Mastro-don Gesualdo/Parte seconda/Cap III
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III.
Da gran tempo, ogni giorno, alla stessa ora, donna Giuseppina Alòsi che stava al balcone facendo la calza per aspettare la passata di Peperito, don Filippo Margarone mentre rivoltava la conserva di pomidoro posta ad asciugare sul terrazzo, l’arciprete Bugno nell’appendere al fresco la gabbia del canerino, fin coloro che stavano a sbadigliare nella farmacia di Bomma, se volgevano gli occhi in su, verso il Castello, al di sopra de’ tetti, solevano vedere don Diego e don Ferdinando Trao, uno dopo l’altro, che facevano capolino a una finestra, guardinghi, volgevano poi un’occhiata a destra, un’altra a sinistra, guardavano in aria, e ritiravano il capo come la lumaca. Dopo qualche minuto infine aprivasi il balcone grande, stridendo, tentennando, a spinte e a riprese, e compariva don Diego, curvo, macilento, col berretto di cotone calcato sino alle orecchie, tossendo, sputando, tenendosi all’inferriata con una mano; e dietro di lui don Ferdinando che portava l’annaffiatoio, giallo, allampanato, un vero fantasma. Don Diego annaffiava, nettava, rimondava i fiori di Bianca; si chinava a raccattare i seccumi e le foglie vizze; rimescolava la terra con un coccio; passava in rivista i bocciuoli nuovi, e li covava cogli occhi. Don Ferdinando lo seguiva passo passo, attentissimo; accostava anche lui il viso scialbo a ciascuna pianta, aguzzando il muso, aggrottando le sopracciglia. Poscia appoggiavano i gomiti alla ringhiera, e rimanevano come due galline appollaiate sul medesimo bastone, voltando il capo ora di qua e ora di là, a seconda che giungeva la mula di massaro Fortunato Burgio carica di grano, o saliva dal Rosario la ragazza che vendeva ova, oppure la moglie del sagrestano attraversava la piazzetta per andare a suonare l’avemaria. Don Ferdinando stava intento a contare quante persone si vedevano passare attraverso quel pezzetto di strada che intravvedevasi laggiù, fra i tetti delle case che scendevano a frotte per la china del poggio; don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi gli ultimi raggi di sole che salivano lentamente verso le alture del Paradiso e di Monte Lauro, e rallegravasi al vederlo scintillare improvvisamente sulle finestre delle casipole che si perdevano già fra i campi, simili a macchie biancastre. Allora sorrideva e appuntava il dito scarno e tremante, spingendo col gomito il fratello, il quale accennava di sì col capo e sorrideva lui pure come un fanciullo. Poi raccontava quello che aveva visto lui: - Oggi ventisette!... ne sono passati ventisette.... L’arciprete Bugno era insieme col cugino Limòli!...
Per un po’ di giorni, verso i primi d’agosto, era venuto soltanto don Ferdinando ad annaffiare i fiori, strascinandosi a stento, coi capelli grigi svolazzanti, sbrodolandosi tutto a ogni passo. Allorchè ricomparve anche don Diego, parve di vedere Lazzaro risuscitato: tutto naso, colle occhiaie nere, seppellito vivo in una vecchia palandrana, tossendo l’anima a ogni passo: una tosse fioca che non si udiva quasi più, e scuoteva dalla testa ai piedi lui e il fratello che gli dava il braccio, come andasse facendo la riverenza a ogni vaso di fiori. E fu l’ultima volta. D’allora in poi s’erano visti raramente insieme le teste canute dei due fratelli, dietro i vetri rattoppati colla carta, cercando il sole, don Diego sputando e guardando in terra ogni momento. Il giorno in cui avvenne quel parapiglia nel Palazzo di Città, che le voci si udivano sin nella piazzetta di Sant’Agata, apparve per un istante alla finestra la cima di un berretto bianco tremolante. Ma allorquando la processione di San Giuseppe si fermò dinanzi al portone del Trao, per l’omaggio tradizionale alla famiglia, le finestre rimasero chiuse, malgrado il vocìo della folla. Don Ferdinando scese per comprare l’immagine del santo, gonfio d’asma, cogli occhi arsi di sonno, piegato in due le mani nerastre tremanti così che non trovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l’immagine. Il procuratore di San Giuseppe, che dirigeva la processione, gli disse:
— Vedrete quant’è miracolosa quell’immagine! Tanta salute e provvidenza a tutti, in casa vostra!
