole invece è sembrato a noi rispettare anche in questo la lezione del Bentivoglio, pur sentendo il dovere di riprodurre i nomi propri, almeno i piú alterati, nella loro compiutezza ed esattezza ortografica, cioè nella loro lingua, nell’indice.
Avviene pur talvolta che nei manoscritti della Berio qualche parola risulti evidentemente omessa, materialmente saltata, dirò cosí, per momentanea negligenza di chi li ha scritti; i casi però non sono troppo frequenti, né tali che non presentino, il piú delle volte, possibilitá di correzione ed indizi di tali omissioni.
Ciò che invece piú giustamente rileva, come errore dell’edizione scarabelliana, il De Steffani, è la confusione in una stessa lettera di argomenti tra loro molto diversi, confusione dipendente non dai codici della Berio, né tanto meno dall’autore, cioè dal Bentivoglio, ma proprio dallo Scarabelli. Nei codici della Berio sono distinti i diversi «dispacci» secondo i giorni in cui furono inviati; ora, per ogni spedizione che veniva fatta erano anche distinte tante lettere, piú o meno diffuse, ciascuna intorno ad un determinato argomento: tanto distinte che alla fine di ciascuna v’è la consueta forma di saluto e di congedo; alcune sono brevissime, tanto che allo Scarabelli parve forse ingiustificabile riprodurre come lettera a sé anche ciò che era talvolta rappresentato da pochissime righe. Ebbe perciò la poco felice idea di raggruppare sistematicamente diverse lettere in una sola, confondendo con ciò argomenti che poco avevano a che fare gli uni con gli altri, togliendo uno dei caratteri precipui ad una corrispondenza diplomatica, alla quale è dote essenziale la somma chiarezza, e per ciò la distinzione propria fra un argomento e l’altro e l’evitare ogni confusione fra di essi; e rendendo, lo Scarabelli, col suo metodo tanta parte della corrispondenza ingiustificatamente pesante e lenta.
Per questo forse non si erra affermando che la ragione per cui l’edizione del De Steffani, la quale invero talvolta pur colma lacune e rimedia a difetti della scarabelliana, si giudica senz’altro a prima vista superiore a quest’ultima è data proprio dalla maggiore snellezza con cui si presenta, snellezza dovuta alla logica e naturale divisione delle parti della corrispondenza, o meglio alla divisione voluta dal Bentivoglio stesso4.
Ma se noi vogliamo conoscere come scriveva il Bentivoglio, la lingua sua, le sue forme verbali, non ci affideremo certo all’edizione del De Steffani. Questi non solo muta costantemente, «publico» in «pubblico» «camino» in «cammino» ecc. ma non tollera «prencipe, averebbono, Turino» e tanti altri vocaboli che in questa forma il Bentivoglio usa o costantemente o con evidentissima preferenza.
Tanto che si sarebbe quasi indotti a pensare che ciò che piú ha urtato le orecchie del De Steffani e del marchese Nicolò, possa essere stato quanto di secentesco e di ormai antico era nell’edizione dello Scarabelli. Cosí avvenne che questi limitandosi a riprodurre il manoscritto della Berio, e non arbitrandosi a modificarlo fuorché in pochissimi casi ove fin troppo evidenti erano le manchevolezze del codice, finí per riprodurre necessariamente anche lacune ed inesattezze, ma con tutto ciò fu piú fedele alla lingua del Bentivoglio che non sia stato il De Steffani.
IV
Il primo gruppo di lettere famigliari che qui pubblichiamo, cioè le prime quindici, abbiamo tolto dal codice n. 541 della Biblioteca comunale «Ludovico Ariosto» di Ferrara: «Lettere del Card. Guido Bentivoglio». È essa copia diligentissima del bibliofilo ferrarese De Carli. In calce, nella prima pagina, si legge infatti la scritta: «Joseph De Carlis sibi et civibus». Quasi tutte queste lettere furono stampate in un’antologia epistolare curata dal Muzzarelli (Macerata, Cortesi, 1830, in 8°), ma noi, per quanto abbiamo cercato, non siamo giunti a rintracciare questa edizione.
Il codice dell’«Ariosto» comprende quarantacinque lettere, delle quali quattro soltanto non sono del Bentivoglio ma a lui dirette, e di queste tre di carattere laudativo in occasione della pubblicazione della Storia del cardinale. Abbiamo chiamato famigliari queste lettere perché non furono scritte dal Bentivoglio come nunzio, o meglio, perché non sono o non appaiono scritte per obbligo derivante da carica ufficiale; e comunque lettere ufficiali non sono. Ma dalle pure lettere famigliari quali solitamente s’intendono, queste di cui parliamo si distinguono. Alcune sono scritte mentre il Bentivoglio è nunzio in Francia, cioè si trova in una carica tanto elevata che ogni suo atto ed espressione di pensiero dev’essere conforme e per nulla contrastante coi doveri dell’ufficio suo, di cui anzi egli deve aumentare il prestigio sempre piú; altre mentre egli è in Roma, cardinale comprotettore di Francia, e son dirette a personaggi francesi in condizioni eminentissime. Qualche lettera potrá sembrare piuttosto legata o frenata da convenienze e formalitá, qualche altra contenente sfoghi o semplici espressioni d’animo piú spontanei e meno studiati; è indubitato che tutte sono per noi tra gli scritti piú preziosi del Bentivoglio, anche per la fede che merita il codice che li contiene.
