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all’inferriata con una mano; e dietro di lui don Ferdinando che portava l’annaffiatoio, giallo, allampanato, un vero fantasma. Don Diego annaffiava, nettava, rimondava i fiori di Bianca; si chinava a raccattare i seccumi e le foglie vizze; rimescolava la terra con un coccio; passava in rivista i bocciuoli nuovi, e li covava cogli occhi. Don Ferdinando lo seguiva passo passo, attentissimo; accostava anche lui il viso scialbo a ciascuna pianta, aguzzando il muso, aggrottando le sopracciglia. Poscia appoggiavano i gomiti alla ringhiera, e rimanevano come due galline appollaiate sul medesimo bastone, voltando il capo ora di qua e ora di là, a seconda che giungeva la mula di massaro Fortunato Burgio carica di grano, o saliva dal Rosario la ragazza che vendeva ova, oppure la moglie del sagrestano attraversava la piazzetta per andare a suonare l’avemaria. Don Ferdinando stava intento a contare quante persone si vedevano passare attraverso quel pezzetto di strada che intravvedevasi laggiù, fra i tetti delle case che scendevano a frotte per la china del poggio; don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi gli ultimi raggi di sole che salivano lentamente verso le alture del Paradiso e di Monte Lauro, e rallegravasi al vederlo scintillare improvvisamente sulle finestre delle casipole che si perdevano già fra i campi, simili a macchie biancastre. Allora sorrideva e appuntava il dito scarno e tremante, spingendo col