Lydia/XVI
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XVI.
— Egli ha avuto dei gravi dispiaceri, — diceva Thèa parlando di suo cugino, alla sera, intanto che l’ombra entrava nel salotto.
— Gravi dispiaceri? — ripetè Lydia macchinalmente guardando nel buio, dove non c’era nulla, ma dove le sembrava di veder scintillare gli occhi di Keptsky.
— Ha lasciato il reggimento, — continuava Thèa, baloccandosi colle nappe della sua vestaglia, — mio marito è un po’ in collera con lui... che farci? Se si potesse conoscer tutto!
— Tu non parti così presto?
— No, vedi bene, lo devo abbandonare ora che ha bisogno di conforti?
Queste parole produssero in Lydia uno strano contrasto di gioia e di dispetto. Avrebbe voluto sapere di più; ma Théa non aggiungeva altro, muta e immobile, allungata sul divano, dove la sua vestaglia biancheggiava nel crepuscolo.
Il silenzio venne a mettersi fra le due amiche, il grave silenzio di quell’ora; e col silenzio, con l’oscurità, ognuna si sprofondò nei propri pensieri, isolandosi, dimenticando, volando colla fantasia nella dolce ebbrezza del sognare ad occhi aperti.
Davanti alla figura di Théa, lunga, supina, messa in rilievo dal candore dell’abito, Lydia scompariva, raggomitolata in una profonda poltrona, le braccia strette alla vita.
Nell’ampiezza del salotto, il respiro delle due donne non si avvertiva. Dalle finestre aperte entrava un odor di fiori, una frescura di rugiada cadente, un aliare di insetti cercanti il nido. E i pensieri turbinavano leggeri, audaci; venivano le larve, i fantasmi del passato; venivano i sogni, i desiderii del futuro; turbinavano, lievi nell’ombra, urtandosi, scostandosi, respinti dal divano alla poltrona, invisibili, eppure così sentiti che le membra trasalivano nel silenzio.
Da quella oscurità azzurra usciva, raggiante di luce propria, il volto di Keptsky.
Esse lo vedevano, nella sua calma di semidio, nella imponenza della sua altera bellezza; quella fronte elevata, luminosa; la linea della guancia di una purezza classica, il profilo nobile, il mento fermo e gentile, la bocca perfetta nell’immobilità, affascinante nel sorriso, e gli occhi colore di due cupi zaffiri. Per un fenomeno strano degli spiriti, non solo ognuna di esse sentiva la presenza di Keptsky, ma sentivano entrambe che l’altra pure la sentiva.
Dal fondo della poltrona, Lydia teneva gli occhi ostinatamente fissi sul divano, dove anche il bianco dell’abito a poco a poco scompariva nelle tenebre, e solo, punteggiato dal raggio di una stella, il ventaglio chinese della baronessa, a fiori rossi, si agitava lentamente, dolcemente, come sotto l’impulso di un languore voluttuoso.
Ma a furia di guardare, le palpebre di Lydia si abbassarono. Un torpore l’invadeva nel benessere di una posa comoda, colle gambe appoggiate fino al ginocchio sulla poltrona lunghissima, le spalle affondate nella imbottitura, tutte e due le braccia distese sui bracciuoli. Il corpo si addormentava, si dimenticava, e da questo sopore sfuggiva il cervello, libero, sempre più libero nella dolcezza delle tenebre.
Lydia sentiva veramente qualche cosa che si staccava da lei, volando, che le dava l’impressione vertiginosa del movimento nel riposo; la duplice, soave impressione di assistere con una parte riposante di sè stessa all’altra parte che si agita nel mondo dei sogni. Le sembrava di vivere due vite ben distinte, ben definite: la materia abbandonata a sè stessa, nell’oblio di un soffice guanciale, e la fantasia, seguendo l’istinto alato, ridiventata anima ideale, tuffarsi nell’infinito. Due sensazioni, due godimenti.
A poco a poco però, mentre il corpo le si appesantiva, torpido, e sembrava una massa inerte, anche le sensazioni si confondevano. Aveva la percezione di una morbidezza, senza poter distinguere se fosse nelle braccia, nelle spalle o al cuore; se fosse il contatto della poltrona o la memoria di una carezza. Si sentiva bene, ma era perché stava bene o perchè vedeva bello? E che cosa vedeva? E vedeva poi realmente? Era solamente sicura di sentire? O non sognava invece? Od era forse morta, e assisteva in ispirito alla trasformazione di sè stessa?