Le quattro lettere famigliari, che seguono, (a mons. Cornaro, al sig. Paolo Gualdo, al sig. cav. Marini, al sig. Muzio Ricerio) furono da noi prese dalla Raccolta di lettere scritte dal Cardinal Bentivoglio in tempo delle sue nunziature di Fiandra e di Francia, ristampate in Colonia l’anno 1631, edizione questa a cui abbiamo ritenuto di poterci attenere con piena fiducia.
E da essa abbiamo pure preso le tre lettere al duca di Monteleone. Queste ultime furono pubblicate anche in: Lettere del Cardinal Bentivoglio, con note grammaticali e analitiche di G. Biagioli, dapprima a Parigi, presso P. Didot seniore nel 1807 e nel 1819, e poi a Milano, per G. Silvestri, 1828; del resto, dice il Ginguené nella Biografia Universale che le lettere del Bentivoglio erano state tradotte in francese dal Veneroni, e spesso ristampate in Francia col testo italiano a fronte; ma il Biagioli non potè astenersi dal rendere piú moderna, o meglio ottocentesca la lingua del Bentivoglio; sono, quindi, le sue edizioni inferiori all’altra da noi seguita, e meno consigliabili.
V
Infine abbiamo tolto l’ultima serie di lettere «Dai carteggi domestici», dall’opera giá da noi citata a proposito delle Memorie, e cioè: G. Bentivoglio, Memorie, con correzioni e varianti dell’edizione di Amsterdam ecc. aggiuntevi cinquantotto lettere famigliari tratte dall’archivio del cav. Carlo Morbio, voll. 3, Milano, Daelli & C., 1864.
Queste ultime lettere non abbiamo voluto tralasciare perché in esse si presenta con un aspetto particolare la figura del Bentivoglio. Qui egli non è piú il diplomatico anche se è ancora l’aristocratico del seicento, ma piú che in altre lettere egli è, dirò cosi, semplicemente uomo. Spieghiamoci: le pubblichiamo non perché stimiamo anche semplicemente vicino al buon gusto il far sentire le sue ripetute lamentele per le angustie in cui si dibatteva, ma per la sinceritá e la spontaneitá di alcuni passi, specialmente, di queste lettere. V’è un certo contrasto di tono, in alcune, fra la parte essenziale, il corpo della lettera cioè, ed il poscritto: la lettera non è priva di frasi ricamate, ed anche se rimprovera, lo fa con finezza aristocratica; il poscritto fa l’effetto talvolta d’uno sfogo naturale spontaneo sincero, e finalmente si sente che è un fratello che parla al fratello, che tutto il buon senso naturale e l’intelligenza libera da ogni pastoia si manifestano associati all’affetto; che son parole prorompenti per esprimere tutta la forza d’un sentimento.
VI
Quale la fortuna delle opere del Bentivoglio? Non parliamo, s’intende, dell’opera sua maggiore, della Storia di Fiandra, ma delle Memorie e degli altri scritti che noi qui ripubblichiamo. Nessun dubbio che il primo aiuto, oltre le qualitá sue naturali d’ingegno e di carattere, per potersi lanciare allo splendore di una carriera insigne ed all’acquisto della fama, il Bentivoglio dovesse trovarlo nel prestigio del suo nome e nel passato illustre della sua famiglia. Si veda ciò che si scriveva da un suo concittadino nel 1620: «Guido Bentivoglio per nascita d’antichissima e nobilissima fameglia, uno fra i figliuoli nati di quel nobile e preclaro progenitore Cornelio Bentivoglio valorosissimo nell’armi, con le quali acquistò nome e fama gloriosissima, egli dico, e per dottrina molto ben manifestata nelle onorate ed eroiche azioni sue, e per integritá di costumi, e per una singolare prudenza, è soggetto degnamente stimato, essendo per dir il vero preclaro litteratissimo, e ornato di bellissime lettere, generoso prudente e decoro della casa sua, nonché della patria nostra, quale dopo onoratissimi carichi ricevuti nella corte romana, fu spedito nunzio nella Fiandra, nel quale carico talmente si è diportato che anco da Paolo V è stato onorato dell’arcivescovato di Rodi, e nunzio in Francia; onori senza dubbio grandi, ma li quali, secondo l’estimazione e desiderio d’ognuno, sono mezzi ad agevolargli la strada a onore maggiore ed eccelso».
Cosi alte suonavano le lodi quando ancora non s’era pubblicata opera alcuna del Bentivoglio; quale adunque doveva essere l’ampiezza del mondo in cui le opere sue apparendo, e non certo prive di pregio, potevano essere giudicate?
