Lo zuavo
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LO ZUAVO
Verso il tramonto d’un bel giorno di settembre del 1846, in un villaggio della Fiandra francese, in una piccola riunione di amici che attento prestavano l’orecchio, Francesco, giunto appena dalla città, vestito ancora della sua divisa, abbellito dalla stella del coraggio, incominciò così a ragionare al suo uditorio, di quella terra d’Africa, illustrata da tanti fatti d’armi.
Onde conservare alla narrazione tutta la sua naturalezza, lascierò parlare Francesco lo Zuavo:
«La coscrizione mi colpì nel 1839, sett’anni or sono. Sul bel principio dovetti fare trentatre tappe, da Bavay ad Aix in Provenza, poichè si è in questa città ch’io dovea raggiungere il mio battaglione allora in Algeria. Traversai la Francia dall’una all’altra estremità. Imparai facilmente l’esercizio delle armi, e tre mesi dopo sbarcai in Algeri. L’aspetto della metropoli dell’Algeria è veramente fatto per abbagliare un povero campagnuolo, abituato alla vista delle monotone pianure del nostro nebbioso paese. Questa città, dalle bianche case disposte a guisa d’anfiteatro sulle spiaggie del mare, è circondata da una lunga giogaia d’altissimi monti; poi, altri monti di colore azzurro più discosti, formano la cornice di questo quadro magnifico e sublime.
Andava superbo di appartenere alla gran nazione che, da nido di pirati, ne fece il centro d’una nuova Francia: tuttavia vi confesserò che alla rimembranza di quei cari luoghi, ove avea passati i miei verdi anni, e all’idea che la mia povera madre piangerebbe forse presso del suo focolare deserto e solitario, il mio cuore fremette; la mia immaginativa, traversando di volo e mari e monti e le ridenti pianure del mezzodì, se n’andò verso quel cantuccio nascosto sulla frontiera; mi rammentai dei tempi del mietere, del seminare, delle lunghe veglie presso del vasto camino della cascina, indi il canto degli operai e delle giornaliere.... Ritornai in me stesso, sentendo gl’inni cantati dai miei compagni, e ripetuti dai marinai.
In breve posi il piede su quella terra, ove son venute successivamente tante nazioni ad imporre le loro leggi, e gli usi loro, per sparir poscia innanzi alle nuove invasioni.
La Francia vi ha di già ravvivati i germi della civilizzazione, deposti dai Romani; ed il calore benefico del Cristianesimo vi svilupperà, lo speriamo, dei frutti di pace e di felicità.
Pochi giorni dopo m’accorsi che la pace non regnava ancora in questi paesi, poichè il mio battaglione, accampato all’Afroun, fu destinato alla spedizione di Medeah. Abd-el-Kader ne stringeva da ogni parte. Un colpo decisivo era indispensabile. La campagna dovea dunque essere imminente e seria. Noi facevamo parte della divisione d’Orleans. Ben presto ci trovammo in faccia del nemico, che occupava le alture vicine. Si nascondeva, ma noi andavamo sempre innanzi, quando, tutt’ad un tratto, orribili grida ci fanno avvertiti della sua presenza: ei, come un torrente, sboccava nella pianura sopra di noi. Dopo un primo sparo, gli Arabi fecero un volta-faccia e se ne ritornarono ai loro mammeloni vicini, e alle gole, donde erano usciti. Ma noi l’inseguimmo, ed a passo di carica e colla baionetta in canna, e impadronimmo del centro della posizione.
I giorni seguenti furono impiegati ai preparativi della premeditata occupazione di Medeah, poi ci disponemmo a varcar l’Atlante. Il colle di Mouzaja era stato fortificato da Abd-el-Kader, e l’emir l’occupava colla sua numerosa cavalleria ed infanteria.
Il 12 maggio, alle tre del mattino, si diede il segnale dell’attacco, e le colonne francesi si misero a correre pella montagna erta e scoscesa. Una nebbia foltissima inviluppava la montagna, e nascondeva ai nemici la nostra marcia ardita. Le trombe annunziarono che l’avanguardia avea investito un mammelone. Il generale ordinò al resto dell’armata di mettersi in movimento. Un momento dopo, il sole, dissipando le nuvole, versava a torrenti la sua luce nelle gole di Mouzaja. Lunghesso le creste si distinguevano gli abiti dei nemici, che, col dito sul grilletto e coll’occhio teso, s’apparecchiavano a gittare i Francesi nel burrone. Noi ci arrampicammo agli arbusti, che si trovavano su quel pendio, e giungemmo finalmente in faccia dei fortini. Quivi accolti da un fuoco vivo, fummo per un istante indecisi; ma alla voce del capo, i tamburini batterono la carica, le file si strinsero, ed al grido di: Viva la Francia! le tre colonne d’assalto arrivarono quasi simultaneamente, ed inalberarono lo stendardo nazionale sulla cima dell’Atlante. La nostra impresa fu così coronata d’un pieno successo, poichè il nemico, sconfitto, non potè contenderci l’ingresso di Medeah.
Questa città è un’antica fortezza fabbricata dai Romani. Il suo aspetto è tristo come quello di tutte le città d’Africa.
Dopo aver lasciato parte dell’armata in Medeah, il corpo di spedizione partì il 20 maggio. Nel mentre che la nostra cavalleria penetrava nei bosco degli Olivi; Abd-el-Kader fece vigorosamente assalire la retroguardia. Noi aspettammo il nemico a piè fermo; e, quando fu a tiro, l’attaccammo alla baionetta. Dopo una zuffa terribile, i cavalieri nemici si fermarono per attendere l’infanteria araba. Le truppe regolari tentarono di sorprenderci, la cavalleria d’Abd-el-Kader scese da cavallo e sostenne i fantaccini. A tutti questi nemici noi opponemmo per molte ore la nostra calma, e sopratutto degli spari ben diretti e sostenuti, ciò che permise alla nostra cavalleria ed alle vettovaglie di passar la gola.
Ottenni a quell’epoca il mio primo grado.
Il calore eccessivo non permettendo di continuare le operazioni della campagna, l’esercito entrò nei suoi accampamenti.
Dovetti entrare allo spedale d’Algeri. La febbre maligna, causata dalle fatiche di questa prima spedizione, mi ritenne per due mesi sul letto del dolore.
Sin qui la vita militare non m’avea neppur lasciato il tempo di pensare alle ultime raccomandazioni di mia madre. Il momento giunse, in cui, avendo riacquistato i miei sensi, dei pensieri tristi, ma consolanti, vennero a ravvivare in me la ricordanza della scena d’addio alla casa materna.
Gli ammalati, che mi stavano intorno, nutrivano sentimenti del tutto opposti ai miei; ed il loro esempio e le loro conversazioni m’affliggevano amaramente. Non ardiva comunicar loro i miei dubbi sulle conseguenze del loro stato spirituale, essendo io stesso, ahimè! non ancora abbastanza raffermato nella fede.