A un tratto l’oblio la invase tutta. L’ultima sua sensazione fu di essere divenuta leggera, qual piuma trasportata nell’aria, via via, come cullata da braccia amorose, nell’abisso dello spazio. La sensibilità de’ suoi nervi, restringendosi sempre verso il centro, s’era ridotta al solo battito del cuore; improvvisamente perdette anche questa percezione.
Passò un minuto o passò un’ora?
Si destò al suono di una musica che pareva un sospiro, pareva il mormorío della brezza corrente tra gli alberi del giardino. Musica, profumo, freschezza di rugiada, tutto ciò veniva a lei nella calma della notte, misto a lembi di sogno, a battiti d’ali invisibili, a un vanire dolce di fantasmi sotto il primo agitarsi dei nervi che tornavano alla vita.
Dal mondo delle larve, dov’ella usciva, le restava ancora negli occhi un barbaglio stanco, un fluttuare di veli, un succedersi di forme, di colori, di profili dissolventi, finchè ripresa a gradi la coscienza del proprio essere aperse gli occhi, nel buio, e ascoltò.
Quei suoni erano dolci, come preghiera mormorata sotto le vôlte di una chiesa, nella penombra dei vetri istoriati; ma erano anche teneri e ardenti come baci lungamente attesi, come baci d’amore scoccati da labbro a labbro. Erano note vellutate, larghe, limpide, tratte dai tasti con mano vigorosa, eppure soave, che faceva pensare a una passione repressa.
Lydia si sollevò a mezzo sulla poltrona magneticamente attratta verso quei suoni, collo spirito eccitato dalle recenti fantasticherie e con una disposizione alla mestizia simile a quella che si prova dopo una ubbriacatura.
Chiamò: Théa! Mosse alcuni passi, brancicando; il divano era vuoto.
Da una porticina in fondo che metteva all’altro salotto, un filo di luce rompeva le tenebre. Guardando quel lievissimo spiraglio Lydia comprese che anche la musica veniva di là, e vi si diresse, sempre a guisa di sonnambula, a guisa di chi, avendo fatto un lungo viaggio di mare, non riesce a star saldo alla terra.
Seduto al piano, di cui una sola candela era accesa, stava Keptsky. Lo si vedeva di profilo, colla testa leggermente piegata indietro, la parte superiore del volto immersa nell’oscurità; la bocca, davanti alla fiamma della candela, mostrava il sorriso fino, spirituale, a cui la freschezza vermiglia delle labbra dava appena una sfumatura di sensualità delicata.
Accanto a lui, dalla parte dove la candela era spenta, biancheggiava un mucchio di trine sul tappeto. Era la baronessa accovacciata sopra un cuscino, colla fronte contro la tastiera, nell’abbandono confidenziale e stanco di una grande estasi.
Lydia, si fermò sulla soglia, con uno scoramento nel cuore, una malinconia e una sensazione nuova, una avidità, un desiderio ignoto ma prepotente, che le metteva dell’acredine nel sangue, per cui si sentiva ferita, qui, là, in mille punti del corpo. Soffriva come non aveva mai sofferto da che era al mondo, aggrappata allo stipite di quell’uscio, sentendosi sola, sola, sola...
Intanto la testina bruna di Théa si era appoggiata tutta sugli avori del piano, mescendo agli accordi musicali un gemito lungo e straziante. Keptsky, colle dita leggiere, le premette alcune ciocche di capelli, ed ella sollevò il capo, gettandogli un’occhiata lunga. Egli prese dalle sue mani il ventaglio chinese, a fiori rossi, e glie lo spiegò sopra il volto, chinandosi lentamente, guardandola egli pure in fondo agli occhi.
In quel momento Lydia si sentì dare un tuffo nel sangue, le pupille le si velarono, le si piegarono le gambe, e così, senza sapere il perchè, perchè soffriva, perchè moriva, si lasciò sdrucciolare lungo lo stipite dell’uscio, fino a terra, mordendosi le mani per non gridare.· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Nella dolcezza del mattino, nella squisita infantile dolcezza del giorno che incomincia, Lydia dimenticava l’incubo della sera prima.
Passeggiando in giardino, in attesa dell’asciolvere, Keptsky l’accompagnava, gentile, attento, informandosi della sua salute, trovandola un po’ pallida.
Egli aveva un modo di parlare insinuante, una voce di cui era padrone, e che modulava con una abilità strana. Ascoltava meglio ancora che non parlasse, accompagnando il pensiero di chi parlava. Con Lydia, molto piccola di statura, egli stavasi un po’ chino, in attitudine rispettosa; da’ suoi occhi, cupamente azzurri, scendeva verso lei un raggio di benevolenza intelligente, quasi carezzevole; un dolce calore usciva dai suoi sguardi come dalle sue parole e da ogni minimo gesto. La natura che gli aveva prodigati tutti i doni, s’era alleata ancora le più grandi raffinatezze dell'educazione. Sulla sua maschia bellezza di slavo erano passate, quali sfumature fatte da un abile pittore a un ritratto un po’ duro, le abitudini del lusso, dell’eleganza, e una certa mondanità di buon genere piena di sapore e di grazia.