Forse un’altra ragione può esserci: se in generale può tornar gradito ad una cittá che un figlio proprio si distingua, e comunque la parte di essa, specialmente, che per qualsiasi ragione a lui od alla famiglia sua aderisce sia portato a favorirlo, Ferrara trovavasi allora in condizioni particolarissime: il gennaio del 1598 Cesare d’Este n’era partito, e la cittá da capitale del ducato era passata a semplice capoluogo di legazione dello stato del papa: c’era quasi il bisogno da parte di quelli che non avevano seguito l’Estense di mostrare che essa nulla aveva perduto nel trapasso politico; anzi, che poteva averci guadagnato se qualche concittadino poteva piú agevolmente elevarsi ed affermarsi nel campo ecclesiastico, ed essere in particolare favore presso il sovrano, capo della religione.
E poi, come le famiglie grandi, quando notano i primi passi verso la meno superba condizione che fatalmente loro si prospetta, rievocano, rivolgendosi al passato, quanto può contribuire a riconfermare la nobiltá propria, cosí sembra naturale che anche Ferrara tutto ciò che potesse significare propria gloria tenesse ad esaltare: ed era giusto che esaltasse anche il cardinale Guido Bentivoglio.
Vediamo alcuni giudizi, di letterati e di dotti intorno a lui5.
Nell’Italia sacra dell’Ughelli (Col. 224) si legge: Hic est ille Cardínalis Bentivolus toti orbi celeberrimus, qui sub Paulo quinto variis legationibus functus ad principes Christianos, ingentibus meritis, ab eodem anno 1621 ex Archiepiscopo Rhodiensi, creatus est Prisbiter Cardinalis Princeps nobilitate singularis, pietate doctrina, et eruditione non vulgari commendandus, omnibusque carus et admirabilis, cuius egregii ingenii perspicacia et in Historia conscribenda eruditio adeo omnibus perspecta est, ut alter Livius iuremerito existimetur a doctis cordatisque scriptoribus. Inter coetera in lucem emisit Belgici belli tumultus ab ipsis incunabulis ad nostrani usque aetatem, earundemque Provinciarum varias relationes, omni eruditione conspicuas. Vivit adhuc diuque vivat lux alma, gloria Romae6.
Lo Sforza Pallavicino dice del Bentivoglio: «ha saputo illustrar la porpora con l’inchiostro, e a dispetto dell’etá grave della complession inferma delle occupazioni publiche de’ travagli domestici, s’è conquistato uno de’ primi luoghi fra gli scrittori italiani, sì per cultura di stile come per gravitá di sentenza. Ma fu egli sì geloso del numero sostenuto e ripieno, che a fin d’appoggiarlo e di ricolmarlo non ricusò la spessezza d’alcune sue particelle per altro sterili e scioperate, le quali a guisa dell’acqua d’Arsio diffusa nella piú generosa verdea di Toscana, smorzano alquanto la vivezza dei sentimenti». E poiché lo Sforza Pallavicino aveva precedentemente rimproverato di due «nei» e cioè delle «parole inutili, quasi aggiunte per turar le fessure del numero...» e della «uniforme armonia del seguir sempre mai la stessa maniera di numero senza variarlo», insieme col Bentivoglio, l’Orlandino, continua dopo le parole giá da noi riferite: «né alcuno mi giudichi o temerario in chiamare alla mia censura penne sì chiare, o ingrato in additare i difetti di quelli autori ad un de’ quali per unione di abito, all’altro per congiunzione di cuore sono specialmente obligato...»7.
Ma ci sia pur lecito rilevare piú di quel che non abbiamo fatto fin’ora che la fortuna delle opere del Bentivoglio ben era affidata anche a doti intrinseche loro, e nello stesso tempo all’interesse degli argomenti che sono stati in esse trattati. Alle Memorie giova, starei per dire, una certa graziosa vanitá, che ritrae non antipaticamente il carattere dell’autore; e verrebbe in qualche punto spontaneo l’esclamare: — simpatici questi sfoghi di vecchi d’alto ingegno, che ormai compiuto tutto il ciclo dell’esperienza, hanno pur notato tutto ciò che la vita ha di amaro e di triste, e quanto esige di sacrificio intimo dai buoni! vecchi a cui sembra che una naturale profonda sincera onestá abbia impedito che dall’animo loro venisse dal succedersi degli avvenimenti estirpata la fede nella virtú. — Né mancano di particolare attrattiva le descrizioni di pompe di cerimonie proprie della vita magnifica ed aristocratica: tanto è il piacere con cui il Bentivoglio in esse s’indugia che scrive la Relazione della famosa festa fatta in Roma alli XXV di febbraio 1634, che noi non abbiamo compreso nel volume, appunto perché l’amore stesso che tiene avvinto l’autore all’argomento ha fatto sí che riuscisse prolissa e necessariamente monotona. Eppure da essa, come da tante pagine delle Memorie, balza l’amore, direbbesi connaturato in lui e spontaneo, del Bentivoglio per le lettere e la poesia: sí che non sappiamo se con piena sicurezza possa dirsi cosa gli sia stato piú a cuore: se il prodursi e voler apparire letterato, diremo cosí, puro, o storico e politico negli scritti come nell’azione.
