Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo VI
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Capitolo VI.
Qual relazione mi fusse data nel principio dell’arrivo mio a Roma intorno al sacro collegio de’ cardinali; come esso collegio si divida in vecchio e nuovo, e qual fusse il vecchio.
Vengo ora alla scena generale della corte. Fa in essa le prime parti il sacro collegio de’ cardinali; quindi segue l’ordine della prelatura e poi l’altre persone inferiori de’ cortegiani. Ma quest’ordine piú commune si vede riuscir quasi continuamente il piú principale, facendo in esso Roma il suo sforzo maggiore delle maggiori meraviglie. Qui lottano sempre insieme la virtú e la fortuna, qui veggonsi i maggiori sforzi dell’una e dell’altra, e di qua insomma fannosi quei sí frequenti passaggi alle prelature alle mitre alle porpore e alle supreme tiare; ma di ciò parleremo dipoi.
Tornando ora dunque al sacro collegio, oltre alla solita sua divisione in cardinali vescovi preti e diaconi, suole ancora in esso farsene un’altra, di collegio vecchio e nuovo. Nel vecchio si comprendono i cardinali giá creati da’ pontefici antecessori a quello che governa, e nel nuovo i cardinali promossi a tal dignitá dal pontefice allora regnante. Aveva papa Clemente di giá creati in varie e piú promozioni trenta e piú cardinali, e di questi si formava il collegio nuovo; tutti gli altri erano del vecchio e per la maggior parte creati da Sisto quinto. Vanitá sarebbe il voler parlar di tutti, onde io mi restringerò a trattare solamente di quelli che si trovavano allora in Roma, e che o per nobiltá o per gran virtú, o per l’una e per l’altra qualitá insieme, si reputavano li piú conspicui, senza però tacere quelle imperfezioni ancora delle quali venivano communemente notati alcuni.
Era decano allora del sacro collegio il cardinale Alfonso Gesualdo napolitano, di sangue principalissimo e che aveva goduto molti anni avanti e molto bene governata la chiesa archiepiscopale di quella cittá. Cardinale di nobile presenza di maniere amabili, e nel quale risplendevano ancora molti altri doni della natura e dell’animo. Grande amico non del lusso ma della politezza, come ancora molto inclinato a godere non un ozio ignobile ma una vita soavemente occupata. Onde egli né sfuggiva né incontrava il negozio; capace nondimeno di maneggiarlo e che per altre sue virtú poteva meritare di essere capo del sacro collegio quando ben’egli non fusse stato.
Dell’istessa cittá era il cardinale Inico d’Aragona uscito della casa d’Avalos, che è una delle maggiori e piú stimate che abbia il regno di Napoli. Veniva egli riputato cardinale di gran maneggio ne’ conclavi particolarmente, e dal quale piú che da niun’altro i cardinali piú giovani fussero soliti di pigliare l’ dinstruzioni e di ricevere insieme i consigli. Il suo maggior impiego era stato quello di rimanere con la legazione di Roma nel viaggio di papa Clemente a Ferrara, e l’aveva egli sostenuta con gran decoro ed amministrata insieme con gran prudenza. Dilettavasi di star nobilmente adobbato in casa, e di variar piú volte i parati secondo che piú volte variavano le stagioni. Aveva particolarmente una cappella ornatissima, ed in essa pur’anco secondando le mutazioni delle feste principali nell’anno, faceva mutar le tavole di pittura all’altare e molto ben dipinte e molto divotamente istoriate.
Per lunga pratica di maneggi era in concetto grandissimo il cardinale Tolomeo Gallio, chiamato col titolo della sua patria di Como. Pio quarto, che di suo segretario l’aveva creato cardinale, l’aveva anche dopo mantenuto appresso di sé nell’istesso offizio, e quasi poi con maggior autoritá si era servito di lui Gregorio decimo terzo pure nel medesimo carico. Cardinale consumatissimo nella corte di Roma, e che sapeva molto bene la sua natura e le sue agitazioni e le sue influenze. Saggio destro paziente sagace in saper conoscere gli uomini e gli umori, e pieghevole sopramodo in accomodarvisi. Grande, economo temporale, e non punto meno caritativo ecclesiastico; poiché ad un tempo egli aveva e fatta molto riguardevole la casa sua con rendite secolari e fondato nobilmente piú di un luogo pio con entrate ecclesiastiche.
Per considerazioni pur di negozi grandi, e ne’ conclavi massimamente, si trovava in somma riputazione il cardinale Ludovico Madruzzi. Aveva egli in tutta quella precedente serie di freschi e brevi conclavi portato con seco la voce, che vuol dir la notizia de’ sensi intimi, che il re di Spagna Filippo secondo riteneva allora intorno a’ soggetti da eleggersi al grado pontificale, e qualche volta Madruzzi si era servito di quell’autoritá con sí grand’eccesso che molti l’avevano chiamato piú tiranno che moderatore de’ conclavi. Ma in ogni modo era gran cardinale e per chiarezza di sangue e per gravitá di costumi e per tutte l’altre condizioni che potessero farlo essere piú riguardevole; e potevasi veramente restar in dubio qual delle due case austriache lo stimasse piú: o l’imperatore di Germania o il re di Spagna, benché i vantaggi nella corte di Roma si godevano da questa molto piú che da quella; ma però con tutto ciò con tale unione d’interessi che non potevano questi di Roma esser piú uniti medesimamente fra l’una e l’altra di loro.