Dio mi mandò i soccorsi di cui avea bisogno. Ricevetti la visita d’un mio compagno. Giuseppe Marty, figlio d’un pastore protestante del dipartimento della Droma, che avea esercitato, prima d’entrare negli Zuavi, il faticoso mestiere di colportore evangelista. Dopo alcune consolanti parole, m’offerse in prestito un Nuovo Testamento da lui posseduto. Lo ringraziai; e, ricordandomi dell’ultimo presente di mia madre, lo pregai di lasciarmi il suo libro sino a tanto che avesse potuto portarmi quello, che si trovava nel mio sacco fin dal nostro arrivo in Africa. Vi consentì volontieri, e me lo rimise dopo avermi particolarmente raccomandato alcune pagine.
«Dopo la partenza di Marty, fui di nuovo assalito dalla febbre, e non potei sentire che il giorno dopo la potenza di questo prezioso invito del Signore: «Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati, ed io vi alleggerò» (Matt. xi, 28). Trassi nuove forze dalla mia lettura, non meno che dai due abboccamenti avuti con quest’amico, che Iddio m’avea mandato, ed in breve risanato, fui istato di riprendere il mio servizio.
«Il mio soggiorno all’ospedale servì dunque a guarire il mal fisico, ed a trarmi dal torpore morale. D’allora in poi, non tralasciai un sol giorno di leggere; v’assicuro che il libro mi fu di sommo giovamento, sopratutto in cento critiche circostanze della mia vita, come vi voglio raccontare.
«Quando la necessità del servizio ce lo permetteva, io e Marty uscivam d’Algeri, ed andavamo a passare le nostre ore di libertà in quei viottoli inestricabili, che attraversano le campagne in mille sensi, e che ne fanno un vero laberinto. Quivi, alla vista di questo ricco suolo coperto di vigne, di melaranci, di madreselva e di mille altri fiori, alzavamo i nostri sguardi verso il Creatore di tutte queste maraviglie, e talvolta la notte ci sorprendeva in mezzo ai campi circondati dai tronchi fantastici del fico d’India e dagl’immensi rami dell’aloe.
«Una sera che entravamo per la porta Bad-Azoun, alcuni sergenti dei cacciatori di Vincennes, che stavano sulla porta di una casa di pessima riputazione, si presentarono a noi, e c’invitarono ad entrarvi per rinfrescarci. Realmente ne avevamo bisogno, ma non potevamo accettare. — Oh! disse uno di essi un po’ ubbriaco; hanno ragione di dire che gli Zuavi sono dei chalcals (lupi dorati), che fuggono la società civilizzata. — Non rispondemmo a questa facezia, che ci richiamava alla memoria un soprannome dato dagli Arabi al corpo di cui facevamo parte, ed affrettammo il passo; ma questo non era ciò che volevano costoro. — Eh! dite, dite, turbanti verdi, volete o non volete trincare coi cacciatori neri? — Ed in questa ci vedemmo circondati da cinque o sei militari. Tacqui pensando che Marty, colla sua dolcezza e colla sua calma abituale, se la caverebbe meglio di me. — Camerati, disse loro, noi non abbiamo permissione; l’ora è vicina; dobbiamo entrare nel quartiere: vi prego di lasciarci continuare il nostro cammino. — Niente affatto, rispose il primo interlocutore, evidentemente ubbriaco: tu hai l’aria di volerci disprezzare; tu verrai con noi, o altrimenti... — Altrimenti che? — Eh! bene! noi ti ci trascineremo. — Da quando in qua sei uomini si prevarranno del numero loro per forzare dei soldati a mancare al loro dovere? Vogliate, ve ne scongiuro, lasciarci tranquilli. — Tu temi dunque di venire dalla Moresca? — Non voglio andare in un luogo, dove ho risoluto di non porvi mai piede. — La vedremo, dissero parecchi altri cacciatori, sfoderando le loro sciabole. Quelli erano affatto ubbriachi. Io stava per piombar loro addosso, quando Marty, afferrandomi pel braccio, mi disse: — Rimani dunque con me, non ti scaldare se vuoi che si abbia ragione. — Ragione? disse vivamente il primo autore di questo conflitto: sì, tu mi renderai ragione, e subito. Animo! mettiamoci in linea, o altrimenti dirò dappertutto che i chalcals sono divenuti altrettanti pulcini bagnati. — Certo, la nostra posizione era critica, ed era assai difficile di sbarazzarsi di questi uomini che il vino avea resi furiosi. Fortunatamente apparve un ufficiale superiore all’estremità della contrada della Casbah. Gli aggressori rientrarono precipitosamente dalla Moresca, meno il più ostinato, che pel primo ci avea interpellati.
«Potemmo così continuare il nostro interrotto cammino. Ma quando l’ufficiale disparve, il cacciatore, che ci avea seguitati senza profferire una parola, si piantò davanti al mio amico, e gli disse: — È molto tempo che ho promesso alla mia sciabola il piacere di assaggiare lo zuavo; se non sei un vile, verrai domani mattina col tuo camerata, ed io condurrò un cacciatore. — Bene. Mi chiamo Giuseppe Marty foriere degli Zuavi, e vi prego di condurci al quartiere. — A meraviglia. Luigi Cornault, pur foriere, ma fortunatamente non negli Zuavi: sarò da te alle sei, e vedremo se la tua mano saprà maneggiar un ferro come una penna d’oca, perchè tu devi servirti della penna d’un animale. — Vi prego di finirla con questi scherzi. A domani. — E qui, senza più badare ai sarcasmi di questo energumeno, affrettammo il passo.
«Questa scena m’avea vivamente agitato, e, senza più riflettere, mi prometteva un affare d’onore per il giorno seguente. Io e Marty dormivamo nella stessa camera, e quando, dopo aver risposto all’appello, ci trovammo soli, fui maravigliato dell’aria placida, colla quale il mio amico mi domandò se veramente io pensava di battermi. — Chi me lo impedirà? risposi; non sono io pure stato insultato? — Io, disse con dolcezza. — Pensi tu, risposi subito, che ti lascerò solo affrontare i pericoli, che non abbiamo cercati, e che tu hai voluto evitare per quanto ti è stato possibile? — Non mi batterò mai con un mio compatriota. In faccia del nemico la cosa cambia di aspetto. Qui non è il caso; posso evitare un delitto, e Dio mi darà, spero, la forza ed il coraggio necessario per adempiere al mio dovere. Solamente ti esorto di lasciarmi accomodar la cosa senza mischiartene.
«Non capiva in qual modo si adopererebbe per eseguire il suo disegno, tuttavia non dubitava che vi sarebbe facilmente pervenuto. Dopo alcuni istanti aperse il suo libro e vi lesse colla sua voce simpatica e sonora i versetti sottolineati nel mio, che voglio leggere, e forse per la centesima volta, perchè questa scena, per quanto diversa dalla prima, non si cancellerà mai dalla mia memoria: «Non sapete voi che siete il tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; perciocchè il tempio del Signore è santo, il qual siete voi» (1 Cor. iii, 16, 17). «La carità è lenta all’ira, è benigna; la carità non invidia, non procede perversamente, non si gonfia; sofferisce ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sostiene ogni cosa» (1 Cor. xiii, 4, 7). «E in somma, siate tutti concordi, compassionevoli, fratellevoli, pietosi, benevolienti; non rendendo mal per male, od oltraggio per oltraggio; anzi, in contrario, benedicendo; sapendo che a questo siete stati chiamati, acciocchè crediate la benedizione» (1 Pietro iii, 8, 9). «Non fate le vostre vendette, cari miei; anzi date luogo all’ira; perciocchè egli è scritto: A me la vendetta; io renderò la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perciocchè, facendo questo, tu raunerai de’ carboni accesi sopra il suo capo. Non esser vinto dal male; anzi vinci il male per il bene» (Rom. xii, 19-21).