E gli affidò anche il bastone d’argento del santo, da metterlo al capezzale del malato: un tocca e sana. Eppure non giovò neanche quello.
Compare Cosimo e Pelagatti, partendo per la campagna due ore prima dell’alba, o tornando a notte fatta, vedevano sempre il lume alla finestra di don Diego. E il cane nero dei Motta uggiolava per la piazza, come un lamento. Poi, verso nona, bussava al portone il ragazzo di don Luca, portando un bicchiere di latte. Di tanto in tanto veniva don Giuseppe Barabba, con un piatto coperto dal tovagliuolo, o il servitore del Fiscale che recava un fiasco di vino. A poco a poco diradarono anche quelle visite. L’ultima volta il dottor Tavuso se n’era andato scrollando le spalle. I ragazzi del vicinato giuocavano tutto il giorno dietro quel portone che non si apriva più. Una sera, tardi, i vicini, che stavano cenando, udirono la voce chioccia di don Ferdinando chiamare il sagrestano, lì dirimpetto: una voce da far cascare il pan di bocca. E subito dopo un gran colpo al portone sconquassato, e dei passi che si allontanarono frettolosi.
Fu giusto quella notte che arrivava la Compagnia d’Arme. Una baraonda per tutto il paese. Al rumore insolito anche Don Diego aprì un istante gli occhi. Burgio che era sul ballatoio di casa sua, coll’orecchio teso verso la Piazza Grande, dove udivasi quel parapiglia, vedendo gente nel balcone dei Trao, domandò inquieto:
— Che c’è?... Cosa succede?
— Don Diego!... — rispose il sagrestano; e fece il segno della croce, quasi massaro Fortunato avesse potuto vederlo al buio. — Solo come un cane!... me lo lasciano sulle spalle!... Ho mandato Grazia pel dottore... a quest’ora!...
— Sentite, laggiù, verso la piazza?... sentite?... Che giornata spunterà domattina, Dio liberi!...
— Basta avere la coscienza netta, massaro Fortunato. Sono stato sempre un povero diavolo!... Bacio la mano di chi mi dà pane...
— Il dottore!... quello sì!... deve avere la tremarella addosso a quest’ora!... E anche il canonico Lupi, dicono!... Buona sera!... I muri hanno orecchie al buio!
Infatti il dottor Tavuso, ch’era il capo di tutti i giacobini del paese, e stava nascosto nella legnaia, tremando come una foglia, vide giunta l’ultima sua ora all’udir bussare all’uscio con tanta furia.
— Li sbirri!... la Compagnia d’Arme!...
Quando gli dissero che era la moglie del sagrestano, invece, la quale veniva a cercarlo per don Diego moribondo, montò in furia come una bestia.
— È ancora vivo?... Mandatelo al diavolo!... Vengono a spaventarmi!... a quest’ora!... di questi tempi!... Un padre di famiglia!... Andate a chiamare i suoi parenti piuttosto... o il viatico, ch’è meglio!...
La zia Sganci non volle neppure aprire. Barabba rispose dietro il portone, chiuso con tanto di catenaccio:
— Buona donna, questi non son tempi di correre di notte per le strade. Domattina, se Dio vuole, chi campa si rivede.
Per fortuna, Grazia non aveva di che temere; e suo marito l’avrebbe mandata senza sospetto in mezzo a un reggimento di soldati. L’andare attorno così tardi, in quella tal notte, era proprio uno sgomento. Lo stesso baronello Rubiera, che era uscito di buon’ora dalla casa dei Margarone, s’era fatto accompagnare col lampione.
— Ninì! Ninì! — strillò dal balcone donna Fifì con la vocina sottile, quasi il suo fidanzato corresse a buttarsi in un precipizio.
— Non temere... no! — rispose lui con la voce grossa.
All’udir gente nella piazzetta, dal portone dei Trao, che rimbombò come una cannonata, uscì correndo don Luca:
— Signor barone!... sta per morire vostro cugino don Diego!... solo come un cane!... Non c’è nessuno in casa!...