Dalle mani di Pio quinto aveva il cardinale Giulio Antonio Sertorio ricevuta la dignitá del cardinalato; era egli nativo di Caserta cittá del regno di Napoli, ma chiamavasi col titolo di Santa Severina per l’arcivescovato di quella cittá che molti anni prima egli aveva goduto cardinale. Univa la severitá di costumi e la rigidezza generalmente in tutte l’azioni. Nelle materie del sant’officio egli veniva riputato un oracolo, e per quella via principalmente si era introdotto appresso al pontefice Pio con abusar troppo alle volte del suo santo zelo. Nondimeno egli era veramente grande ecclesiastico, e nell’arrivo mio a Roma tuttavia si parlava assai di quel caso sí strano che nel prossimo antecedente conclave sí aveva fatto vedere in un punto papa e non papa, con essere poi concordemente caduta l’elezione in Aldobrandino. Questi cardinali erano nell’ordine de’ vescovi, ed i primi quattro in un tempo medesimo creati da Pio quinto.
Nell’ordine che seguiva de’ cardinali preti, i piú riguardevoli nel collegio vecchio riputavansi Dezza, Fiorenza, Salviati, Verona, Gioiosa, Ratzuil, ’l Terranuova, Caetano, Borromeo, Santa Cecilia ed Acquaviva.
Il cardinale Pietro Dezza nato di nobil sangue in Spagna era venuto a Roma verso la metá del pontificato di Gregorio decimo terzo, che poco prima l’aveva promosso alla dignitá del cardinalato. In Spagna egli con la virtú se n’era acquistato il merito esercitando varie giudicature ecclesiastiche e secolari nei primi tribunali di quelle parti, e sempre con laude uguale di prudenza dottrina ed integritá. Era egli capo della cancellaria di Granata quando sí audacemente e sí all’improviso la vil feccia moresca tornò a sollevarsi in quel regno. Non poteva essere maggiore il pericolo, e benché fosse inviato dal re l’istesso fratello suo don Giovanni a procurarne il rimedio, con tutto ciò il Dezza ebbe tanta parte anch’egli nel felice successo che ne seguí, che non poteva esser quasi maggiore il merito che insieme ne riportò. Del che diede segno ben presto il re col trasferirlo da quella residenza di Granata ad un’altra maggiore di Vagliadolid, né si ritenne di onorarlo sinché non gli ebbe procurata e poi ottenuta la dignitá del cardinalato. Venne egli dunque alla corte di Roma. Ne’ teatri di tutte le corti rare volte si possono fare corrispondere di presenza le azioni alla fama che le precede; ma questo si vede succedere specialmente nella corte di Roma, la quale per tante nazioni che vi concorrono, e per tanti e sí acuti ingegni che la censurano, forma di piú teatri, per dir cosí, un teatro sommamente difficile da sodisfare. Ciò seguí allora nella persona del cardinale Dezza di tanta riputazione, come ho accennato; com’è avvenuto e prima e dopo in quella pur di tanti altri. Non mantenne qui egli dunque la stima che vi portò; quell’attitudine e quella pieghevolezza che richiede il negozio di Roma non fu portata né poi qui presa da lui nel modo che bisognava; e certa sua tenacitá ancora intorno allo spendere lo faceva tanto meno stimare anche dalla sua propria nazione. L’essere nondimeno egli protettore di Spagna con tutte l’altre sue qualitá unite assieme gli facevano avere gran luogo, e insieme gran parte nel sacro collegio.
E passando ora al cardinale Alessandro de’ Medici, chiamavasi egli col titolo di Fiorenza per l’arcivescovato che godeva di quella cittá. Aveva fatta molti anni professione secolare, e in quella sorte di vita il granduca Cosimo primo s’era servito di lui in Roma per suo ambasciatore lungo tempo. Quindi eletto arcivescovo di Fiorenza e creato poi cardinale, aveva egli sodisfatto sempre a questi due impieghi con tutte l’azioni che potevano essere piú richieste dall’uno e dall’altro. Alla sua riputazione di prima erasi poi anco aggionto un gran cumulo di nuova gloria per la giá accennata sua legazione di Francia, e il fresco ritorno suo da quel regno gliene faceva godere in Roma pienamente l’applauso. Congiungevansi in lui candore e gravitá di costumi, gran zelo ecclesiastico e quella decente nobiltá che gli conveniva di spiriti, eziandio temporali. Tutte qualitá con molte altre però molto lodevoli, che lo fecero poi succedere nel ponteficato a papa Clemente.
