Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo IV
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Capitolo IV.
Come io fussi fatto cameriere segreto dal papa; e come facessi ritorno a Padova per finire gli studi, e me n’andassi poi alla corte di Roma.
Prima che venisse a Ferrara il pontefice, aveva egli fatte varie dimostrazioni d’onore verso alcuni soggetti ferraresi di famiglie nobili, che innanzi al devolvere quello stato alla sede apostolica si erano (aspettando l’esito) introdotti nella professione ecclesiastica. Questi furono i conti Bonifazio Bevilacqua Francesco Sacrati Ottavio Tassoni e Alfonso Gilioli. Il Bevilacqua e Sacrati furono posti nelle due signature di grazia e di giustizia, e fatto l’uno governatore di Camerino e l’altro di Fano; e agli altri due il papa diede luogo nel servizio de’ suoi camerieri segreti. A me similmente si compiacque di fare il medesimo onore prima di partire da Ferrara, e insieme concedermi che prima che l’andassi a servire nella corte di Roma, io andassi a finire i miei studi a Padova; ma per alcune occorrenze mie domestiche io fui costretto a fermarmi tutto quell’anno 1599 in Ferrara. Al governo di quella legazione in luogo del cardinale Aldobrandino era rimasto con titolo di collegato il cardinale San Clemente di casa San Giorgio, famiglie delle piú antiche e piú nobili del Monferrato e di tutti quei paesi lá intorno. Cardinale veramente di gran valore, d’alta e nobile corporatura, liberale cortese magnanimo, e che aveva in tutte le sue azioni altretanto del cavaliere quanto avesse dell’ecclesiastico. Quivi io mi trovava quasi continuamente a servirlo, e ne ricevei molti fruttuosi ricordi per avermi a ben governare nella corte di Roma. E piú volte egli fece piú d’un presagio intorno agli avanzamenti che avrei potuto sperare di ricevere in essa. Sbrigato dunque che io fui da Ferrara, tornai nel principio di primavera a Padova. Io aveva ritenuto appresso di me sempre il medesimo dottor Salice, che ho giá detto di sopra al principio, e la sua compagnia mi avea fatto parere che stando in Ferrara io stessi tuttavia in Padova, e che fra lo strepito della corte io godessi pur tuttavia la quiete scolastica di prima. Onde mi fu molto facile d’accingermi a poter ben tosto ricevere il dottorato, e ciò seguí tre mesi dopo che io ero tornato a Padova. Io mi addottorai in qualitá di scolare nobilista e di gentiluomo veneto. Questo carattere della nobiltá veneta era giá in altri tempi stato conferito dalla republica in segno d’onore e di stima nel solo ramo della mia casa, e porta con sé una prerogativa particolare, che non s’argomenta contro quei che la godono quando occorre che s’addottorino.
In questa azione terminò il corso della mia vita di Padova, e allora solamente posso dire di averla sempre goduta con sommo gusto, framezzando gli studi con le recreazioni, anzi unendo quelli con queste perché in tal modo quelli riuscissero piú fruttuosi. Le persone con le quali io conversava ordinariamente o trattavano le medesime lettere o avevano acquistato gran nome in esse. Né potrei dire quanto mi dolse d’aver a lasciare tali amici, e due specialmente fra gli altri: l’uno di grave etá e l’altro nel primo fiore, che aveva solamente un anno piú di me. Quegli era Antonio Quarengo gentiluomo padovano, il quale era stato lungo tempo nella corte di Roma e nelle segretarie del cardinale Flavio Orsino, del cardinale d’Aragona e poi del sacro collegio. Aveva acquistata grandissima riputazione in materia di lettore. Tornato poi da Roma a Padova con un canonicato di quella chiesa catedrale, che è delle piú insigni d’Italia, si tratteneva egli nel godimento de’ suoi studi e di se medesimo. Era uomo di singoiar dottrina ed erudizione in tutte le sorti di lettere, greche latine e toscane, in verso e in prosa; e condiva gli studi con una delle piú soavi e piú dolci conversazioni che si potessero godere. Fra gli altri studi egli era versato grandemente in quello dell’istorie, e perciò il duca di Parma Ranuccio Farnese l’aveva eletto a comporre quella di Fiandra, per avere una penna celebre che scrivesse le memorabili azioni di Alessandro suo padre in quelle provincie. Il che poi non seguí per varie difficultá, né fu la minore quella di lui medesimo per divertirsi troppo dalla fatica: e questo era il difetto che prima ancora gli si attribuiva, e per cagione del quale si giudicava ch’egli non avesse conseguito nella corte di Roma impieghi ed avanzamenti maggiori. Dalla sua conversazione io riportai frutto grandissimo, che poi ha giovato sommamente a produrre i