Rimpetto al palazzo nero e triste dei Trao splendeva il balcone lucente dei Margarone, e in quella luce disegnavasi l’ombra di donna Fifì, rammentandogli un’altra ombra che soleva aspettarlo altra volta alla finestra del palazzo smantellato. Don Ninì se ne andò frettoloso, a capo chino, portandosi seco negli occhi i ricordi di quella finestra chiusa e senza lume.
— Bella porcheria!... Me lo lasciano sulle spalle!... a me solo! — brontolò don Luca tornando nella camera del moribondo.
Don Ferdinando stava seduto a piè del letto, senza dir nulla, simile a una mummia. Di tanto in tanto andava a guardare in viso suo fratello; guardava poi don Luca, stralunato, e tornava a chinare il capo sul petto. Alla sfuriata del sagrestano però si rizzò all’improvviso, quasi gli avessero dato uno scossone, e domandò piano, con la voce assonnata di uno che parli in sogno:
— Dorme?
— Sì, dorme!... Andate a dormire voi pure, se volete!...
Ma l’altro non si mosse. Il malato da prima voleva sapere ogni momento che ora fosse; poi, verso mezzanotte, non domandò più nulla. Stava cheto, col naso contro il muro, e la coperta sino alle orecchie. Grazia, di ritorno, aveva accostato l’uscio, messo il lume accanto, sul tavolino, ed era andata a dare un’occhiata a casa sua. Il marito si accomodò alla meglio su due sedie. Don Ferdinando, di tratto in tratto, si alzava di nuovo, in punta di piedi, si chinava sul letto, simile a un uccello di malaugurio, e tornava a domandare piano, all’orecchio di don Luca:
— Che fa? dorme?
— Sì! sì!... Andate a dormire voi pure!... andate!
E l’accompagnò lui stesso in camera sua, per liberarsi almeno da quella noia. Don Ferdinando sognava che il cane nero dei vicini Motta gli si era accovacciato sul petto, e non voleva andarsene, per quanto egli cercasse di svincolarsi e di gridare. La coda del cane, lunga, lunga che non finiva più, gli si era attorcigliata al collo e alle braccia, al pari di un serpente, e lo stringeva, soffocandolo, gli strozzava la voce in gola, quando udì un’altra voce che lo fece balzare dal letto, con una gran palpitazione di cuore.
— Alzatevi, don Ferdinando! Questa non è ora di dormire!...
Don Diego pareva che russasse forte, si udiva dall’altra stanza; supino, cogli occhi aperti e spenti, le narici filigginose: un viso che non si riconosceva più. Come don Ferdinando lo chiamò prima pian piano, e tornò a chiamarlo e a scuoterlo inutilmente, gli si rizzarono quei pochi capelli in capo, e si rivolse al sagrestano, smarrito, supplichevole:
— Che fa ora?... che fa?...
— Che fa?... Lo vedete che fa!... Grazia! Grazia!
— No!... Fermatevi!... Non aprite adesso!...
Era giorno chiaro. Donna Bellonia in sottana stava a spiare dalla terrazza verso la Piazza Grande per incarico del marito, spaventata dal tramestìo che s’era udito tutta la notte nel paese; e Burgio strigliava la mula legata al portone dei Trao. Alle grida di don Luca, levò il capo verso il balcone, e domandò cosa c’era con un cenno del capo. Il sagrestano rispose anche lui con un gesto della mano, facendo segno di uno che se ne va.
— Chi? — domandò la Margarone che se ne accorse. — Chi? don Diego o don Ferdinando?
— Sissignora, don Diego! Lo lasciano sulle spalle a me solo!... Corro dal dottore... almeno per la ricetta del viatico, che diavolo!... Signori miei! deve andarsene così un cristiano, senza medico nè speziale?...
Speranza cominciò dallo sgridare suo marito che aveva legata la mula alla casa del moribondo: — Porta disgrazia! Ci vorrebbe quest’altra!... - Poi si diedero a strologare i numeri del lotto insieme a donna Bellonia, ch’era corsa a prendere il libro di Rutilio Benincasa. Donna Giovannina s’affacciò asciugandosi il viso; ma non si vide altro che il sagrestano il quale correva a chiamare Tavuso, lì a due passi, una porticina verde, colla fune del campanello legata alta perchè non andassero a seccarlo di notte. Picchia e ripicchia infine la serva di Tavuso gli soffiò attraverso il buco della serratura:
- O chetatevi che il dottore non esce di casa, se casca il mondo! E’ più malato degli altri, lui!