Della medesima nazione e patria, creato dall’istesso pontefice e nell’istesso tempo era il cardinale Antonio Maria Salviati. Toccava egli ancora di parentela i prencipi di Toscana, e in qualitá di parente l’aveva riconosciuto nella sua nunziatura di Francia la regina Caterina de’ Medici, e gli aveva dato allora il principale maneggio del regno. Da quella nunziatura aveva egli riportato gran nome per le fatiche fattevi in quei turbolentissimi tempi, fra i quali cade appunto la memorabile notte di san Bartolomeo apostolo, che bastò bene a raffrenare in alcuna parte ma non giá quanto bisognava l’audacia e la rabbia degli ugonotti. E non era poi stata minore la lode conseguita da lui nella legazione di Bologna in tempo di Sisto quinto, col procurare che il suo governo facesse godere specialmente in quella cittá una somma pace col mezzo di una incorrotta giustizia. Piegava egli dal grave piú tosto al severo; integerrimo di vita e di sensi, grand’amatore de’ poveri e insieme benefattore, come lo dimostrano le fondazioni e le fatiche da lui con tanto splendore di caritá e di spesa o in gran parte accresciute o intieramente di nuovo erette. Nemico di ogni lusso e d’ogni esterna apparenza, gran cardinale in somma; né tardò poi egli di morire. Cardinale per commune giudizio allora stimato degno di sopravivere al pontefice Clemente, e di succedergli cosí nelle maggiori dignitá, come tanto l’imitava in tutte l’altre virtú; né vi era che lo stimasse piú dello stesso Clemente, il quale per darne un segno straordinario l’andò a visitare moribondo e gli portò egli stesso la sua benedizione apostolica.
Un altro pur grand’esempio di zelo ecclesiastico e di virtú pastorale riluceva nel cardinale Agostino Valerio, che si faceva chiamare anch’egli col titolo di Verona per essere vescovo di quella cittá. Era egli uscito dalla scuola del cardinale Navagiero vescovo di Verona suo zio materno, il quale dagli onori temporali piú rilevanti della republica di Venezia passato alle dignitá piú eminenti poi della Chiesa, aveva procurato in particolare che riuscisse degno allievo della sua virtú questo nipote. Fatto egli dunque vescovo di Verona in luogo del zio, oltre a questo domestico esempio si diede tutto all’ossequio e insieme all’imitazione dei glorioso san Carlo, e appresso di lui entrò presto in sí buon concetto che da quel santo arcivescovo specialmente fu tanto piú mosso Gregorio decimo terzo a premiare le virtú di esso vescovo con la dignitá del cardinalato. Quando io venni a Roma, egli era giá vecchio di settanta anni e ne visse alcuni altri. Venerabile di presenza, venerabile di conscienza, e candidissimo di natura; tutto pio, tutto buono, tutto in somma ecclesiastico, e che veramente rappresentava uno di quei venerandi vescovi che piú hanno resa illustre la Chiesa di Dio antica. A tali e si riguardevoli qualitá si aggiungeva una grande erudizione in tutte le sorti di lettere, e fra l’altre in quelle che sono le piú culte e le piú nobili. Purgatissimamente componeva in latino, e fra molte opere sue publicate alla stampa aveva conseguito grande applauso in particolare la sua retorica ecclesiastica. Degnissimo di ogni lode invero, e la cui memoria sará specialmente venerata da me finché io viva non solo per la venerazione che si deve a tante virtú per se stesse, ma per l’affetto col quale mi trattò sempre dopo che io mi fui introdotto nella sua conoscenza e famigliaritá, e fu a segno ch’egli mostrava d’amarmi quasi al pari e d’avermi in luogo d’uno de’ suoi propri nipoti.
Nella medesima promozione di questi tre cardinali gregoriani era entrato similmente Francesco Gioiosa francese. Quando egli fu promosso regnava in Francia Enrico terzo, e appresso di lui si trovava in cosí eminente favore Anna duca di Gioiosa fratello del cardinale che il re di suo favorito l’avea fatto divenire suo cognato, dandoli in matrimonio una sorella dell’istessa regina sua moglie. Alla dignitá del cardinalato aveva il re aggiunto una sí gran quantitá di beni ecclesiastici che in breve tempo Gioiosa era venuto a goderne piú d’alcuno altro prelato e cardinale di quel regno. Quindi, morto il cardinale Luigi d’Este protettore di Francia in Roma, aveva pur’anco il medesimo re conferito quell’offizio nel medesimo cardinale di Gioiosa; onde, comparso egli piú volte nella corte di Roma con prerogative sií grandi, non poteva esser maggiore la splendidezza con la quale si trattava né l’autoritá che nelle cose di Francia egli riteneva.
Di questa grandezza che gli era venuta per sí alto favore di fortuna, mostravasi egli nondimeno grandemente capace in riguardo eziandio del suo proprio merito. Era dotato di grave aspetto, e sopra l’ordinario della nazione, dotato ancora di gravi costumi; benché nella frequenza de’ suoi viaggi di Francia egli riteneva pur’anco molta parte di quel moto continuo sí praticato in quelle parti e dalla corte regia e da tutti i signori piú grandi del regno. Ma in ogni modo egli fu sempre sommamente stimato cosí in Roma quando vi dimorava come in Francia, dove piú d’ordinario per suoi propri affari viveva.