miei parti istorici, e senza dubio egli era un gran litterato; ma benché fusse mio stretto e cordiale amico io non posso tralasciare però di soggiungere che per commun giudizio si desiderava che le sue composizioni uscite poi alla stampa fussero altretanto spiritose quanto sono gravi, giudicandosi che in esse a gran pezzo non corrispondeva l’ornamento alla gravitá, né la vivezza de’ sensi all’eleganza delle parole. Nella meditazione della sua farnesiana istoria egli professava di voler seguitar l’idea liviana molto piú che la tacitesca; ma stimavasi che in quella ancora averebbe potuto egli imitare la parte grave molto piú che la spiritosa; e similmente la sua istoria sarebbe riuscita o sterile di concioni nel farle nascere o povera di concetti nel farle poi comparire.
L’altro, mio posso dire coetaneo, era l’abbate Federico Cornaro oggidí cardinale e nipote del cardinale Francesco vescovo di Trevigi da me nominato di sopra, il quale era morto poco prima che il papa venisse a Ferrara. Aveva il cardinale Aldobrandino mostrato sempre un affetto grande verso di lui, e perciò desiderava di far succedere quanto prima nell’istessa dignitá il nipote al zio. È la casa Cornara come ognuno sa delle piú antiche piú illustri e piú stimate che abbia la republica di Venezia. In quella casa hanno fiorito sempre uomini segnalati in tutte le professioni militari e civili di chiesa e di stato; ma nelle dignitá ecclesiastiche specialmente quella casa è stata si può dire un seminario di cardinali e di vescovi, numerandosi da un tempo in qua con serie d’anni poco disgiunti sei cardinali e diversi vescovi delle prime cittá che abbia lo stato veneto. Con l’accennata intenzione dunque fece venire il papa a Ferrara Federico, al quale Giovanni suo padre per fargli aver, subito che entrasse nella corte di Roma, qualche nobile impiego, diede commoditá ivi allora di comprare un chiericato di camera; ma perché egli doveva finir prima i suoi studi, perciò il papa si contentò tornasse a Padova come aveva conceduto a me ancora, e che preso il grado del dottorato egli potesse andar poi a Roma. L’abitazione dove io dimorava in Padova era tanto vicina alla sua che non vi correva se non una strada di mezzo. Era casa paterna quella dove egli abitava, ed allora a punto trovavasi nell’offízio di podestá, ch’è il primo di quel governo, il sopradetto Giovanni suo padre, soggetto insigne oltre alla chiarezza del sangue per le sue proprie singolari virtú di religione prudenza e bontá, e che portato dal merito fu eletto pochi anni dopo uno de’ procuratori come si chiamano di San Marco, dignitá solamente inferiore a quella di doge, e che poi conseguí ancora e godè alcuni anni con somma riputazione questa suprema. Con l’abbate Cornaro dunque per la conformitá degli anni e degli studi, per l’occasione della vicinanza, e sopra ogni altra cosa per l’allettamento delle proprie amabili e degne sue qualitá, io praticava quasi ogni giorno. Godevamo in buona compagnia le ville che possiede la sua casa in quei paesi lá intorno, che sono bellissime, e godemmo una volta fra l’altre la sua badia di Vidone nel trivignano con trattenimento d’una soavissima libertá e conversazione. Oltre al Quarengo e a diversi altri, vi si trovò allora l’abbate Agostino Gradenigo nobile veneto, canonico di Padova ancor’egli d’una fameglia molto antica e molto principale in Venezia. Questi pur similmente era de’ nostri piú cari e piú domestici amici, di soave e sopra modo pieghevole natura, di perspicace e vivido ingegno, e che venuto poi alla corte di Roma e postosi in prelatura fu di lí a qualche anno fatto vescovo di Feltre, e dopo a qualche altro pervenne al patriarcato d’Aquileia. Di questi tre amici in particolare ho fatto qui la presente menzione per farla insieme di quei tempi scolareschi da me passati con sodisfazione cosí grande in Padova. Tempi dalle cui memorie io non potrei dire quanto mi senta ricrear tutte le volte che di nuovo inanzi agli occhi mi si portano quegli oggetti. O dolce libertá di quegli anni! o candidi e puri gusti d’allora! o gioconde e soavi memorie di quella stanza, dove non si udiva lo strepito né si provava la finzione della corte, dove non avevano luogo né il riso falso né l’amor finto né l’odio vero né l’invidia maligna né l’ambizione inquieta né il tradimento insidioso né l’adulazione sfacciata né il favore arrogante né quel vano splendore, o piú tosto dannabile lusso, dal quale insieme con tante altre miserie (nel piú commun senso del volgo riputate felicitá) viene resa in tutte le corti sí amara la vita ordinariamente!