Bomma, giallo al par del zafferano, stava pestando cremor di tartaro in fondo alla farmacia, solo come un appestato. Don Luca entrò a precipizio, col fiato ai denti:
- Signor don Arcangelo!... don Diego Trao è in punto di morte. Il dottore non vuol venire... Cosa fo?
- Cosa fate?... La cassa da morto fategli, accidenti a voi! M’avete spaventato! Non è questa la maniera... oggi che ogni galantuomo sta coll'anima sulle labbra!... Andate a chiamargli il prete piuttosto... lì, al Collegio, c’è il canonico Lupi che s’arrabatta a dir messe e mattutino fin dall’alba, per farsi vedere in chiesa!... Cade sempre in piedi colui! Se ne ride degli sbirri!... Io fo lo speziale! Pesto cremor di tartaro, giacchè non posso pestar altro... non posso!
Ma, vedendo passare Ciolla ammanettato come un ladro, si morse la lingua, e chinò il capo sul mortaio. — Signori miei! — sbraitava Ciolla, — guardate un po’!... un galantuomo che se ne sta in piazza pei fatti suoi!... — I Compagni d’Arme, senza dargli retta, lo cacciavano innanzi a spintoni; don Liccio Papa di scorta colla sciabola sguainata, gridando: — Largo! largo alla giustizia!... — Il Capitano Giustiziere, dall’alto del marciapiede del Caffè dei Nobili, sentenziò:
— Bisogna dare un esempio! Ci pigliavano a calci dove sapete, un altro po’!... manica di birbanti!... Un paese come il nostro, che prima era un convento di frati!... Al castello! al castello! Don Liccio, eccovi le chiavi!...
Grazie a Dio si tornava a respirare. I ben pensanti sul tardi cominciarono a farsi vedere di nuovo per le strade; l’arciprete dinanzi al caffè; Peperito su e giù pel Rosario; Canali a braccetto con don Filippo verso la casa della ceraiuola; don Giuseppe Barabba portando a spasso un’altra volta il cagnolino di donna Marianna Sganci; la signora Capitana poi in gala, quasi fosse la sua festa, adesso che ci erano tanti militari, colla borsa ricamata al braccio, il cappellino carico di piume, scutrettolando, ridendo, cinguettando, rimorchiandosi dietro don Bastiano Stangafame, il tenente, tutti i colleghi di suo marito, il quale se ne stava a guardare da vero babbèo, colla canna d’India dietro la schiena, mentre i suoi colleghi passeggiavano con sua moglie, spaccandosi come compassi, ridendo a voce alta, guardando fieramente le donne che osavano mostrarsi alle finestre, facendo risuonare da per tutto il rumore delle sciabole e il tintinnìo degli speroni, quasi ci avessero le campanelle alle calcagna. Le ragazze Margarone, stipate sul terrazzo, si rodevano d’invidia. — Specie il tenente ci aveva dei baffoni come code di cavallo, e due file di bottoni lungo il ventre che luccicavano da lontano.
Talchè in quell’aria di festa suonò più malinconico il campanello del viatico. Correvano anche delle voci sinistre: — Una battaglia c’è stata!... dei condannati a morte!... — Uno di quelli che portavano il lanternone dietro il baldacchino disse che il viatico andava dai Trao. — Un’altra grande famiglia che si estingue! — osservò gravemente l’Avvocato Fiscale scoprendosi il capo. La signora Capitana, saltellando sulla punta delle scarpette per mostrare le calze di seta, stava rimbeccando don Bastiano con un sorriso da far dannare l’anima:
— Lo so! lo so! giuramenti da marinaio!...
Il Capitan d’Arme ammiccò a donna Bianca la quale passava in quel momento, con un’aria che voleva dire: — Anche costei!... che colpa ci ho? — scappellandosi con soverchio ossequio. Ma quella poveretta non gli rispose. Andava quasi correndo, trafelata, col manto giù per le spalle, il viso ansioso e pallido. Donna Fifì Margarone si tirò indietro dal balcone con una smorfia, appena la vide sboccare nella piazzetta dalla salita di Sant’Agata.