Dell’istessa promozione gregoriana di dieci cardinali (che veramente fu delle piú celebri che mai si vedessero in alcun pontificato poiché specialmente produsse quattro pontefici) fu fatto anco Giorgio cardinale Ratzuil, uscito di casa nobilissima nel granducato di Lituania, che è unito col regno di Polonia. Era egli nato, e nella prima sua fanciullezza, si era nutrito eretico, ma fattosi cattolico, dopo un gran giro di nobile e varia peregrinazione stabilitosi sempre piú nella vera fede, erano venute le sue qualitá in notizia e unitamente in concetto sí vantaggioso appresso Gregorio, ch’egli con somna approvazione l’aveva veduto ascendere al vescovato di Vilna, che solo abbraccia tutto il governo spirituale di Lituania. Dall’istesso Gregorio era stato conosciuto di presenza, e trattato Giorgio negli anni piú giovanili; onde vedutolo con gli anni crescere piú sempre nella virtú e sostenere con tanto merito della sua persona le dignitá piú riguardevoli della Chiesa, l’aveva voluto elevare al supremo onore della porpora. Dal vescovato di Vilna era poi passato Ratzuil a quello di Cracovia, che è il primo della Polonia. Quindi venuto a Roma con l’occasione dell’anno santo vi si tratteneva con ogni piú nobile e cospicua maniera. Faceanlo sommamente risplendere e la chiarezza del sangue e la nobiltá dell’aspetto e la gravitá de’ costumi e la cognizione delle lettere e l’accompagnamento di tutte l’altre qualitá, che possano e meglio ricevere onore dalla porpora e darglielo. Col zelo suo proprio faceva egli apparir tanto piú ancora quello di tutta la nazione polacca, sií benemerita della Chiesa nel mostrarsi in tutte le occasioni il piú vero piú costante e piú forte propugnacolo in suo favore, che abbia quel tratto settentrionale contro la formidabile potenza ottomana. Ma né la Chiesa né la sede apostolica né la Polonia e la Lituania poterono godere lungamente d’un tanto lume e d’un tanto bene, poiché egli poco dopo il principio dell’anno santo venne con fine immaturo a morte, e ciò seguí con sommo dolore del papa medesimo che si pregiava specialmente della sua legazione in Polonia, che faceva singoiar stima del cardinale, e che non avendo potuto goderlo piú lungamente in vita, volle onorare almeno la sua morte con visitarlo egli stesso e compartirli la sua benedizione apostolica di presenza.
Dalle mani dell’istesso Gregorio nella medesima promozione era uscito il cardinale Simone di Tagliavia siciliano. Facevasi egli chiamare col sopranome di Terranova, che era il titolo dello stato col quale si denominava Carlo duca di Terranova suo padre. Non poteva egli uscire né di casa piú principale in Sicilia né di padre piú stimato in ogni altra parte. Aveva il padre in diversi nobilissimi impieghi da lui esercitati in servizio del re Filippo secondo acquistato un gran merito appresso la corona di Spagna. Era stato egli spedito dal re particolarmente a quel convento celebre di Colonia nel quale pur papa Gregorio aveva inviato suo nunzio l’arcivescovo di Rossano, Giovan Battista Castagna, creato poi cardinale da lui nell’istessa promozione col Tagliavia e che poi fu assunto al grado pontificale. Trattossi in quel convento di rimediare alle turbolenze che agitavano sí miserabilmente la Fiandra, e con sí gran pregiudizio della religione e causa cattolica; e benché fusse riuscito infruttuoso il trattato, con tuttociò il duca di Terranova in esso aveva mostrato sí ardente zelo non meno in quella parte che riguardava il servizio della sede apostolica che nell’altra concernente gl’interessi propri della corona di Spagna, che non aveva potuto farlo apparire maggiore l’istesso nunzio nel separato suo ministerio. Quindi mosso Gregorio, e per se stesso e per gli offici del re, si era con ogni propensione indotto a promovere Simone figliuolo del duca alla dignitá del cardinalato. Studiava allora il figliuolo in Ispagna e con tale opinione di virtú e d’ingegno, che fu molto approvata la sua esaltazione a quel grado. Venuto poi alla corte di Roma vi si era trattenuto con grande onorevolezza, e tuttavia vi si manteneva con l’istesso decoro. Cardinale grave prudente che mostrava buoni sensi civili, e che ne faceva apparire proporzionatamente ancora le azioni.
Fra le creature di Sisto quinto rendevasi sommamente conspicuo per nobiltá e di sangue e di merito il cardinale Enrico Caetano. Le due legazioni di Francia e di Polonia da lui fatte, per l’una parte con tanto splendore nel sostenere la dignitá della santa sede e per l’altra con tanto zelo nel procurare ogni maggior servizio e vantaggio alla religione cattolica, avevano reso molto celebre in quei due regni e anco appresso tutte l’altre nazioni il suo nome. Portava egli seco un non so che di grande naturalmente cosí nella presenza come nelle altre sue qualitá, che faceva aspettare sempre da lui azioni generose e magnanime. Aveva speso con grande eccesso particolarmente nelle accennate due legazioni, e la natura sua propria lo faceva essere liberale eziandio quando egli non aveva occasione d’esercitarsi in quella virtú. Ma in ogni modo questa e l’altre delle quali molto largamente egli era ornato lo rendevano riguardevolissimo nella corte, e fuori di essa lo facevano anco straordinariamente stimare in ogni altra parte.