Leggendo le Memorie siamo tratti a notare che il mondo ecclesiastico appare come il suo vero mondo, senza voler dire che egli perda di vista l’altro piú vasto, che si svolgeva a lui meno vicino. Comunque, questo amore al suo mondo fa sí che egli si trattenga piú a lungo (pare almeno a tre secoli di distanza) di quello che forse sarebbe necessario a ritrarre figure ed a notare particolari, che però tutti possono giustificatamente entrare per il titolo ed il carattere stesso dell’opera, Memorie, titolo e carattere che nulla escludono di ciò che dall’autore è stato sentito vicino a sé. Ciò del resto dá modo all’autore di diffondersi esprimendo giudizi e valutazioni che dovettero, mentre li pronunziava, elevarlo innanzi a se stesso, pur proponendosi, come appare che davvero s’è proposto, serenitá ed indulgenza.
Certo che dove si prospettano questioni politiche e relazioni fra stati, si sente subito nel Bentivoglio delle Memorie l’antico diplomatico. Tale si rivela particolarmente nell’ultima parte, ove un mondo politico piú ampio incomincia ad apparire, e che è la parte che piú ci fa deplorare che l’autore non abbia potuto compiere la fatica sua, la quale sarebbe divenuta indubbiamente piú gravosa e piú complessa per lui, ma tanto piú utile ed istruttiva per noi.
Nella primissima parte delle Memorie la questione di carattere politico predominante è la devoluzione di Ferrara: tale fatto sembra quasi mantenga ancora in sé qualcosa di improvviso o d’incerto, anche pel Bentivoglio vecchio, che su di ciò non può o non tiene a pronunciarsi. E si errerebbe, pensiamo, se quel qualcosa d’incerto si attribuisse al ricordo da parte del Bentivoglio della condizione particolare del fratello, all’avanzarsi dell’esercito pontificio, capitano di Cesare d’Este, piuttosto che alle condizioni particolari da cui nacque e da cui fu giustificato o spiegato un avvenimento, che anche a quelli che vennero dopo ha presentato l’occasione di una divisione tra plaudenti e deprecanti. Il Bentivoglio nelle Memorie né s’entusiasma al fatto né lo depreca: il deprecarlo gli sarebbe stato impossibile anche se l’avesse voluto, l’entusiasmarsi avrebbe contrastato un po’ troppo acerbamente con le conseguenze della devoluzione che giá si notavano a Ferrara8. Altri argomenti nella seconda parte delle Memorie, dopo le lunghe pagine riguardanti collegi cardinalizi e corte pontificia: pagine queste ultime in cui non manca ciò che può suscitare interesse a figure certo insigni di ecclesiastici, e piú di ecclesiastici letterati, ma che non può negarsi contengano una uniformitá sufficiente a determinare, in qualche punto, un certo senso di naturale desiderio di ripresa piú vivace da parte dello scrittore.
Diversa, ripetiamo, la seconda parte delle Memorie: qui una questione interessante potenze diverse e principali, interessante di per sé e per possibili importanti conseguenze, ed azione diplomatica necessariamente abile e fine, ed un mondo da cui lo scrittore — l’antico diplomatico — è preso, e figure che considera primi attori nel gran teatro — come egli ama questo vocabolo! — del mondo, e degne d’essere ricordate e giudicate e tramandata alla posteritá.
E da quest’ultima parte delle Memorie9 piú appare anche qual dominio simpatico abbia preso su lui il mondo francese; non rileviamo la particolare stima che egli esprime per l’opera di Enrico IV, ma vogliamo dire di quella societá che lo avvinse, non è da dubitare, perché si offerse a lui come l’espressione della possibilitá di vita piú aristocraticamente sentita; ed il Bentivoglio delle Memorie giá l’aveva amorosamente gustata.
VII
Ma soltanto nell’ultima parte delle Memorie si ha l’inizio della considerazione d’un ampio mondo diplomatico nella sua piena azione, e della trattazione di avvenimenti politici vasti ed importanti, e che hanno superato non solo i confini di stati territorialmente piccoli, ma di nazioni: tali trattazioni si vedono invece necessariamente di continuo nelle lettere diplomatiche. Anche notiamo, sebbene possa sembrar superfluo, che queste si pubblicarono in tempo in cui piuttosto appassionatamente si era indotti, in Italia, a discutere di atteggiamenti e di condotta della Chiesa e del clero di fronte allo stato, e dei limiti legittimi dell’azione loro, e di tanti altri quesiti che da questi giá detti venivano a dipendere. Da questo derivò naturalmente il maggiore interessamento a documenti che riproducevano l’azione di un diplomatico pontificio in un paese, la Francia, d’importanza politica somma, e in un tempo in cui la divisione ed i contrasti religiosi si fondevano, o comunque sembravano fondersi con questioni di stato.
Le lettere diplomatiche del Bentivoglio furono, in particolare, prese in considerazione, oltre che dallo Scarabelli e dal De Steffani nelle prefazioni alle raccolte loro, da Adolfo Bartoli e da Bartolomeo Acquarone che ne recensirono le edizioni10.