— Ah!... finalmente!... la buona sorella!... quanta degnazione!...
— Bianca! Bianca! — gridava lo zio Limòli che non poteva tenerle dietro.
Dinanzi al portone, spalancato a due battenti, si affollavano i ragazzi di Burgio e di don Luca. La moglie del sagrestano ne usciva in quel momento, arruffata, gialla, senza ventre, e si mise a distribuire scappellotti a diritta e a manca:
— Via! via di qua!... Che aspettate? la festa? — Poscia entrò in chiesa frettolosa. Delle comari stavano alle finestre, curiose. In cima alla scala don Giuseppe Barabba spolverava delle bandiere nere, bucate e rose dai topi, collo stemma dei Trao: una macchia rossa tutta intignata. Era corsa subito la zia Macrì colla figliuola, e il barone Mèndola che stava lì vicino; una va e vieni per la casa, un odor d’incenso e di moccolaia, una confusione. In fondo, attraverso un uscio socchiuso, scorgevasi l’estremità di un lettuccio basso, e un formicolìo di ceri accesi, funebri, nel giorno chiaro. Bianca non vide altro, in mezzo a tutti quei parenti che le si affollavano intorno, sbarrandole il passo: — No!... lasciatemi entrare!
Apparve un momento la faccia stralunata di don Ferdinando, come un fantasma; poi l’uscio si chiuse. Delle braccia amiche la sorreggevano, affettuosamente, e la zia Macrì ripeteva: — Aspetta!... aspetta!...
Tornò la moglie del sagrestano, ansante, portando dei candelieri sotto il grembiule. Suo marito, che si affacciò di nuovo all’uscio, venne a dire:
— C’è il viatico... l’estrema unzione.... Ma non sente...
— Voglio vederlo!... Lasciatemi andare!
— Bianca!... in questo momento!... Bianca!...
— Vuoi ammazzarlo?... Una commozione!... Se ti sente!... Non far così, via, Bianca!... Un bicchier d’acqua!... presto!...
Donna Agrippina corse in cucina. S’aprì l’uscio un’altra volta su di un luccichìo di processione. Il prete, il baldacchino, i lanternoni del viatico passarono come una visione. Il marchese, inchinandosi sino a terra, borbottò:
— Domine, salva me....
— Amen! — rispose il sagrestano. — Ho fatto quel che ho potuto... solo come un cane!... due volte dal medico!... di notte!... Anche dal farmacista!... dice che il conto è lungo.... e non ci ha l’erba di Lazzaro risuscitato, poi!...
— Perchè?... perchè non mi lasciate entrare?... Che ho fatto?... — Essa tremava così che i denti facevano tintinnare il bicchiere, quasi fuori di sè, fissando addosso alla gente gli occhi spaventati.
— Lasciatemi! lasciatemi entrare!
Lo zio marchese si affrettò a cavare il fazzoletto, per asciugarle tutta l’acqua che si era versata addosso. Il barone Mèndola e la zia Macrì stavano discorrendo nel vano del finestrone: — Una malattia lunga!... Tutti così quei Trao!... non c’è che fare!...
— Guarda! — esclamò il barone che stava da un po’ attento. — Hanno aperto un finestrino sul mio tetto... laggiù!... quel ladro di Canali!... Fortuna che me ne sia accorto! Lo citerò in giudizio!... una citazione nera come la pece!...
— Don Luca! don Luca! — si udì gridare. L’uscio si spalancò a un tratto, e comparve don Ferdinando, agitando le braccia in aria. Don Luca corse a precipizio. Successe un momento di confusione: delle strida, delle voci concitate, un correre all’impazzata, donna Agrippina che cercava l’aceto dei sette ladri, gli altri che stentavano a trattenere Bianca, la quale faceva come una pazza, con la schiuma alla bocca, gli occhi che mandavano lampi, e non si riconoscevano più.
— Perchè?... perchè non volete? Lasciatemi! lasciatemi!... lasciatemi entrare!...
- Sì! sì! - disse lo zio marchese. - E’ giusto che lo veda!... Lasciatela entrare.