Del medesimo Sisto era anche creatura il cardinale Federico Borromeo, di casa nobilissima milanese. La fresca e non errabile memoria del glorioso san Carlo aveva mosso tanto piú Sisto a rinovar quella dignitá in quella casa, e specialmente nella persona di Federico, il quale benché molto giovane nondimeno fin d’allora con la virtú superava di gran lunga l’etá. Quando io venni a Roma era egli arcivescovo di Milano, ma si tratteneva in Roma per cagione di alcuni duri contrasti che in materia di giurisdizione passavano fra lui ed il contestabile di Castiglia governatore di quello stato. Mostravasi questo cardinale congionto non meno di virtú che di sangue a san Carlo, e caminava per le medesime strade e pedate. Nel governo di quella chiesa procurava che se ne godesse ancora l’istesso frutto. Aveva atteso con sommo ardore agli studi, variando l’applicazione ora a questi ora a quelli, ma con gran profitto sempre negli uni e negli altri. Possedeva egli perciò molto bene le sacre lettere, e molto bene ancora l’altre piú amene e piú culte, che sogliono ordinariamente essere le piú necessarie a formare l’eloquenza; la quale era molto professata da lui e nelle scritture e nelli pulpiti. Al medesimo fine faceva studio nella varietá delle lingue, onde aveva acquistato non solamente l’uso della greca, ma dell’ebrea. Nella latina e nella toscana si viddero poi col tempo varie sue composizioni in grossi volumi, i quali però non hanno avuto né gran corso né grande applauso essendosi dubitato che ne’ latini non siano meschiate le fatiche degli altri quasi piú che le sue, e giudicandosi i toscani pieni appunto di toscanismi affettati con eccesso di parole antiche e recondite, e con povertá di concetti fiammeggianti e vivaci. Ma in ogni modo egli merita un grandissimo applauso da tutti i fautori e professori delle lettere cosí per averle professate con tanta riputazione egli stesso come per aver fondata in favore di tutte le discipline e di tutte le scienze la famosa libraria Ambrosiana in Milano, che oggidí viene giudicata per le sue particolari circostanze la piú insigne e la piú celebre che sia in tutta Europa.
Segue ora il cardinale Paolo Sfondrato milanese di sangue principalissimo, che dalla sua chiesa titolare si chiamava di Santa Cecilia. Per un breve spazio di dieci mesi era egli stato nipote di Gregorio decimoquarto, ma con eccesso di autoritá sí grande che non avrebbe potuto in dieci anni acquistarla maggiore. Oltre alla grave etá pativa il zio di molte gravi indisposizioni, e specialmente veniva afflitto dal male di pietra, onde egli in quel tempo breve del pontificato era stato piú in letto che in piedi, e aveva governato molto piú languendo che operando. Passava trenta anni il nipote quando il zio era asceso alla pontificale dignitá, e perciò il nipote trovandosi molto robusto d’anni, e assuefatto molto prima al negozio, aveva con questa considerazione il zio tanto piú facilmente posta in mano sua tutta l’autoritá del governo. Inanzi al pontificato aveva Paolo alcuni anni menata una vita da claustro quasi piú che da corte. Frequentava specialmente la Vallicella; erasi dato a quella congregazione e tutto in particolare alla disciplina di san Filippo e alla familiaritá di Tarugi e Baronio; ma venuto poi nipote di papa non aveva egli ritenuti o mostrati almeno i medesimi spiriti; anzi al contrario mostrandosi tanto piú avido di quel breve imperio quanto piú lo vedeva fuggitivo, e tirando a sé tutta l’autoritá che da molti era chiamata dominazione, perciò aveva egli fatto nascere nuovi concetti delle sue azioni presenti come tanto diverse dalle passate. Eragli intanto venuta meno la qualitá di nipote di papa dopo la morte del zio, onde rimasto cardinale sotto l’imperio altrui dopo avere deposto il suo, s’era dato nuovamente alla vita spirituale, e piú che mai la professava in tutti i modi piú convenienti alla dignitá che tuttavia lo faceva sí conspicuamente risplendere. La chiesa del suo titolo era, come ho detto, quella di santa Cecilia, vergine e martire sí gloriosa; ma non corrispondeva alla sua gloria celeste questo edilízio terreno. Onde il cardinale s’applicò a risarcirlo e in varie maniere a nobilitarlo, che in breve tempo lo fece divenire uno de’ piú vistosi e piú nobili che siano oggidí in tutta Roma. Il meno però fu la fabrica. Non volle acquietarsi giamai il cardinale sinché egli dopo avere usate diligenze incredibili non ebbe trovato il corpo della medesima santa, e ciò gli succedé con una felice ricerca di altri corpi santi che pure nel medesimo luogo gli vennero in mano all’istesso tempo. Aggiunse egli dunque altre splendidissime nuove memorie in onore principalmente della martire a cui era dedicata la chiesa ed insieme degli altri accennati santi. E queste erano le delizie, questi i teatri ne’ quali si tratteneva il cardinale Paolo Sfondrato quando io venni a Roma. Nel resto viveva con modestia esemplare di famiglia e di casa; le piú ricche suppellettili delle proprie stanze erano pitture eccellenti nelle quali contendevano insieme la pietá con l’arte, e l’arte con la pietá. Nude in tutto il resto le pareti e di quelle e di ogni altra camera. Servizio di terra alla tavola, vivande a proporzione del servizio; carrozze e cocchi in ogni piú positiva forma, e tutte l’altre azioni pur similmente con ugual corrispondenza in modo che una tal sorte di vita e con un tenore sí costante (che poi si confermò sempre piú in avvenire) non lasciava piú in dubio ch’egli non fusse pieno di gran zelo, e pieno insieme delle altre piú pregiate virtú ecclesiastiche, e in somma non fusse tale in se stesso di dentro quale si mostrava in tanti modi e tanto esemplare di fuori.