Dice il Bartoli del Bentivoglio: «Comeché parli sempre con grande rispetto del papa e dei cardinali, pure, dove occorra e’ sa dirne francamente anche il male». Ed in un altro punto: «il tempo ch’ei fu nunzio a Parigi, era per la Francia un torbido periodo di confusione e di debolezza: tutti quei miserabili ambiziosi, quei grandi da poco, quella debole regina, quel re fanciullo, tutti lavoravano indefessi a distruggere l’opera del grande Enrico; è un’ingordigia e una viltá universale, in mezzo a cui però comincia giá ad apparire la figura del Richelieu»; e lo sdegno del Bartoli lo induce a deplorare: «ed anco un italiano ha sciaguratamente la sua parte in quei fatti, anzi forse la parte principale, quel Concini rimasto esecrato nella storia francese! Né in vero pare a noi ch’ei possa essere difeso dalle accuse che gli furono date allora e che si ripetono tutto giorno».
Al Bartoli non piace che gli sdegni dei francesi verso il Concini non abbiano impedito al Cardinal Borghese di raccomandare al Bentivoglio di stare in buone relazioni col Concini stesso; ma in seguito nota: «ne sembra però esser vero quello che il signor De Steffani osserva, che il maresciallo d’Ancre ha il merito di avere iniziata quella politica forte, che fu poi la gloria di Richelieu e di Mazzarini, e invigorendo l’autoritá del Monarca».
Piú avanti il Bartoli dá un giudizio riguardante, piú che il tempo e la politica del tempo, l’autore delle lettere; non però come scrittore ma come ministro e diplomatico. E partendo da un gruppo particolare di lettere scrive: «come vedesi, il ministro di Paolo V giudicava con una strana leggerezza la guerra che tra Savoia e Spagna ferveva; e il ministro e l’ambasciatore parlavano di interessi cattolici, di eretici, di mali sovrastanti alla religione, mescolando cosí la religione alla politica, e del piú gran fatto politico della storia italiana in quel secolo, giudicando esclusivamente sotto il rispetto religioso, che non c’entrava per niente; e questo in una corrispondenza diplomatica, cioè essenzialmente politica. Noi crediamo che la piú grande condanna al potere temporale dei papi verrebbe dalla pubblicazione delle nunziature, dove vedrebbonsi sempre mescolati e confusi gli interessi politici coi religiosi».
L’Acquarone, che, come abbiamo detto, continua la recensione iniziata dal Bartoli, viene anch’egli a considerare la personalitá ed il compito del Bentivoglio come nunzio in Francia, e scrive a tal proposito: «È un vasto e molteplice campo; e vi si vede il nunzio non dimenticarsi mai né mai alterarsi; e conservarvisi sempre, nello stile come nelle proposte, uguale e uniforme; sempre vigile, attento, intelligente nel cogliere le circostanze anche minime de’ fatti, onde si potesse valere il proprio governo; e giustamente apprezzare personaggi diversi co’ quali avesse a passare uffici, o che venissero spediti in Roma, o che fossero elevati a qualche carica importante nel regno»; e riprende poi, a proposito piú particolarmente delle lettere diplomatiche ultime, pubblicate nel III e IV volume del De Steffani: «...a noi pare che il nunzio qualche volta si risenta della caldezza e dell’impeto da lui notato nei francesi; come pure delle loro facili mutazioni; mentre invece il segretario di stato mostrasi sicuro, misurato, padrone sempre di esprimere quanto e come vuole il proprio pensiero: nel contegno dei quali due uomini, c’è appunto la differenza che corre tra Parigi e Roma; e vi si troverebbe la conferma della teoria di Montesquieu, sull’influenza dei climi». E continua l’Acquarone considerando ancor piú ampiamente: «Roma, colla protesta in Germania, lo scisma in Inghilterra, gli Ugonotti in Francia, poteva poco cimentarsi a nulla intraprendere. Essa aveva a tenersi in uno stato di aspettazione; aveva a invigilare ogni modo e ogni occasione per potersi rifare di quello che gli era sfuggito, o adoperarsi almeno che non gliene sfuggisse ognora di piú. La sua politica era quindi doppia, sospettosa, d’astensione e negativa d’ogni idea e di ogni proposito forte e operoso» (11.
Come si vede, e come giá abbiamo detto, né il Bartoli né l’Acquarone giudicano piú precisamente delle doti dello scrittore; ma non hanno mancato di far ciò critici e letterati, fin dalla prima storiografia del Settecento. E per fermarci a questa.
Apostolo Zeno, richiamata la frase del Pallavicino giá da noi ricordata (il Bentivoglio «seppe illustrar la porpora con l’inchiostro») scriveva: «Lo stesso Cardinal Bentivoglio si lasciò trarre dalla corrente piú di una volta nelle sue opere, e principalmente nelle sue Memorie, dove recando giudicio intorno alla Guerra di Fiandra scritta dal padre Famiano Strada, alludendo al cognome di lui, disse che il maggior suo difetto era uscir tanto di strada. Simili arguzie, che sono nel nostro secolo riprovate e derise, erano le delizie del precedente» 12. E piú avanti a proposito delle Lettere: «I francesi sopra tutte le lettere italiane stimano queste del Cardinal Bentivoglio. Intesi io stesso molti di loro parlarmene con gran lode, e il padre Giambatista Labat domenicano nel suo tomo terzo dei Viaggi di Spagna e d’Italia, p. 50, dopo averle grandemente esaltate, conclude che «sul modello di esse debbono perfezionarsi coloro, che vogliono riuscir eccellenti nello stile epistolare. Tutti però non vorranno sottoscrivere si fatto giudizio»13.