Ella scorse un corpo lungo e stecchito nel lettuccio basso, un mento aguzzo, ispido di barba grigiastra, rivolto in su, e due occhi glauchi, spalancati.
- Diego!... Diego!... fratello mio!...
- Non fate a quel modo, donna Bianca! - disse piano don Luca. - Se ci sente ancora, il poveretto, figuratevi che spavento!...
Essa si arrestò tutta tremante, atterrita, colle mani nei capelli, guardandosi intorno trasognata. A un tratto fissò gli occhi asciutti ed arsi su don Ferdinando che annaspava stralunato, quasi volesse allontanarla dal letto.
- Nulla!... nulla m’avete fatto sapere!... Non son più nulla... un’estranea!... Fuori, dalla casa e dal cuore!... fuori!... da per tutto!
- Zitta!... - balbettò don Ferdinando mettendo il dito tremante sulla bocca. - Poi!... poi!... Adesso taci!... Tanta gente, vedi!...
- Bianca! Bianca!... - supplicavano gli altri abbracciandola, spingendola, tirandola per le vesti.
- Portatela via!... - gridò la zia Macrì dall’uscio. - Nello stato in cui è, la poveretta... succederà qualche altra tragedia!...
Frattanto giunse donna Sarina Cirmena, scalmanata, in un bagno di sudore.
— L’ho saputo or ora! — balbettò lasciandosi cadere sul seggiolone di cuoio in mezzo ai parenti riuniti nella gran sala. — Che volete? con quel parapiglia che c’è stato nel paese! Se non era pel viatico che vidi venire da queste parti...
Il marchese indicò l’uscio dell’altra stanza con un cenno del capo. La zia Cirmena, accasciata sul seggiolone, col fazzoletto agli occhi, piagnucolò:
— Io non ci reggo a queste scene!... Sono tutta sottosopra!... — E siccome continuava a interrogare cogli occhi or questo e or quello, donna Agrippina rispose sottovoce, compunta, facendo il segno della croce:
— Or ora!... cinque minuti fa!
Don Giuseppe venne recando in fascio le bandiere:
— Ecco!... Il falegname è avvertito.
Il barone Mèndola s’alzò per andare a sentire cosa volesse....
— Va bene, va bene, — disse Mèndola. — Or ora si pensa a tutto. Don Luca? ehi? don Luca?
Appena il sagrestano affacciò il capo all’uscio, si udirono delle strida che laceravano il cuore.
— Povera Bianca!... sentite?
— Fa come una pazza! — confermò don Luca — Si strappa i capelli!...
Il barone Mèndola lo interrogò dinanzi a tutti quanti:
— Avete pensato a ogni cosa, eh, don Luca?
— Sissignore. Il catafalco, le bandiere, tante messe quanti preti ci sono. Ma chi paga?
— Andate! andate! — interruppe vivamente la Cirmena, spingendo per le spalle il sagrestano verso la camera del morto, dove cresceva il trambusto.
— Mi dispiace! — osservò la zia Macrì alzandosi per vedere dov’era arrivato il sole. — Mi dispiace che si fa tardi, e a casa mia non c’è nessuno per preparare un boccone.
Uscì don Luca dalla camera del morto, turbato in viso.
— E’ un affar serio... Bisognerà portarla via per amore o per forza!... Vi dico ch’è un affar serio!
— E’ permesso? Si può?
Era il vocione del cacciatore che accompagnava la baronessa Mèndola, col cappello piumato, le calze imbottite di noci. La vecchia, senza bisogno di udir altro, diritta e stecchita come un fuso, andò a prendere il suo posto fra i parenti che al suo apparire s’erano taciuti, seduti intorno sui seggioloni antichi, col viso lungo e le mani sul ventre. La baronessa guardava intorno, gridando a voce alta:
— E la Rubiera? e la cugina Sganci? Ora che si fa? Bisogna avvertire il parentado per le esequie...
— Eccola lì! — disse donna Sarina all’orecchio della Macrì. — Cascasse il mondo... non manca mai!... Avete visto il subbuglio che c’è per le strade?
La cugina rispose con un sorriso pallido, facendo segno che la vecchia non aveva paura di nulla perchè era sorda.
— Il fatto è... — cominciò il barone.