Aveva ricevuto dal medesimo Gregorio decimoquarto l’onore della porpora il cardinale Ottavio Acquaviva napolitano. La casa Acquaviva ritiene luogo principalissimo fra le piu antiche e le piú illustri del regno di Napoli, e restavano assai fresche tuttavia le memorie di due altri suoi cardinali, l’uno zio d’Ottavio, e fu Giovan Vincenzo creato cardinale da Paolo terzo, e l’altro, fratello, era stato Giulio promosso da Pio quinto a quel grado. Ascesovi dunque Ottavio se n’era egli mostrato e degno prima e degno molto piú dipoi; per via degli studi prima ch’egli aveva fatti con somma cura, e poi col merito d’alcuni governi molto onorevoli da lui esercitati nel dominio ecclesiastico era venuto in gran concetto della corte romana, onde fra i quattro cardinali creati da Gregorio dopo la creazione del nipote uno di essi era stato Ottavio. Quindi morto Gregorio, e quasi subito anco Innocenzio ed a loro succeduto Clemente, erasi da questo pontefice mostrata ogni maggior opinione intorno alle cardinalizie qualitá d’Acquaviva né aveva tardato poi molto a porgli in mano la legazione d’Avignone, carico allora importantissimo e spinosissimo per l’agitazioni che tuttavia regnavano in Francia e che rendevano insolentissimi gli ugonotti, specialmente nel Delfinato e per tutte le parti lá intorno al contado venusino e alla cittá di Avignone. Aveva il cardinale nondimeno sostenuta quella legazione con tanto onore della sede apostolica e suo che non poteva lasciarne piú celebre esempio e memoria, né donde i suoi successori potessero piú sentire eccitarsi da una nobile emulazione e invidia. Tornato poi egli a Roma vi si era sempre conservato in grandissima riputazione, e veramente la nobiltá del suo sangue e delle sue virtú pienamente la meritava. Aggiungevasi quella insieme della presenza che pur anche a pieno corrispondeva; e quel non so che di grande, che è dono della natura senza che possa avervi quasi alcuna parte l’industria, pur similmente in lui con felicitá particolare si ritrovava. Amico delle lettere, amatore delli litterati e gran litterato egli stesso per gli studi che professava, e specialmente per le fatiche da lui fatte ne’ piú eleganti e piú culti delle lingue greca e latina e toscana. Con lui aveva strettissima intrinsichezza il Quarengo del quale io feci menzione di sopra, e per suo mezzo fin quando si trovava papa Clemente in Ferrara fui introdotto anch’io nella conoscenza del medesimo cardinale, che poi si compiacque in Roma di farmi godere sempre piú i suoi favori e le conversazioni particolarmente erudite e nobili, con le quali facendo onore agli altri nella sua casa, veniva a riceverlo dalla virtú largamente all’incontro nella sua propria persona. E ciò basterá intorno a quei cardinali vescovi e preti del collegio vecchio, che si trovavano in Roma quando io vi giunsi e che per giudizio dei piú si riputavano i piú cospicui.
Nell’ordine diaconale poi del medesimo collegio vecchio i piú riguardevoli cardinali erano Sforza, Montalto, Colonna, Farnese e Facchinetti.
Sforza dalla professione militare in Fiandra era passato all’ecclesiastica in Roma, fatto cardinale da papa Gregorio decimo terzo per occasione del matrimonio fra Costanza sorella del cardinale e Giacomo figliuolo naturale del papa. Non si vidde forse mai tanta diversitá di costumi di quella che mostrava allora, e che fece apparire dopo sempre nella sua vita e nelle sue azioni il cardinale Francesco Sforza. Da una parte egli non poteva essere né piú vivo d’ingegno né piú pronto di lingua né piú trattabile di maniere né piú disinvolto in occasione di maneggi, e quelli specialmente de’ cinque conclavi fin’allora dove egli si era trovato gli avevano partorita una grande opinione d’abilitá in tutte quelle materie, o di condurre o di rompere o di stringere o di stancare le pratiche, per via delle quali passano le elezioni de’ sommi pontefici. Era dotato di felice memoria, possedeva molte importantissime notizie di stato, e insieme di chiesa; trattavasi allora tuttavia molto splendidamente e con molta laude aveva amministrata la legazione di Romagna, e svelta specialmente di lá una peste abominevole di banditi. Dall’altro canto poi vario, in costante sempre piú con gli anni; fatto nemico al negozio, e nel declinar poi e finir della vita reso in diverse altre maniere sí discordante da se medesimo e dal suo chiarissimo sangue, che in ultimo non gli restava piú, si può dire, alcun vestigio presente di quelle sue sí nobili e sí riguardevoli azioni passate.