Il Tiraboschi dice delle opere del Bentivoglio: «Le Relazioni da lui distese in tempo delle sue nunziature di Fiandra e di Francia, le Lettere da esso scritte nell’occasione medesima, e le Memorie ossia Diario della sua vita, sono, oltre la Storia delle guerre di Fiandra... i monumenti non tanto del suo sapere, quanto della sua prudenza e del suo saggio discernimento, che il Bentivoglio ci ha lasciati. Egli di fatto si scuopre in esse uomo di maturo ingegno osservatore diligente, avveduto politico, e fornito di tutti quei pregi che propri sono di un ministro; e l’onor ch’egli ebbe di essere accettissimo a que’ sovrani da’ quali fu impiegato, o presso i quali egli visse, ci fa vedere che, quale il mostrano le sue opere, tale era veramente»14. E piú avanti, sia pure piú specialmente a proposito della Storia, rispondendo al Gravina che aveva detto il Bentivoglio povero di sentimenti e parco nel palesar gli ascosí pensieri: «A me pare certo ch’ei sia ben lungi dall’esser povero di sentimento, e che anzi il difetto di questo celebre storico sia quello di affettare ingegno scrivendo, e l’usare troppo frequentemente le antitesi ed i contrapposti, senza però cadere in quella gonfiezza di stile sí comune agli scrittori di que’ tempi. Riguardo poi agli ascosí consigli, a me par che ne dica quanto ad un saggio storico si conviene, e che nulla egli ometta di ciò che a conoscere le segrete origini de’ piú memorabili avvenimenti può essere opportuno».
Il Barotti, richiamato il giudizio del Labat, nota: «Noi italiani non diciam tanto; ma dicendo meno, diciamo meglio. Il cardinale è stato uno scrittore prestante, pure qualche volta nelle sue lettere e nelle Memorie incappa in alcuna di quelle arguzie e di quelle gonfiezze, che a’ suoi giorni imbrattavano con gusto infinito de’ saccenti i versi e le prose»15.
Note
- ↑ G. Fontanini, Bibl. dell’eloq. ital., con le annotazioni del signor A. Zeno, Venezia, Pasquali, 1753, T. II, 132.
- ↑ Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, s. v.
- ↑ L’edizione di Colonia che noi abbiamo tenuta presente, e che riproduce quella dell’anno precedente di Anversa, è in due volumi, di cui il primo contiene: la dedica, in latino, del Puteano, Serenissimae principi Isabellae Ciarde Eugeniae infanti Hispaniarum; la Relazione delle Provincie unite di Fiandra, fatta dal Cardinal Bentivoglio in tempo della sua nunziatura appresso i serenissimi arciduchi Alberto e Anna Isabella infanta di Spagna sua moglie; la Relazione di Fiandra, cioè di quelle provincie che restano sotto l’ubbidienza de’serenissimi arciduchi Alberto e donna Isabella infanta di Spagna sua moglie; la Breve relazione di Danimarca, inviata a Roma in una lettera del cardinale Bentivoglio, in tempo della sua nunziatura di Fiandra, all’ili.mo Cardinal Borghese, nipote della Santitá di Nostro Signore papa Paolo quinto; la Breve relazione degli ugonotti di Francia. Il secondo volume contiene: la Relazione del trattato della lega di Fiandra che si concluse in Anversa alli IX d’aprile 1609; la Relazione della fuga di Francia del prencipe di Condé, e, infine, la Relazione della mossa d’arme che seguí in Fiandra l’anno MDCXIV per occasione d’aver le Provincie unite occupata la terra e castello di Giuliers ecc.
- ↑ Pregio considerevole dell’edizione De Steffani è poi quello d’esser fornita d’un «Indice alfabetico delle persone e cose piú notabili», ampio copioso ed accurato.
- ↑ Sperticate esagerate soffocanti, direi quasi, lodi, ed elogi, ha per il Bentivoglio in una lettera a lui diretta, del primo gennaio 1637, monsignor Ciampoli, segretario de’ brevi di Gregorio XV e di Urbano VIII, mentre attesta d’aver ricevuto il secondo volume della Storia di Fiandra; in un’altra poi, del primo gennaio 1640, da Fabriano, dopo aver detto che nelle solitudini dell’Appennino egli molto ha studiato, aggiunge: «Il frutto di tante fatiche letterarie sarebbe il poterle esporre in quel teatro popoloso, dove fusse per solo spettatore il signor Cardinal Bentivoglío. Nella persona di lui solo vi sarebbe l’accademia di tutti i saggi, né vi mancherebbe l’udienza di Erodoto e di Tucidide di Livio e di Tacito, i quali hanno fatto rifiorire tutte l’esquisitezze della Grecia e del Lazio nelle trionfanti istorie di Vostra Eccellenza». Lettere di monsignor Ciampoli ecc., in Bologna per G. Longhi, 1679. Ed il Mascardi, nell’opera sua: Dell’arte istorica, III, 296, Roma, Faccioni, 1636, riportando un passo della Storia di Fiandra, dice: «Concedasi fra gli antichi piú celebri un luogo ad un eccellente moderno, che illustra il nostro secolo con l’esercizio d’una fiorita e generosa eloquenza».