«Poi Marty pose il suo libro sulla tavola, ed inginocchiandosi, domandò a Dio col massimo fervore di voler toccare il cuore a coloro, che, a nostro dispetto, erano divenuti i nostri avversarii.
«M’avvicinai a lui, associandomi di tutto cuore alla sua domanda. Quali e quanti pensieri mi vennero in quel momento! Invece di quello stato febbrile in cui sogliono ordinariamente trovarsi quelli che si vedono alla vigilia d’un duello, io provava al contrario un benessere, una speranza dolce e benefica, sì rara, in simil caso, ma di cui ne sentiva tutto il pregio. Dopo il Signore, era all’amico ch’io dovea questo stato di mansuetudine e di tranquillità. Oh! come di cuore io pregava Dio di spargere la sua più preziosa benedizione sopra di me, in un momento, in cui l’agitazione e l’inquietudine sull’esito della lotta sogliono abbattere gli uomini i più coraggiosi, e le anime le più ostinate! E quest’amico tanto affezionato e tanto amante, la cui tenera conversazione, ed il vivo esempio mi richiamavano alla mente i giorni benedetti della mia fanciullezza, le sere felici della cascina, quando udiva la tenera voce di mia madre domandare al Dio delle misericordie di tenermi sempre sotto la sua santa guardia, oh! io sentiva per quest’amico un’indicibile gratitudine, ed il suo nome s’univa nella mia preghiera al nome tanto venerato di quella, da cui sarei ancora per sì lungo tempo diviso. Nell’alzarmi non potei frenar le lagrime, e mi precipitai fra le braccia di Marty, non potendo in quel punto esprimergli i sentimenti che parlavano al mio cuore. Esso era calmo.
«Alcuni istanti dopo, il silenzio della notte non era interrotto che dalla respirazione di Marty, leggiera e dolce come quella d’un fanciullo. Dormiva. L’emozione, ch’io avea provato, mi tenne desto per molte ore; finalmente la stanchezza mi vinse, e m’addormentai.
«Il giorno seguente, alle 6, fui risvegliato dall’arrivo dei due cacciatori. Cornault non mi parve aver conservato il contegno provocante del giorno precedente. Sia la conseguenza dei suoi insulti, sia il pentimento dei suoi oltraggi, forse la riunione delle due cause potevano aver influito sul cambiamento ch’io osservava in lui. Il suo compagno pareva più risoluto; e nulladimeno era giovanissimo. Nessuno può figurarsi quanto possa sull’armata francese il falso punto d’onore; un soldato si terrebbe per disonorato, se per cosa la più vana, e talvolta per una creatura cui non ardirebbe neppure offrire il braccio per traversar la piazza del suo villaggio, se, dico, per la causa la più ingiusta, non fosse pronto a sguainar la sciabola, che dovrebbe rimaner nel fodero finchè il nemico è presente. Il mio amico lo pregò di volersi sedere sino a tanto ch’io fossi pronto, e ch’egli avesse finito i conti che dovea rimettere al capitano, aggiungendo che il sonno s’era prolungato oltre il suo desiderio.
«Il giovine sergente depose allora sul baule due spade che avea tenute nascoste sotto la sua tunica.
«Io era risoluto d’aspettare in silenzio il risultato di questo abboccamento; e se dei dubbii mi fossero rimasti sul suo esito felice, l’aspetto placido e tranquillo dell’amico me li avrebbe tosto dissipati. Io e Marty finimmo quasi nello stesso tempo i nostri conti. Dopo aver messo i suoi libri e le sue carte in ordine, se n’andò verso i cacciatori, i quali s’alzarono vedendolo. Allora, come se si fosse trattato d’una semplice riconoscenza, e dopo aver presa una delle spade che fece piegare sul pavimento, chiese a Cornault se per caso non fosse parente d’una persona, che portava il suo nome e che abitava in un borgo del dipartimento della Droma. — È mio padre, rispose questi, tutto confuso d’una così inattesa domanda in simile circostanza. — Ho avuto l’onore d’esser stato ricevuto da lui due anni sono, ed io era lungi dal pensare che un giorno vostra madre avrebbe saputo ch’io mi sarei battuto in duello col figlio, di cui abbiamo sì sovente parlato. — Mia madre vi parlò dunque di me? Oh! buona e cara madre, disse sospirando e lasciando libero il corso ai suoi pensieri, che, riconducendolo alle più belle rimembranze, sembravano allontanarlo dall’oggetto pel quale era venuto. — Scena di tenerezza! disse allora ironicamente il giovane compagno. — Cornault non parve intenderlo, poichè rispose: — Mio padre era mercante: eravate voi viaggiatore di commercio? — Io era incaricato di distribuire i libri che dovrebbero trovarsi in tutte le case, e spero che Iddio mi farà la grazia di poter un giorno contribuire a questo risultato tanto desiderato. — Ma quai libri? — Simili a questi, disse Marty, nel presentargli il Nuovo Testamento ch’era rimasto sulla tavola da lavoro. — Che! voi eravate incaricato di distribuire le Bibbie, e siete soldato! Ma allora... e Cornault apre il libro, e lo volge, e lo rivolge con aria confusa. — Volete fare una predica in tre parti? disse il giovinotto; v’assicuro che son venuto qui per tutt’altro, e che sarebbe tempo di finirla. Ho un appuntamento alle nove e non voglio mancare.