Ma per tornare a me stesso, partii da Padova al principio di luglio, e dopo aver preparato le cose necessarie per la stanza di Roma, verso il fine di novembre m’incaminai a quella volta per la via di Toscana. In Firenze fui a riverire il granduca Ferdinando, che prima era stato cardinale e che lungo tempo in ogni piú splendida e stimata forma aveva sostenuto quel grado nella corte di Roma. Ricevei molto benigna accoglienza da lui, e come egli aveva tanta pratica di quella corte e che volontieri ne discorreva in ogni occasione, perciò si compiacque di ragionarne con me a lungo e di favorirmi eziandio con molti suoi umanissimi avvertimenti. Era prencipe d’ogni sapere, e in grandissima riputazione cosí fuora come dentro dell’Italia. Mostravasi emolo del gran Lorenzo particolarmente in procurar con tutti li mezzi possibili ancor egli l’amore e la concordia fra i prencipi italiani; e che in servizio pure dell’Italia potesse restar libera dalle turbolenze intestine la Francia, perché non mancasse qualche contrapeso alla formidabile potenza di Spagna.
Motivi tutti che gli fecero abbracciare tanto piú volontieri e il primo matrimonio con madama Cristina di Lorena giá seguito qualche anno prima con lui medesimo, ed il secondo della principessa Maria sua nipote che poco dopo si vide effettuato col re di Francia. Era prencipe di grave aspetto, amatore della caccia ma però molto piú del negozio, che lo faceva star tutto fisso in operare tutto quello che poteva essere piú necessario per istabilire sempre meglio nella sua casa quel nuovo stato, nel quale usava un temperamento tale di governo ch’egli aveva saputo farvisi amare molto piú che temere. Nel suo discorso intorno alle cose di Roma egli mi esortò specialmente a frequentare la Vallicella, che allora cosí veniva chiamata la chiesa nuova, del cui virtuoso e tranquillo instituto san Filippo Neri fu il principale fondatore. Dissemi che papa Clemente nella sua inferior qualitá di prelato e di cardinale era stato molto famigliare di san Filippo; che egli aveva frequentata del continuo la chiesa e la casa di quei buoni padri, che per quella via fra l’altre aveva procurato d’acquistar buona fama e farla spargere per la corte; che poi giunto al pontificato nella prima sua numerosa promozione di cardinali aveva esaltati a quel grado Tarugi e Baronio, ambedue padri dell’oratorio di san Filippo e amici particolari di lui medesimo; che Baronio era suo confessore e Tarugi pur suo confidente; che egli tuttavia riteneva una grande affezione verso quella chiesa e quella congregazione, e che formava buon concetto di quelli che piú frequentavano e praticavano l’una e l’altra. Concluse poi il suo ragionamento con l’esortarmi a caminare per la via della virtú e del merito, e mi disse un concetto veramente aureo e degno del suo gran giudizio e della sua grande esperienza nelle cose di quella corte: e fu che Roma al fine rare volte si mostra matregna delle virtú, benché talora anco si mostrasse madre tanto parziale della fortuna.
Speditomi da Firenze rientrai nel viaggio, e in pochi altri giorni felicemente poi giunsi a Roma.