- ↑ Il passo vien cosí completato, poi, in nota: Ex Ap., t. 2: «Obiit die 7 Septembris 1644 in Vaticano, dum comitia pro novo creando Pontifice haberentur: sepultus in aede S. Sylvestri in Monte Quirinali, ubi adhuc iacet sine monumenti honore, et inscriptione, qui decus et honor Romanae purpurae fuerat».
Lodi al Bentivoglio troviamo anche in: Crasso L., Elogi d’uomini letterati, Venezia, per Combi e La Nou, 1666, t. 1, p. 162 e sgg. Vi si legge: «La nobilissima famiglia Bentivoglio non meno può andar famosa per l’origine del real sangue de’ Svevi, discendendo da Enzo re di Sardegna, figliuolo naturale di Federico secondo imperatore, e per lo principato avuto della cittá di Bologna, che per aver da lei sortito i natali Guido Bentivoglio, ornamento delle lettere, e dignissimo cardinale di Santa Chiesa... Con l’occasione di questa (di Fiandra) nunziatura indagò eruditamente il sito, l’origine delle sollevazioni, e le guerre della Fiandra con gl’interessi e le dependenze de’ principi maggiori dell’Europa: quali fatti che ordinatamente disposti han servito di prezioso cibo a’ letterati famelici delle storie, e a Guido apportarono l’immortal titolo del piú celebre istorico dell’etá sua». Ed alle pp. 266-267 di quest’opera si può anche leggere una poesia di Fulvio Testi: «All’eminentissimo e reverendissimo signor Cardinal Bentivoglio», nella quale, dopo aver ricordato le glorie militari e politiche dell’illustre famiglia, il poeta dice:Se di sangue smaltar l’aste fraterne
d’Olanda contumace il suol palustre,
gran ricompensa è che con penna illustre
l’ardite imprese sue tu renda eterne.
Dentro agl’inchiostri tuoi raccolti i rivi
tutti son d’Ippocrene, e cosí puri
corron, che ’n paragon sembrano oscuri
gli Erodoti alla Grecia, al Lazio i Livi. - ↑ Arte del dire, V, 6, in Bologna, per G. Monti, 1647.
- ↑ Della devoluzione di Ferrara alla santa sede tutti sanno quanto abbondantemente s’è scritto dagli anni dell’avvenimento in poi. Chi volesse conoscere la copiosa bibliografia che la riguarda potrebbe incominciare col vedere in Atti e memorie della deputazione ferrarese di storia patria (vol. X, 1898) lo scritto di V. Prinzivalli, La devoluzione di Ferrara alla santa sede, secondo una relazione inedita di Camillo Capilupi, e l’appendice appunto bibliografica che ad esso tien dietro. Qui però dobbiamo notare anche altra cosa. Dice il Bentivoglio nel capitolo secondo del primo libro, dopo aver parlato dell’esercito pontificio, presso cui era legato il Cardinal Aldobrandini, contro Ferrara: «Tale era lo stato delle cose narrate di sopra quando io partii da Padova e venni a Ferrara. Contra il marchese mio fratello erasi risentito gravemente il legato per averlo veduto venire con l’accennate forze alla difesa di Lugo e di quel confine; onde per giustificare lui da una parte e fare io dall’altra quella dimostrazione d’ossequio appresso il legato, che si doveva, risolvei d’andar subito a trovarlo a Faenza». Continua il Bentivoglio dicendo d’aver parlato col Cardinal Bandino, il quale l’ha consigliato ad attendere, prima d’abboccarsi col Cardinal Aldobrandini, l’imminente conclusione dell’accordo fra il legato e l’Estense: e cosí egli fece. Il Tiraboschi, invece, ingrandisce ben di piú la figura del Bentivoglio allora diciottenne, e lo anticipa addirittura diplomatico. Scrive egli, infatti: «Dopo la morte del duca Alfonso secondo seguita nell’anno 1597 egli ripatriò, e molto colla sua destrezza adoperossi, sí per riconciliare col cardinale Aldobrandini il marchese Ippolito suo fratello, che si era mostrato favorevole al duca Cesare, sí per conchiudere la pace tra questo sovrano e il pontefice Clemente VIII». E tale inesattezza venne ripetuta da altri che del Bentivoglio scrissero attingendo dal Tiraboschi, o da chi da questo aveva attinto.