«Non saprei dire quel che si passava nella testa di Cornault; ma quest’uomo, ch’io avea veduto la vigilia pieno di vanità e d’odio, mi pareva trasformato. Lo guardai, e vidi che i suoi occhi erano fisi sopra una pagina, che Marty avea letto il giorno precedente: — «Tu raunerai dei carboni accesi sopra il suo capo,» disse a mezza voce, poi: «Vinci il male per il bene,» disse più forte. Per pochi istanti parve riflettere, e, rimettendo il libro a quello che avea provocato, soggiunse: — Jeri accettaste le mie ingiurie, oggi volete accettare la mia mano in segno di riconciliazione? — Con piacere, disse vivamente Marty. — Voi scusate... — Non parliam più di quest’affare; preferisco acquistar un amico, al battermi con lui. — Ebbene! gridò il giovin sergente; pensate voi dunque che la cosa finirà così?... Ho voce in capitolo; son venuto per dare o ricevere una stoccata, e lo voglio. — Che si fa qua dentro? disse allora una voce. Nel volgerci, scorgiamo il nostro capitano sulla porta. Entra. — Eh! che! delle spade! un duello forse!... a che proposito? È Marty? è Francesco? E voi altri, cacciatori, con chi volete battervi? Qual’è il vostro nemico? Osserva l’aria risoluta del giovane, e gli va incontro: Voi siete probabilmente l’interessato principale nell’affare, che vi teneva occupato quando sono entrato, imperocchè ho inteso le vostre parole. Qual è, ripeto, di questi due bravi Zuavi il vostro nemico? Rispondete...... Non siete voi nella compagnia Garnier?...... — Sì, capitano; noi siam venuti per terminare una piccola querela, ed ora si tratta di tutt’altro, e pel momento non voglio....... — Lo vogl’io, rispose il capitano. Ignoro e voglio ignorare l’aggressore, ma il vostro contegno me lo dice abbastanza. Come! mentre ogni giorno abbiamo da fare cogli Arabi, disporreste voi adesso della vostra vita e di quella d’un altro, e forse per cose da nulla? Non soglio condannar la bravura, ma odio la temerità di coloro che espongono la vita loro nell’unico scopo di provare che non sono paurosi. Sappiate dunque, e per sempre, che i vostri superiori poco ammirano questa vanità puerile, che riunisce i due caratteri dell’omicidio e del suicidio. Si punisce giustamente il soldato, che si mutila, come disertore della bandiera: a parer mio, il duello è una doppia mutilazione. Conservate il vostro sangue per l’ora della polvere; e, se soccomberete, non sarà almeno sotto i colpi d’un compatriota, d’un confratello d’armi: e potrete dire, ma con più verità: L’onore è soddisfatto!
«Il giovane non rispose.
«Cornault cominciò a parlare: — Capitano, io solo sono il colpevole. Il mio di già amico Carlos m’accompagnava il qualità di secondo, e, quando siete giunto, io m’era riconciliato con Marty, ch’io avea jeri gravemente offeso. Non mi scuserò certo col dire ch’io era ubbriaco, perchè non farei che aggravare maggiormente il mio fallo. Ora che rifletto quanto sia stata indegna la mia condotta, innanzi a voi prego questi signori d’accettare le mie scuse e quelle di Carlos, il quale potrà prendere la sua rivincita quando la polvere parlerà. — In fatti tu hai ragione, disse Carlos con una vivacità tutta francese; e ci stese ambe le mani, che noi stringemmo cordialmente. — Ebbene! ora vedo che siete dei bravi giovani, disse con bontà il capitano; e son persuaso che v’associerete con piacere alla felice notizia, ch’io veniva ad annunciare a Marty. — Oh! certamente, rispondemmo tutti, ma senza comprendere di che si trattasse.
Il Capitano prese allora la mano di Marty, e stringendogliela, disse con una lagrima furtiva negli occhi: — Ho domandato al generale la permissione d’essere io il primo a parteciparvi che siete stato nominato cavaliere della Legione d’onore per la vostra bella condotta al ritorno da Medeah. La vostra modestia non ci ha potuti illudere, e tutta l’armata sa con quale intrepidezza avete sostenuto, alla testa di pochi bravi stimolati dal vostro esempio, i primi assalti dei cavalieri dell’emir; ciò che permise ai corpi della retroguardia di sostener l’urto, e per conseguenza assicurò il passaggio della gola. — Grazie, capitano, disse solamente il mio amico, troppo commosso per poter aggiungere una seconda parola. — Ebbene! disse Carlos, voglio anch’io congratularmi col nostro camerata Marty. Definitivamente questo è più piacevole della conversazione di poco fa. Se il capitano lo permette, io propongo di inaugurare la nostra croce al caffè qui vicino. — Se tu desideri veramente trincare coi nostri amici, credo attualmente di conoscere abbastanza Marty per supporre che, senza disprezzare il caffè, preferirebbe che la scena avesse luogo qui; ciò che ci permetterebbe d’invitare il capitano. Vado a far portare una bottiglia. — E, senza attender la risposta, Cornault si slanciò fuori della camera, e, un momento dopo, rientrò col garzone della locanda, carico d’una modesta colazione, che fu accettata da tutti colla più franca cordialità.
«Questa giornata, cominciata sotto i più felici auspicj, si prolungò con una passeggiata nei dintorni d’Algeri, in compagnia dei nostri camerata, i cacciatori. Eravamo allora verso la metà di febbraio. Nel nostro paese ordinariamente in quest’epoca i campi sono ancora coperti d’uno strato di neve, e gli alberi, privati delie loro foglie, sembrano morti. In quelle belle contrade, accarezzate dal sole, il grano, l’orzo, il trifoglio e la cedrangola coprono la terra d’una bellissima verzura e d’abbondanti pasture; i meli, i ciriegi, i cedri, i melaranci, esposti a pien meriggio, lasciano cadere i lor fiori; di già i frutti allegano; si fa la raccolta delle fragole, dei piselli e d’ogni sorta di legumi. Il fiore del fico sta per sbucciare. I mirti, i cipressi, la lavanda, profumano l’aria colle loro soavi emanazioni. Sul verde, più o meno denso, delle macchie e delle siepi, le corolle dei rosai selvatici spiccano come brillanti stelle, e l’oleandro forma sulle sponde dei ruscelli una striscia color porpora, che indica la tortuosità del loro corso.
«Tutti questi beni sono stati mandati da Dio sopra un suolo sempre lacerato dalle guerre o dalla schiavitù. Le nostre aspirazioni ci portavano ai tempi della pace futura. Verrà un giorno, ci diceano, in cui il cannone, reso inerte, lascerà raccogliere all’agricoltore due volte l’anno la sua messe; il deserto, purgato de’ suoi mostri, sarà solcato dalla nera locomotiva, ed invece di sentire le gole del calvo Atlante rimbombare del ruggito del leone, un dolce concerto s’innalzerà verso il cielo, maravigliato dalla moltitudine di quelli che avranno ricevuta la buona novella, e ringrazieranno il Signore d’aver dato loro la tranquillità dell’anima, e la fede coll’amore e la carità. Era un bel sogno, non è vero? Ebbene! credo che se noi non lo vedremo effettuare, quelli, che verranno dopo di noi, potranno veder nascere quel giorno di felicità, se, abbandonando gli strumenti guerrieri per prendere le armi del lavoro, si lanceranno innanzi colla parola di Dio nel cuore e nelle opere.
«La sera, quando rientrammo in Algeri per la stessa strada, che avevamo fatto il giorno precedente, Cornault, nel passare innanzi a quella casa, testimonio della sua follia, ci assicurò che mai più in vita sarebbe entrato in un luogo simile, ed ho tutte le ragioni di credere che avrà mantenuta la parola. — Non potrò più abbracciare la mia povera madre senz’arrossire, ci disse; e poi ho un’altra imagine nel cuore, di cui non voglio più macchiare la rimembranza.
«Trascorsero così parecchi mesi nell’effusione d’una dolce amicizia; i buoni consigli di Marty disposero quei due giovani a ricevere il Vangelo.
