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pellandosi con soverchio ossequio. Ma quella poveretta non gli rispose. Andava quasi correndo, trafelata, col manto giù per le spalle, il viso ansioso e pallido. Donna Fifì Margarone si tirò indietro dal balcone con una smorfia, appena la vide sboccare nella piazzetta dalla salita di Sant’Agata.
— Ah!... finalmente!... la buona sorella!... quanta degnazione!...
— Bianca! Bianca! — gridava lo zio Limòli che non poteva tenerle dietro.
Dinanzi al portone, spalancato a due battenti, si affollavano i ragazzi di Burgio e di don Luca. La moglie del sagrestano ne usciva in quel momento, arruffata, gialla, senza ventre, e si mise a distribuire scappellotti a diritta e a manca:
— Via! via di qua!... Che aspettate? la festa? — Poscia entrò in chiesa frettolosa. Delle comari stavano alle finestre, curiose. In cima alla scala don Giuseppe Barabba spolverava delle bandiere nere, bucate e rose dai topi, collo stemma dei Trao: una macchia rossa tutta intignata. Era corsa subito la zia Macrì colla figliuola, e il barone Mèndola che stava lì vicino; una va e vieni per la casa, un odor d’incenso e di moccolaia, una confusione. In fondo, attraverso un uscio socchiuso, scorgevasi l’estremità di un lettuccio basso, e un formicolìo di ceri accesi, funebri, nel giorno chiaro. Bianca non vide altro, in mezzo