- ↑ Chi poi voglia vedere quanto il Bentivoglio fosse al corrente del modo con cui s’è svolta la questione del marchesato di Saluzzo, degli intenti dei principali attori, della politica loro, della condotta di ciascuno di essi e della ripercussione immediata che questa ha avuto nell’acquisto di simpatie o di antipatie, e quanto esattamente egli abbia saputo esprimere giudizi, dovrá vedere anche il prezioso materiale, che è raccolto in: Carlo Emanuele I, Miscellanea, Bibl. della Soc. stor. sub., Torino, 1930. Ivi è richiamata abbondantemente la bibliografia riguardante l’argomento, e quivi sono importanti documenti. Ci sia lecito riferirci ad alcuni di essi, sempre, s’intende, in relazione a passi delle Memorie del Bentivoglio. Per la concordanza d’intenti fra Carlo Emanuele e la Spagna, dice il primo nelle istruzioni al conte di Verrua, al quale raccomanda di sostenere le sue ragioni sul marchesato di Saluzzo col papa col Cardinal Aldobrandini e con altri prelati: «Il medesimo farete poi con l’ambasciatore cesareo et catolico... remostrando al cesareo che per particolare interesse dell’imperio da cui dipende quel feudo, deve vivamente aiutarci acciò che resti sotto l’autoritá imperiale; il che seguirá quando il marchesato resti nelle mie mani, et il contrario ritornando in poter de’ francesi. Et al duca di Sessa, amb.re cat.co, remostrerete che deve ancora muoversi alla difesa di questa causa gagliardamente, sí per beneffitio n.ro come anche per sicurezza del stato di Milano tenendo francesi fori d’Italia et retirati di lá da’ monti. Il che sí promettiamo da V. E. tanto piú vivamente, quanto piú che S. M. ci ha fatto intendere haverli datto triplicato ordine di abbracciar la protettione di questa causa come cosa sua propria, et a punto hora è il tempo di aiutarla con l’andata v.ra costí per averne l’arbitraggio di S. Beat.ne». E per gli ammonimenti del pontefice a Carlo Emanuele, ed il giudizio intorno alla politica sua, vedasi il doc. XXVII parte II. Scrive il papa il 25 agosto 1600: «Sa ben V.a Alt. Ser.ma quante volte gli habbiamo fatto dire che ella saria cagione della rottura della guerra, et che metteria prima se et poi tutta la republica Christiana in grandissimi pericoli. A noi duole infino all’intimo del cuor n.ro, che ella habbia voluto arrisicar se, il stato dei figli et dei vassalli sanza sicurezza di potersi defendere et con sicurezza di poter guadagnar poco o niente, et forse con sicurezza di non rihaver mai, almeno colla forza, quello che ella, il che piaccia a S. D. che non si segua, potesse perdere in questa guerra; cagiona la rovina della Christianitá, poiché toglie la occasione di rivolger l’armi contro il turco, l’imperio del quale non solo accenna a declinare, ma totalmente mostra la total rovina. Vostre Sig.rie doverriano pensare chi ha desiderio d’imperi che si arisica non di guadagnare il marchesato di Saluzzo, ma le provincie et i regni grandissimi». Ed ancor piú risentitamente il pontefice al duca di Savoia il 17 settembre: «Piacesse alla M. Divina che l’Alt. V. Ser.ma havesse prestato un pocco piú di fede ai consigli et ricuordi n.ri, perché non haveria forse preposto, come ha fatto, in pericolo lo stato Suo et de’ soi figli, et non solo questo, ma lo stato della Republica Christiana tutta, che ci fa non solo star continuamente sopra i carboni accesi, ma in continuo timore et tremore di quello che possa giornalmente seguire»; (doc. XXVIII), ed il 23 settembre (doc. XXIX) ponendo quasi accoratamente innanzi la gravitá de’ sacrifici ch’egli compie pur di scongiurare ciò che ritiene una sciagura dell’umanitá: «Potrá ben conoscere V. A. Ser.ma, quanto gl’interessi di Lei ci siano a cuore, poiché per essi, con il mandar il card. Aldobrandino per questo effetto, habbiamo posposto non solo tutti gli interessi privati di casa n.ra, ma anco messo in pericolo la reputazione n.ra e della sede Ap.ca in tempo anco, che essa ha mostrato di non curarsi molto di questo. Noi con tutto ciò, riguardando alla salute della republica cristiana la quale va a grandissimo periculo per il part.re suo interesse mettendosi sotto i piedi ogni altro interesse, ci siamo resoluti di mandar il card, n.ro nepote, che ne è parso meglio, che andar noi medesimi, per veder se sará possibile di estinguer questo fuoco, co’ il quale dilatandosi ella potria far un pessimo scherzo alla rep.a Xristiana. Sará ben cosa giusta che l’Alt.a V.a si lasci governare e guidare da chi non ha altro fine che il bene et la quiete sua e da chi lo vol in suo interesse; discernerá meglio il bene et la salute di lei dei figli e dei stati propri».
- ↑ Archivio stor. it., n. s., t. XVIII, parte I, 1863; s. IIII, v. n, 1870; s. III, t. XII, parte I, 1870.
- ↑ Per piú ampie notizie sulla figura del Bentivoglio come diplomatico si veda ora R. di Tucci, Il card. Guido Bentivoglio e i suoi rapporti con la repubblica di Genova (Genova, Emiliano degli Orfini, ed., 1934).
- ↑ Fontanini, Op. cit., I, 110.
- ↑ Ib., p. 191.
- ↑ Tiraboschi, Storia della lett. ital. (dall’anno 1600 all’anno 1700, I . III, c. 25).
- ↑ Barotti L., Memorie istoriche di letterati ferraresi, vol. II, Ferrara, G. Rinaldi, 1793.