In vari tempi due donne Sforzesche sono entrate nella mia casa, e all’incontro delle Bentivoglie pur nella loro. Ond’io non avrei voluto aver questa occasione di riferire con tante sí belle parti tant’altre sí difettose d’un cardinale di questa casa. Ma il candore della puritá e quello insieme della mia penna deve essere da me ritenuto qui nel teatro di me medesimo, e di queste mie segrete memorie, non meno di quello che io abbia professato nell’opere mie uscite alla publica luce a vista di tutti. Benché sia mossa in me questa considerazione in riguardo molto piú della Chiesa che mio, dovendosi far riflessione al grave danno che ella patisce quando ne’ cardinali non concorrono quelle virtú che doverebbono accompagnar quella dignitá. Dal collegio cardinalizio vien rappresentato il collegio apostolico. Non può considerarsi alcuna virtú sí eminente della quale non dovesse trovarsi ornato quello per rendersi conforme quanto piú fosse possibile a questo. Ma come in questo permise Cristo divino suo fondatore e capo che entrasse ancora l’imperfezione, e che la medesima imperfezione si convertisse poi in maggior virtú, cosí la medesima bontá sua dispone che nell’altro prevaglia sempre di gran lunga al servizio che ne riceve la Chiesa, l’onor che ne riporta la santa sede e la prerogativa particolare che ne risulta al romano pontefice; ché finalmente il sacro collegio de’ cardinali non è un ordine monacale, che faccia la vita fra i dormitori e stia rinchiuso continuamente fra i claustri. Entra in esso per ordinario il sangue de’ re, il sangue degli altri prencipi, il sangue piú illustre o la virtú piú elevata d’ogni nazione. Suo claustro è Roma, suo claustro l’Italia, suoi claustri tutti gli altri paesi dove regna Cristo e la sua vera antica religione. In modo che quando bene s’incontra qualche notabil difetto in un cardinale, essendo massimamente sí largo il numero loro e sí varie le qualitá, non deve perciò sentirne pregiudizio la Chiesa fondata e mantenuta per tutti i secoli in una somma perfezione di governo, benché spesse volte siano imperfette le azioni di quelli nelle cui mani principalmente vien consegnato e distribuito.
Ma tornando alla mia narrazione, Sforza era il piú antico diacono. Dopo di lui seguiva il cardinale Perretti col titolo di Montalto, ch’era prima il titolo usato da papa Sisto suo zio. Era di quindeci anni Montalto appena quando il zio l’aveva promosso al cardinalato. Per essere di etá cosí tenera egli non aveva quasi alcuna participazione del governo e per conseguenza neanco dell’invidia e dell’odio che resta per l’ordinario in quei nipoti, i quali o per lunghezza di tempo o per eccesso d’autoritá sono stati nel supremo luogo del ministerio appresso i loro zii. Rimasto dunque Montalto con l’officio di vicecancelliere vacato in tempo di Sisto per morte del cardinale Alessandro Farnese e con altre larghissime entrate ecclesiastiche, abitava egli nel palazzo amplissimo della vicecancelleria, e vi si tratteneva con una delle piú numerose famiglie e piú splendide che allora si vedessero in Roma. Aveva egli piú del rozzo che dell’amabile nell’aspetto; grave di portamento nella persona e quasi non meno di communicazione eziandio ne’ costumi, ritenuto assai di parole e pieno di certa esteriore malinconia che da molti era giudicata piú tosto una sua interiore alterigia, e quantunque nelle conversazioni domestiche egli si mostrasse poi molto cortese e trattabile, nondimeno e la sua propria retiratezza e l’uso ch’egli aveva pigliato di convertire quasi intieramente il giorno in notte e la notte in giorno rendevano sopra modo difficile il trattar seco, e rendevano insieme lui stesso tanto alieno maggiormente dallo star sul negozio al quale per sua natura poco inclinava. Ma in ogni modo era gran cardinale, grandemente stimato nella corte di Roma e fuori di essa da tutti i prencipi, e dal granduca di Toscana Ferdinando in particolare, che aveva deposto il cardinalato in tempo di Sisto quinto e riteneva sempre un’affettuosa e costante amicizia col nepote Montalto. vanlo maggiormente stimare tanto piú le sue parentele sí strette con tutti i prencipi, e con tutti due i capi delle due case Colonna e Orsina. Amava egli sommamente la musica, e manteneva in casa virtuosi in quella professione eccellentissimi. Era grand’elemosiniere; fabricava una religiosa chiesa alla religione de’ teatini. Mostravasi liberale in ogni altra piú nobil forma, e veniva commendato singolarmente in una qualitá che spesso in Roma si desidera e di rado si trova, cioè ch’egli fosse verace e che sempre religiosamente osservasse quello che promettesse. E certo pochi altri nepoti che siano rimasti in elevata fortuna avranno avuto quel non so che di grande in se stesso che non si può bene esprimere come l’ebbe il cardinale Montalto, e non meno di lui anco il prencipe suo fratello. E soleva dire la duchessa di Sessa, donna di raro ingegno e longamente versata in Roma, che l’uno e l’altro di loro pareva nato grande e non divenuto.