«Verso questo tempo la nostra compagnia fu mandata in distaccamento al campo di Douera, e questa nostra separazione fu veramente dolorosa, poichè i cacciatori si fermarono in Algeri. Il giorno della nostra separazione, Cornault domandò a Marty se desiderava portar con sè il Nuovo Testamento. — Non potrei farne a meno, rispose questi, ma ne avete uno? — Sì: solamente sperava che mi lascereste in cambio del mio, quel libro, al quale io vado debitore e d’un amico, e di migliori sentimenti. — Oh! volentieri, rispose Marty.
«Il cambio si fece, e gli occhi del cacciatore brillarono di gioia quand’ebbe nelle mani l’oggetto dei suoi desiderii. Compresi la sua emozione, ricordandomi la scena della riconciliazione.
«Noi ci lasciammo, promettendoci di scriverci, e Carlos disse che sperava di raggiungerci presto, — poichè, soggiunse, sento che ho bisogno della vostra presenza; non sono ancora tanto avanzato quanto Cornault. Pregate Dio per me. —
«Il campo fortificato di Douera è piantato sulle colline di Sahel, presso la strada tracciata dai Francesi, che mena da Algeri a Blidah, traversando la pianura della Mitidia. Vi arrivammo sul far della notte. Non v’è espressione, che meglio valga a dipingere questo denso velo, che in meno di cinque minuti, inviluppa in Algeria l’intera natura.
«L’aspetto d’un campo, vera cecità di guerra, cambia di giorno ad ogni istante; la notte, quando presenta l’imagine del riposo, il tamburo di veglia allo stato maggiore batte un numero di colpi eguali a quello delle ore.
«Dopo un mese di soggiorno dovetti separarmi dal mio amico, poichè mi mandarono, con quindici uomini, ad occupare un alloggiamento situato fra Dely-Ibrahim e Douera. Era stato fatto sergente.
«Da alcuni giorni noi eravamo a Hazel-Kroudia, quando una mattina me ne andava a fare una riconoscenza con altri cinque uomini. La nebbia era folta; ciò che accade spesso in questa città, in cui le notti sono sempre fresche. Appena si vedevano gli oggetti ch’erano alla distanza di pochi passi, e camminavamo sempre con precauzione e silenzio. Al girar del burrone fummo sorpresi da cinquanta cavalieri hadjoutes, i più sfrontati saccheggiatori dell’Africa. Eravamo circondati: malgrado il loro numero e l’impossibilità della ritirata, femmo resistenza, salutandoli con uno sparo, che stese a terra diversi. Si sparpagliarono secondo il loro costume arabo, descrivendo curve eccentriche, e risposero con uno sparo, che ferì gravemente due dei miei uomini; poi si scostarono per alcuni istanti: noi speravamo d’esserne sbarazzati, quando, allo spuntar del sole, ce li vediamo in linea ed immobili, e ad una distanza tale, che le nostre palle non potevano raggiungerli. Siccome coi loro lunghi schioppi aveano già uccisi due dei nostri, risolvemmo di caricare alla baionetta, e di procurare di raggiungere il nostro posto. Noi ci scagliammo; ma dopo pochi passi il nemico uccise tre dei miei compagni. Vedendomi circondato da sì gran numero di nemici, pensai che fosse venuta la mia ora estrema: in un momento così solenne inclinai la fronte, e pregai; indi m’alzai pieno di risoluzione e d’una fiducia tale, che a Dio solo ne attribuiva l’ispirazione.
«Mi preparava dunque a riceverli, e di già ne prendeva la mira, quando mi sentii alzar da terra. M’aveano lanciato un uncino per di dietro, e mi trovai sulla groppa del cavallo. I cavalieri si diedero alla fuga dopo aver tagliata la testa ai miei sventurati compagni.
«L’allarme era stato dato dal campo di Douera. Avevano udito la fucilata. Vidi da lontano uno squadrone di cacciatori; ma tosto lo perdetti di vista, poichè gli Hadjoutes profittarono della pratica del paese per sottrarsi agli sguardi dei Francesi.
«Dopo aver corso per più di tre ore, vedendosi al sicuro, si fermarono. Mi tolsero tutti i miei effetti di vestiario meno i pantaloni, e, a piedi nudi, attaccato ad una corda, fui costretto di seguitarli così per due giorni consecutivi; finalmente, vedendomi privo di forze e coi piedi tutti laceri, mi gittarono sopra un cavallo onde continuare il loro cammino.
«Arrivammo in tal modo al campo del califha Sidiben-M’barak, al quale mi presentarono onde ottenere il premio fissato. Ricevettero otto pezze dure di Spagna (44 lire).
«Io era veramente infelice, e, ciò non ostante, provava una dolce consolazione nel pensare che m’era riuscito di salvare il libro che, mia madre m’avea dato, tenendolo sempre nascosto nella fodera dei miei pantaloni.
«Ma i miei tormenti non erano ancora finiti. Rimesso nelle mani d’altri Arabi, che dovevano condurmi al campo dell’emir Abd-el-Kader, fui obbligato di camminar di nuovo, non ostante la mia debolezza e lo stato orribile dei miei piedi; quando cadevo, mi forzavano a correre col darmi delle bastonate.
«Dopo due giorni di cammino, ci fermammo in una tribù, che poc’anzi i Francesi avean punita delle sue depredazioni. I combattenti andavano erranti pelle montagne, ma le mogli ed i figli, che la sconfitta avea resi furiosi, m’assalirono a sassate. Io non poteva risponder loro, e n’approfittarono, sputandomi sul viso, ed imbrattandomi di terra stemprata, e di mille altre lordezze. La sera mi legarono ad un palicciuolo fuori delle tende, ed i miei guardiani si coricarono presso di me: l’un d’essi adagiò la sua testa sulle mie gambe per tema che potessi fuggire.
«Dopo quindici giorni, dietro varie marcie e contromarcie onde evitare i Francesi in ispedizione in questa parte del paese, e sempre maltrattato, in una situazione che non m’è possibile di descrivere, giungemmo al campo dell’emir, allora nella pianura di Milianah. Il chaouh (boia) mi mise i ferri ai piedi ed al collo, ed in questo stato, dopo avermi tolto il mio libro, ch’io avevo potuto sino allora conservare, mi presentò ad Abd-el-Kader.