Ma in quel momento portavano Bianca svenuta, le braccia penzoloni, donna Agrippina e il sagrestano rossi, ansanti, e col fiato ai denti. — Quasi fosse morta! — sbuffò il sagrestano.
— Gli pesano le ossa!... — La zia Macrì consigliò: — Lì, lì, nella sua camera!...
— Il fatto è... — riprese il barone Mèndola sottovoce, tirando in disparte il cugino Limòli e donna Sarina Cirmena, — il fatto è che bisogna concertarsi pel funerale. Adesso vedrete che spuntano fuori i parenti del cognato Motta... Faremo un bel vedere!... al fianco di Burgio e di mastro Nunzio Motta!... Ma il marito non si può lasciarlo fuori... È una disgrazia, non dico di no... ma bisogna sorbirsi mastro— don Gesualdo, eh?...
— Sicuro! sicuro! — rispose la zia Cirmena.
Essa voleva fare qualche altra obiezione. Ma il marchese Limòli disse il fatto suo:
— Lasciate correre, cugina cara!... Tanto!... il morto è morto, e non parla più.
— Allora!... — ribattè la Cirmena diventando rossa, — è una bella porcheria che mastro— don Gesualdo non si sia fatto neppur vedere!
Mèndola uscì sul pianerottolo per dire a Barabba di correre a casa Sganci.
— Ci vogliono denari, — disse piano tornando indietro. — Avete sentito il sagrestano? Le spese chi le fa?
La zia Macrì finse di non udire, discorrendo sottovoce colla Cirmena:
— Povera Bianca!... in quello stato! Quanti mesi sono? lo sapete?...
— Sette... devono esser sette... Insomma un affar serio!...
Il marchese Limòli, che discuteva insieme a Mèndola e a Barabba sui preparativi del funerale, conchiuse:
— Io inviterei l’Arciconfraternita dei Bianchi trattandosi di una persona di riguardo...
— Sicuro... Bisogna far le cose con decoro... senza risparmio!...
Ma ciascuno vogava al largo quando si parlava di anticipare un baiocco. Nella camera del morto durava intanto il contrasto fra la moglie del sagrestano, che voleva farne uscire don Ferdinando, e lui che si ostinava a rimanere: come un guaiolare di cagnuolo, e la voce aspra della zia Grazia, la quale strillava:
— Madonna santa! non capite proprio nulla?... Siete un ragazzo tale e quale! Il mio ragazzo avrebbe più giudizio di voi, guardate!
E tutt’a un tratto, in mezzo al crocchio dei parenti che discorrevano sottovoce, si vide capitare don Ferdinando strascicando le gambe, coi capelli arruffati, la camicia aperta, il viso di un cadavere anch’esso, recando uno scartafaccio che andava mostrando a tutti quanti:
— Ecco il privilegio!... Il diploma del Re Martino... Bisogna metterlo nell’iscrizione mortuaria... Bisogna far sapere che noi abbiamo diritto di esser seppelliti nelle tombe reali... una cum regibus! Ci avete pensato alle bandiere collo stemma? Ci avete pensato al funerale?
— Sì, sì, non dubitate...
Come ciascuno evitava di impegnarsi direttamente, voltandogli le spalle, don Ferdinando andava dall’uno all’altro biascicando, colle lagrime agli occhi:
— Una cum regibus!... Il mio povero fratello!... Una cum regibus!...
— Va bene, va bene, — gli rispose il marchese Limòli. — Non ci pensate.
Il barone Mèndola, che era stato a confabulare con della gente, fuori sul pianerottolo, rientrò gesticolando:
— Signori miei!... se sapeste!... Casco dalle nuvole!...
— Zitto! — gli fece segno il marchese, — zitto! Che cos’è adesso?...
Nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto; delle voci affannose e supplichevoli; un tramenìo come di gente in lotta; grida deliranti di dolore e di collera; poscia un urlo che fece trasalire tutti quanti. L’uscio fu sbatacchiato con impeto, e ne uscì all’improvviso il marchese, stravolto. Un momento dopo si affacciò la zia Macrì gridando:
— Un medico! Presto! presto!
Giungevano allora altri parenti in processione, compunti, coi guanti neri. In mezzo al rumore delle seggiole smosse, la zia Macrì tornò a gridare:
— Presto! un medico! presto!