A Montalto succedeva il cardinale Colonna Ascanio. Da giovane era passato egli in Spagna non solo per fare i suoi celebri studi con tanto maggior profitto nelle celebri scuole di Salamanca, ma per far tanto piú apparire insieme la devozione sua particolare e della casa sua verso Filippo secondo regnante allora, e verso quella corona. Onde per l’instanze del medesimo re oltre alle considerazioni proprie della sua casa egli era stato promosso al grado di cardinale da Sisto quinto. Dalla corte di Spagna tornato poi a quella di Roma aveva partorito di sé un gran concetto. Era sopramodo vivace d’ingegno, fornito di varia ma nobile litteratura, e dotato naturalmente d’una soave e pellegrina facondia; ma godeva egli in particolare una sí felice memoria, sempre conservando le cose lette e discorse che non si presentava perciò nelle conversazioni quasi materia alcuna della quale non si mostrasse piú che tinto, e con troppo compiacimento da se medesimo non si applaudesse. Viveva con molto splendore, e procurava con le sue azioni di darlo non meno che di riceverlo dalla sua famiglia, e di apparire specialmente degno figliuolo di Marco Antonio suo padre che tanto si era illustrato nella lega memorabile contro il turco.
Ma sopramodo vantaggiose erano le prerogative che risplendevano nel cardinale Odoardo Farnese, promosso a quel grado da Gregorio decimo quarto e che seguiva dopo Colonna. Quelle ricchezze, che in tanti modi e per le vie ecclesiastiche e per le temporali aveva goduto e godeva la casa sua, rendevano sommamente riguardevoli le sue proprie, in modo che non potevano essere quasi maggiori nella corte di Roma in favore della sua persona i vantaggi. Abitava egli nel regio farnesiano palazzo. Godeva fuori di Roma l’altro non meno regio di Caprarola, e gareggiando col zio cardinale in mostrare il suo affetto verso la religione de’ gesuiti, sí come quegli avea fabricato un nobilissimo tempio, cosí da lui si aggiungeva al tempio proporzionata decentissima abitazione, ch’egli prima di morire vidde poi intieramente finita. Mille altre delizie pur dentro e fuori di Roma erano possedute dalla sua casa, ch’egli poteva applicare secondo i tempi nella sua persona. Ma ad ogni modo una influenza tanto grande di profani vantaggi non aveva mai in lui profanati i costumi. Trattavasi alla grande secolarmente per l’una parte, ed insieme con tali ecclesiastiche azioni per l’altra che non poteva farne uscire un migliore e piú proporzionato temperamento. Era cardinale di nobil presenza, e nel labro di sotto che gli usciva molto rilevato all’austriaca rappresentava in particolare l’ava materna sua Margherita. Giudicavasi che egli amasse troppo la retiratezza alle volte. E benché si mostrasse molto piú communicabile che non era il fratello duca Ranuccio, nondimeno appariva sí cupo ancor’egli ne’ sensi che perciò faceva pur’anco dubitare alle volte se egli gli avesse piú simili o dissimili a quei del fratello. Nel rimanente gran cardinale, come egli poi si mostrò in tutto il corso di sua vita, degno d’aver avuto per suo gran bisavo il pontefice Paolo terzo, degno nepote del grand’Alessandro cardinale suo zio, e degno figliuolo del grande e famoso guerriero Alessandro suo padre.
Fra cardinali di tanto strepito riteneva luogo molto onorevole ancora il cardinale Antonio Facchinetti, ch’era stato nepote di papa Innocenzio nono. Quel pontificato di due soli mesi aveva permesso a gran pena al zio di promovere al cardinalato questo nipote non che di potere accompagnare con altre splendidezze in lui questa dignitá. Era egli rimasto molto giovine dopo la morte del zio, e con tutto ciò mostrandosi maturo di prudenza sopra l’etá, grave di costumi sopra la gioventú, pieno di bontá di modestia e tutto inclinato alle lettere ed alla pietá, si era conciliato sopra modo gli animi di tutta la corte. E veramente tutta lo compativa, e insieme giudicava che egli per servizio della Chiesa anco molto piú che della propria sua casa, la quale è delle "piú nobili di Bologna, avrebbe voluto il dovere che godesse un po’ piú lungo pontificato, e piú lungamente avere occasione di farsi conoscere capace di quelle preeminenze che gli sarebbono toccate nel maneggiarlo. Ma in somma vedesi quanto di raro la fortuna s’unisce con la virtú. Perciò egli pochi anni dopo cadé gravemente infermo, e nel fiore della sua etá venne a morte, lasciando una ferma opinione di sé appresso di ognuno, che se egli avesse goduto il solito corso dell’altre vite non sarebbe riuscito inferiore di merito al zio come non gli sarebbe stato inferiore di virtú.
E tanto basti intorno al collegio vecchio.