«Quando entrai nella sua tenda, stava seduto sulle sue calcagna, tenendo una corona nella mano destra come immerso in una specie d’estasi religiosa. Mi fece varie dimande sulle navi cariche di soldati, ch’eran giunte in Algeri. — Non mentire, Nazareno, so quel che fate; — e mi fece vedere un pacchetto di giornali francesi. Gli risposi che doveva sapere le notizie meglio di me, prigioniero da tre settimane e più. — Dimmi la verità: vi sono molti soldati su queste navi? — Abbastanza per intanarti nel deserto. — Cristiano infame, credi tu, perchè siete numerosi come i grilli, oggi qua domani là, dappertutto i padroni del campo, che sarete sempre felici? Un ruscello di sangue vi rigetterà nel mare, donde siete scaturiti. — Se ciò accadesse, ne verrebbero degli altri. La Francia è piena di soldati. — Poi, tutt’ad un tratto: — Vuoi domandarmi qualche cosa? — Lasciami ritornare in Algeri, e fammi prima restituire il libro che i tuoi uomini m’hanno rubato. — Che libro è? — La Parola di Dio. — Ordinò, ed immediatamente mi fu recato il Nuovo Testamento. Dopo averlo alquanto esaminato, me lo restituì, dicendo: — Tuo libro dice che Dio ha un Figlio. È una bugia. Allah non ha eguale, poichè Desso è unico. Il Figlio di Maria è un inviato come Maometto. Sono agli occhi suoi, ciò che è Adamo, fatti di polvere. Non esiste che una religione: è quella che Allah raccomandò a Noè, che fu rivelata ad Abramo, a Mosè, a Gesù, a Maometto. Vuoi abbracciarla? Ti darò un grado nella mia armata; avrai tende, cavalli bellissimi, molta polvere e ricchezze grandissime. — M’hai reso il mio libro, te ne ringrazio; ti piaccia ordinare che non mi sia più tolto. M’è stato detto che tu hai una buona madre, il di lei nome e pervenuto nei nostri campi; i nostri soldati, tuoi antichi prigionieri, hanno conservato d’essa una buona rimembranza, e venerano la buona Lella Zahra. Ebbene! sappi che questo libro è l’ultimo dono che mi fece la madre mia. - Parve commosso, e mi disse: - Te l’ho fatto restituire; d’ora innanzi nessuno te lo toccherà. Ma divieni credente, accetta ciò che ti propongo. — Non posso tradire nè il mio Salvatore, nè la mia patria. Ti dirò a mia volta: fatti cristiano, e vieni a noi: perderai forse il prestigio di cui sei circondato: ma Dio te lo renderà cento volte per uno quando ritornerai verso lui. — Sei un pazzo: vattene. — Uscii e non lo rividi più, poichè mi mandò a Tekempt, ove trovai alcune centinai di Francesi prigionieri, ed alcuni operai ch’egli aveva ottenuti col trattato della Tafna, occupati a fabbricare della polvere e delle armi. La loro miseria era estrema. Battuti costantemente, malamente nutriti, esposti durante il giorno all’ardore d’un sole cocente, ghiacciati la notte, quasi nudi, senza coperte, morivano in gran numero, ed ogni giorno se ne seppellivano parecchi. La mia sorte non fu più felice per un mese, che ivi passai. A quest’epoca ebbe luogo la spedizione dei Francesi su questa città e ci diressero verso Tlemcen.
«Io ed i miei sventurati compagni provammo di nuovo tutto ciò che la crudeltà degli Arabi ha potuto inventare, per saziar l’odio che nutrono contro i Cristiani. Snervati, battuti costantemente, tracciando il nostro cammino coi cadaveri di quelli che soccombevano, rimanemmo circa tre mesi per istrada. I nostri guardiani, onde evitare i Francesi che occupavano la pianura, ci fecero viaggiare in tutte le direzioni. Ripassavamo spesse volte nelle contrade già percorse; ci accadeva di trovare frammenti di divise conosciutissime; degli ossi sparsi qua e là ci accennavano che le iene avevano divorato il resto dei nostri poveri camerata. Bisogna veramente che io sia stato sostenuto dalla gran bontà di Dio, poichè ho potuto sopportare tutta questa miseria serza mormorare. Ahimè! molti dei nostri, estenuati dalla ferocia dei nostri carnefici, resi quasi pazzi, non vedendo verun altro mezzo d’evitare i loro colpi, s’ingegnavano d’eccitare ancora la loro perversità, sperando di finirla così sotto i colpi dell’yatagan. Io mi provava di dar loro consolazioni e speranza, ma se mi fu dato di salvarne alcuni dalla disperazione, altrettanti mi respinsero aspramente. Quant’erano da compiangere!
«Finalmente Tlemceu apparve agli occhi nostri. Questa città, colle sue contrade strette e storte, ma piene di bei giardini ornati di pergole, è rinfrescata da numerose fontane. Era per noi una specie di rifugio, e speravamo qualche sollievo alle nostre sofferenze. Ma le nostre speranze furono vane.
«Ci fecero per qualche tempo lavorare alla fonderia dei cannoni, poi c’inviarono verso il sud, circa venti leghe lontano, per la costruzione d’una fortezza. Il pugno d’orzo quotidiano che facevano cuocere nell’olio rancido, non era sufficiente pel nostro sostentamento; profittavamo delle corse che ci facevan fare nella selva, per raccoglier della ghianda, nel tempo che facevamo il fascio di legna, ch’eravamo tenuti di riportare alla fortezza. Ma questa povera risorsa ci mancava spesso; così, privi di tutto, obbligati di dormire sulla terra nuda, senza una coperta per ripararci dal freddo eccessivo delle notti, due o tre dei nostri camerata morivano ogni giorno. Ci era ben permesso di sotterrarli, ma le nostre mani, divenute troppo deboli, non potevano scavare profondamente le fosse, e le bestie feroci se ne nutrivano.
«Ci impiegarono quindi a far dei solchi per le biade. Un giorno che i guardiani s’erano alquanto scostati, mi venne l’idea di prendere la fuga. La combattei, dicendomi, che avendo saputo resistere alle torture, dovea pure rimanere per consolare moralmente i miei compagni d’infortunio; manifestai il mio progetto ed i miei dubbii ad alcuni dei prigionieri che lavoravano meco. Risposero che la fuga era difficilissima; e che, quand’anche fossi riuscito a sottrarmi alle ricerche dei soldati d’Abd-el-Kader, sarei infallibilmente caduto nelle mani degli Arabi; che, se avessi potuto raggiungere il Marocco, dal quale dovevamo esser poco discosti, non era già certo che non sarei stato fatto nuovamente prigione; ch’essi erano rassegnati d’aspettare, pensando che i Francesi li porrebbero in libertà un giorno se fossero pervenuti a scampare dalle fauci delle tigri e dei leoni. Questa risposta m’afflisse amaramente, sopratutto vedendo il misero stato morale in cui si trovavano que’ poveri giovani. — I Francesi liberarci! diss’io vivamente; oh! so bene che se i nostri bravi generali sapessero che siamo qui, farebbero ogni sforzo per liberarci; ma lo sanno essi forse? possono forse supporre che vi sieno prigionieri in un luogo così poco distante dalla provincia d’Orano?... Ebbene! lo sapranno, colla grazia di Dio. Ho deciso; partirò solo, poichè non volete seguirmi; e fra breve, oso sperarlo, ci rivedremo. — Francesco, mi disse l’un d’essi, tu sei un bravo giovane; tu ti farai arrestare, non ci sarai d’alcun giovamento, e perirai quindi sotto il bastone. — Non cercate trattenermi, amici miei; ho esitato alquanto all’idea ch’io vi lasciava come un vile egoista; ma mi sta a cuore d’eseguire il mio progetto: ora che ho la speranza d’esservi utile, se ho la disgrazia di morire in queste vaste pianure, o sotto i colpi degli Arabi, mi rimarrà ne’ miei momenti estremi la consolazione di non aver causata la perdita d’un camerata. All’opposto, se riesco, darò le vostre nuove al primo posto francese che potrò trovare; Dio farà il resto. —
«I miei compagni, non insistendo più, io m’apparecchiai a partire; dopo averli abbracciati, ed accettato come provvisione una parte della loro magra pietanza del giorno, mi posi in viaggio. Non fu certo senza aver domandato l’assistenza di Colui da cui viene la liberazione. Quelli che rimanevano, s’unirono alla mia preghiera in un’intima comunione. Finalmente li lasciai.