— È vero ch’ella ci vuol lasciare? — disse a un tratto, scostando premuroso un ramo d’acacia che minacciava il volto di Lydia.
— Ma... — fece Lydia, imbarazzata per la prima volta in vita sua, sentendo in quel punto che il ritorno le dispiaceva, — non conviene abusare dell’ospitalità.
Che frase sciocca, volgare! E lei, avvezza a dirigere le più brillanti conversazioni, non aveva trovato altro per rispondere a Keptsky!
Egli la guardò con un sorriso indulgente, mormorando:
— Quando l’ospitalità è amicizia schietta...
Non rispose. Avrebbe voluto dire troppe, troppe cose, e la quantità la incagliava nella scelta. Si sentiva trascinata a spiegare a quello sconosciuto tutte le sue teorie sulla vita, sugli affetti; le sembrava naturale e necessario di aprire il suo cuore a Keptsky, ma avrebbe voluto dirgli tutto, o meglio, che egli potesse comprenderla tutta senza spiegazioni. Che amico sarebbe Keptsky! Simpatico, intelligente, culto, spiritoso... Una puntura di invidia la morse, pensando che egli era cugino di Théa, e tornò a passarle davanti agli occhi la scena della sera prima, con un bisogno spasmodico di intimità, di confidenze ricambiate.
Keptsky parlava ora dell’Italia che percorreva per la prima volta e che lo entusiasmava; ma Lydia vedeva sempre un ventaglio chinese a fiori rossi, disteso sopra una testina bruna. Improvvisamente chiese:
— Ci starebbe, in Italia, per tutta la vita?
— Secondo...
Girando il capo, Lydia incontrò lo sguardo di lui, profondo, perduto dietro a una visione; e nello stesso tempo il suo cuore, come se avesse messo l’ali, prese a battere, seguendo quello sguardo, incontro alla visione ignota.
Per alcuni istanti non parlarono, continuando a camminare adagio sulla ghiaia del viale, all’ombra tenera e fresca delle acacie. Le sembrava, a Lydia, che non si sarebbe stancata mai, tanto i suoi piedini posavansi leggeri e l’aria tutto intorno la abbracciava mollemente, quasi portandola.
Se non fosse stata imminente l’ora dell’asciolvere, avrebbe incominciato a discorrere per davvero.
Intanto pensava alla infinita varietà di temperamenti, classificandoli a norma di alcune sue particolari osservazioni, per cui era venuta a distinguere cinque categorie ben distinte di persone: i caldi, i freddi, i tiepidi, i morbidi, i pungenti — qualità queste che si fondevano e confondevano spesso, non tanto però da privarla di un campionario scelto.
Don Leopoldo, per esempio, era, secondo lei, morbido e freddo: Théa morbida e calda; Calmi freddo e pungente. A quale categoria apparteneva Keptsky? Il dubbio non era possibile; egli aveva il migliore amalgama: era tiepido e morbido.
La campana dell’asciolvere diede il primo rintocco.
Lo sapevo — disse Lydia fra sè, senza affrettare il passo, fermandosi a cogliere un ramo di geranio.
Keptsky pure si fermò.
Lydia alzò il braccio, in una posa che le era famigliare per mettere in mostra la mano diafana, solcata di venine azzurre, colle unghie color di rosa curate e coltivate come un fiore.
— Vada, sa... non faccia complimenti.
Era sicura che egli non si sarebbe mosso. Infatti rispose, chinandosi sul ramoscello che ella aveva spiccato: — Adoro i gerani.
— Rossi? — fece Lydia, mostrando i dentini con un sorriso un po’ forzato.
— No. Meglio questi gerani color carne screziati di viola; mi danno l’idea dell’ardore unito al sentimento... l’unica poesia vera. Compiango coloro che non la intendono così.
La campana tornò a suonare.
— Hanno fame! — esclamò Lydia allegramente, mettendosi a correre; e correva solamente, per rispetto alle convenienze, ma aveva voglia di saltare, di cantare, di far mille pazzie.
Da pochi istanti le era venuta addosso una mattana, quasi una reazione di tutti i pensieri malinconici che l’avevano tormentata il giorno prima.
Uno specchio, nel salotto, l’arrestò. Come erano luminosi i suoi occhi!