«Erano circa le cinque. Il mese di luglio stava per finire, ed il caldo era eccessivo. Risolsi di tenermi nascosto il giorno, e di camminare la notte, onde evitare i raggi cocenti del sole, e le persecuzioni degli Arabi. M’incamminai dunque verso la selva ove solevamo cercar la legna, ed aspettai la notte.
«Allora, senza conoscere la direzione ch’io seguiva, camminai fino al mattino. Allo spuntar del giorno, vedendomi solo in una piccola pianura deserta, limitata da ogni parte dalle montagne coperte della più ricca vegetazione, riconobbi ov’era, e continuai il mio cammino verso il norte ponente, onde avvicinarmi alla frontiera del Marocco e raggiunger le terre spagnuole.
«Camminai così per tre notti, riposandomi e nascondendomi durante il giorno. Le campagne che attraversai erano fertilissime. I lentischi, i palmizi e molti altri arboscelli crescono naturalmente in quella contrada, e potei così trovare un ricovero ed anche la mia sussistenza, che si componeva d’un frutto, il cui colore era simile alla nespola, e rinchiudeva un nocciolo. Mangiava pure il cuore della radice del palmizio, quando m’era dato di poterlo estrarre. Ma, quantunque tormentato dalla sete, io era meno a compiangere di quello che stando fra gli Arabi, ed aveva innanzi a me la speranza, che mi sosteneva, e che mi faceva scordare le lunghe sofferenze d’una prigionia di sedici mesi. Dio mi fortificò, e lo ringraziava, pregandolo di non lasciarmi mai obbliare ch’Ei m’avea sostenuto nelle tribolazioni, e d’accordarmi la perseveranza nella preghiera, e le virtù, che sono la vera forza del soldato cristiano.
«Un mattino del quarto giorno dopo la mia fuga, io m’era sdraiato sotto alcuni alti buscioni formati dalla riunione confusa di varie pianticelle, quando fui sorpreso da un pastore, che si diè ad osservarmi attentamente. Di già io pensava di raccomandarmi alle proprie gambe, quand’egli mi disse: — Non temere: sono amico dei Francesi; ti condurrò nel mio gourbi; le donne ti riceveranno. —
«Io non sapeva che risolvere. La fuga era impossibile; ei m’avrebbe raggiunto. Facilmente ricordava il proverbio: Coll’Arabo sii sempre diffidente.» Mi ricordava pure d’un prigioniero fuggitivo, e ricondotto nella fortezza di Tafraoua dai pastori, e che fu condannato dal kaid a ricevere duecento colpi di bastone. Ma egli riprese: — Sono stato ben trattato dai tuoi fratelli: Dio ne sia lodato! Son contento di servire quelli che conoscono la giustizia ed il bene. — Finalmente presi la risoluzione d’accompagnarlo. Giunti al douair, i cani annunziarono il nostro arrivo, ed entrai col mio conduttore sotto una tenda d’una stoffa di cammello, solidamente legata a terra e sostenuta nel centro da un palo alto sette piedi. Due donne eran ivi sedute sulle loro calcagna colle braccia incrocicchiate sui loro kailks. — Nazareno, mi disse una di esse, sii il ben venuto, l’inviato di Dio! —
«Mi presentarono un piatto pieno di couscoussou, specie di pasta rotolata sopra un setaccio, e cotta al vapore del brodo. Da molto tempo io non avea fatto un sì buon pasto, ed erano quattro giorni che vivea di frutta e di radici. Non sarete sorpresi di sapere che mangiai con piacere questo cibo nutritivo; esso mi rammentava la buona tartara della Fiandra; e poco fa, amici miei, nel vedere quelle che mia madre preparava così bene, mi sono ricordato del couscoussou di Ben-Aida. Ho conservato il nome del mio generoso amico della frontiera del Marocco: senza di lui, credo che non m’avreste visto mai più. M’esortò a riposarmi il rimanente del giorno, aggiungendo di tenermi pronto pel giorno seguente, perchè i suoi vicini potrebbero, se mi scoprissero, ricondurmi nella fortezza di Tafraoua. Mi disse pure che noi eravamo distanti appena dieci leghe da Melillah, città occupata dagli Spagnuoli.
«Dacchè io era partito d’Algeri non avea più dormito così bene; il sole era al suo tramonto, quando mi sentii chiamare dal mio ospite. Le donne entrarono: seppi allora che una era sua madre, l’altra la sua compagna. Egli aveva servito l’emir nei regolari. Fatto prigione dai Francesi, e detenuto a Marsiglia, vi fu perfettamente trattato. Reso alla libertà, s’era di nuovo dedicato alla cura dell’armento, e s’era quindi ammogliato.
«Facemmo un pasto composto d’arrosto di castrato, di cocomeri e di datteri; latte, divenuto agro, fu la nostra bevanda. A notte uscimmo dal gourbi. Due cavalli stavano attaccati ad un palicciolo. Ben-Aida e le donne s’inginocchiarono per la preghiera del tramonto (salat el maghreb); io pure mi prostrai, e pregai Dio affinchè si degnasse guidarmi durante questa notte, in cui dovea veder finite le mie sofferenze. Nell’alzarsi, l’Arabo mi porse la mano: — Bene tu veneri Aissa, l’animo di Dio (Gesù Cristo); i tuoi fratelli non l’implorano mai, almeno quelli che ho conosciuti; son contento di poterti esser utile, poichè vedo che sei un servitore d’Allah. — Poi andò ad inginocchiarsi innanzi a sua madre, che invocò sopra di lui la benedizione dell’Onnipotente.
«Abbracciò la sua cara Fatmè, e saltò in sella. Salutai quelle due degnissime donne, e ci allontanammo al galoppo.
«Durante questa rapida corsa, restammo alcune ore senza pur scambiare una parola, ed il silenzio perfetto della notte non era interrotto che dai gridi di qualche banda di lupi dorati, che si facevan sentire nelle profondità del burrone, o sulle cime dei monti, che percorrevamo.
«Verso mezzanotte rallentammo il passo; alle tre ci fermammo. — Aspettiamo il sole, mi disse Ben-Aida: non hai più nulla da temere; appena il sole rischiarirà il lago, che abbiam costeggiato, scogerai le bianche mura di Melillah. —
«La notte era bellissima, l’aria tiepida, un zefiro leggiero recava sino a noi l’emanazioni marine. Io respirava con piacere questi profumi, che mi parlavano della patria lontana. La debole luce delle stelle mi permetteva di scorgere la bianca stoffa che designava il corpo agile e svelto del figlio del deserto, ed io ringraziava Dio d’averlo posto sul mio cammino. Il giorno spuntò, e raggiungemmo la spiaggia. Nel porre il piede sulle sponde di questo mare, che non avea più veduto da sì lungo tempo, dimenticai i miei sofferti dolori, ed in uno slancio d’amore apriva quel libro ch’io avea salvato, e che m’avea sempre parlato della salvezza, anche nell’eccesso della mia miseria.
«Una navicella si trovava all’àncora, fui cordialmente ricevuto da un pescatore, che mi mostrò a qualche lega il posto desiderato. Lasciato il mio liberatore, che, stendendo ambe le mani sul mio capo, invocò la protezione d’Allah pel soldato franco. Lagrime di riconoscenza empirono i miei occhi allorquando vidi allontanarsi lentamente quell’uomo tanto buono ed affettuoso. Spesse volte ho vivamente desiderato di poterlo rivedere, ma non mi fu data questa sorte. Indi approdai alla penisola spagnuola.
«Mellilah, una della quattro fortezze che la Spagna ha conservate sulla costa africana, è inespugnabile; e quantunque, al dir dei geografi, abbia un aspetto triste e monotono, ella mi pareva un Eden. Allo sbarco fui ricevuto dagli ufficiali e dai pochi soldati della guarnigione. La notizia del mio arrivo si sparse tosto in tutta la città, e tutti mi colmarono di cortesie e di congratulazioni. Sapevasi che dei prigionieri esistevano non molto lontano, e che erano stati dati ordini dal governatore di ricevere convenevolmente quelli che sarebbero venuti a cercarvi un asilo. Fui alloggiato da un vecchio capitano, che avea servito nella nostra armata nei tempi dell’occupazione francese sotto l’impero. Sua moglie, nata in Francia, m’accolse da compatriota, e, durante otto giorni che passai in casa loro, m’usarono cortesie tali, di cui non mi scorderò giammai. Mi diedero un vestiario decente, poichè non è d’uopo che vi dica ch’io era appena coperto di pochi cenci.
«Lasciai questa terra ospitale, e questa buona gente, versando molte lagrime. Mi rincresceva veramente di dovermi separare da loro. Così il nome del capitano Sanchez e quello di Ben-Aida vivranno nella mia memoria finchè avrò un soffio di vita, e prego Dio che loro dia, colla sua grazia, la fortuna di conoscerlo e d’adorarlo come il sol Padre ed il solo Salvatore.
«Presi posto sopra una galeotta che facea vela per Algeri, ed in breve sbarcai in questo porto con dei sentimenti cristiani fortificati dall’avversità.
«A stento fui riconosciuto. Mi credevano morto. Fortunatamente la mia compagnia, allora in ispedizioni nei dintorni del paese ov’io era stato detenuto, avea lasciato alcuni uomini in Algeri, e, fra questi, il mio degno Marty. Non posso esprimermi quale fu la nostra contentezza di ritrovarci. Io piangeva. Esso sempre calmo, mi disse con accento penetrato: — Dio m’ha esaudito, ti rivedo. — Lo interrogai sulla sorte dei nostri compagni, e seppi con mio gran dispiacere, che Carlos era morto in un combattimento di Bab-el-Taza contro Abd-el-Kader. Il nostro amico l’avea visto cadere, ed avea potuto raccogliere le ultime sue parole. Pieno di fede e di speranza nel perdono, Carlos s’era sentito sotto la mano di Dio, ed il passo, cui il soldato deve sempre tenersi pronto, era stato fatto dal giovine fratello con una rassegnazione piena di fiducia nell’Eterno.
«Cornault era per ritornare in Francia. Suo padre era morto: egli avea potuto ottenere un congedo illimitato per andare a consolare la sua povera madre. Lo vidi prima di partire, ed ebbi la consolazione di sapere che continuava a camminare nella via, nella quale Marty ci aveva fatti entrare l’uno e l’altro. Ci fece promettere d’andargli a fare una visita.
«Appena giunto in Algeri, fui chiamato dal governator generale; la mia prima cura fu di chiamare la sua attenzione sui nostri sventurati prigionieri. La loro esistenza presso degli Arabi era conosciuta, ma ogni relazione con Abd-el-Kader era interrotta, e la loro liberazione era presentemente impossibile.
«Dio mandò due uomini per condurre quest’opera a buon fine: il signor Dupuch, vescovo d’Algeri, cominciò le negoziazioni, ed il sig. Suchet, suo vicario, andò solo a trattare dei prigionieri con un luogotenente dell’emir. Quest’opera fu coronata d’un pien successo; e mi fu dato di vedere e stringere sul mio cuore alcuni dei miei amici di cattura.
«D’indi in poi, io e Marty prendemmo parte ai diversi affari, in cui si trovò impegnata la nostra compagnia. Ma mi sembra inutile di farne menzione: voi avete potuto leggerne la relazione nei giornali degli ultimi anni.
Il mio amico ottenne il suo congedo nel 1843, dopo la grande spedizione nell’Ouarensenis. Vi guadagnai la croce d’onore. Marty dovea esser fatto fra poco ufficiale, ma la sua missione militare essendo finita, gli premeva di riprendere quella per la quale si sentiva chiamato, e in grazia della quale posso assicurarvelo, gode di già dei frutti benedetti nella contrada di cui è divenuto il precettore.
«Nel 1845, passai col grado di sergente maggiore in un reggimento di linea, ed ho seguito l’esempio del mio amico, ricusando le spallette per venire fra le braccia della mia cara madre, e non lasciarla mai più: è dessa che ha deposto in me la semenza che un degno amico ha innaffiata, e che Dio farà crescere colla sua grazia sotto i raggi benefici del suo infinito amore.
«Al mio ritorno in Francia, ho potuto incontrare a Valenza, Cornault e Marty. Il primo ha sposata una donna dolce e pia, ch’egli conosceva fin dalla sua infanzia, e che gli avea promesso d’attendere la fine del suo servizio. — Vedi, mi disse, io non era degno di tanta affezione quando;... ma Dio m’ha perdonato.
«Marty non è ancora maritato, ma sono persuaso che dei legami più intimi l’uniranno ancora sempre più al suo antico antagonista della via della Casbah, e che la sorella di questi gli sarà un giorno di grande aiuto per contribuire a spagere nella gioventù la Parola di Dio.
«Possa il suo esempio inspirare a tutti quelli che la patria reclama, la fedeltà della bandiera, l’avversione dei piaceri impuri, e quell’amenità, che respinge ogni propensione a lasciarci vincere da un pregiudizio, che tende sempre più o sparire dai costumi militari, ma di cui si vedono ancora spesso dei risultati tanto funesti: il falso punto d’onore! Che il soldato non dimentichi mai, che, tanto nei giorni di trionfo quanto in quelli di tribolazione, è sempre sotto la guardia e sotto lo sguardo di Dio.»
Qui finì il racconto di questo bravo soldato, e di questo figlio tanto affettuoso.
Non abbiamo potuto resistere al desiderio di far pervenire la sua commovente istoria ai suoi fratelli d’armi, che combattono sotto la bandiera italiana. Possa questo racconto, col soccorso del Dio delle armate, ricordar loro nei tempi in cui la polvere parla, che è solo col praticar le virtù cristiane, di cui egli e gli amici suoi offrono un sì vivo esempio, che potranno dire con verità e fiducia: L’onore è soddisfatto!